Competenze, come e perché *
Le competenze come una conquista progressiva
Ormai di competenze si parla e forse anche troppo! E le scuole sollecitate dall’incalzare della normativa che si fa sempre più ridondante in materia, fanno quello che possono. Non mi meraviglia che ormai, fin da quando sono piccoli piccoli, i nostri bambini della scuola dell’infanzia sono tenuti anch’essi… ebbene sì, è proprio così, a raggiungere determinate competenze. Quando poi le vado a leggere, ecco qualche esempio. Indicatore, il corpo in movimento, competenze: il bambino conosce il proprio corpo, sa controllare il proprio corpo, sa muoversi adeguatamente in diversi contesti, rappresenta graficamente il corpo nei particolari. Non posso esimermi da alcune considerazioni. Mi domando: ma è proprio vero che ogni piccola/grande conquista che ciascuno di noi raggiunge nel suo sviluppo/crescita e nel suo apprendimento sia il segnale di una competenza? Indubbiamente sì, se intendiamo per competenza un saper fare ragionato e finalizzato a un qualcosa. Ma allora è anche una competenza aprire il rubinetto dell’acqua per lavarsi la faccia appena alzati dal letto? E lo stesso alzarsi dal letto è anche questa una competenza? Ne consegue che tutto ciò che facciamo abitualmente sarebbe sempre l’esito di un susseguirsi di competenze?
Ma torniamo al bambino. Appena nato è assolutamente dipendente: non sa far nulla, però… due cose sa fare, e non le ha imparate perché nessuno gliele ha insegnate… ancora! La scuola verrà molto più tardi… fortunatamente per lui! Sa respirare, dopo quel gridolino tanto atteso da mamma e levatrice, e, soprattutto, sa succhiare! Come se madre natura gli avesse regalato queste due opportunità! “Caro bambino! Respiri e succhi… e ringraziami, altrimenti saresti nato e morto subito! Ma, da ora in poi, il resto del da farsi, se vuoi sopravvivere, tocca a te!” Certamente, non è una madre molto generosa e qualche regalino in più poteva pur farglielo! Ma a bavaglini e maglioncini ci penseranno le zie e i parenti tutti!
Dopo quel fausto giorno il nostro nuovo nato dovrà fare tutto da solo! L’ambiente che lo circonda non è più quello caldo e protettivo dei nove mesi di gestazione: nel ventre materno doveva pensare soltanto a costruire tutto il necessario per nascere; non doveva né mangiare né bere perché l’alimentazione era tutta veicolata dal cordone ombelicale! Non vedeva, non sentiva, ma scalciava e smanettava, ogni tanto anche qualche ruzzolone, ma… l’ambiente era più che protetto… ah! che bella vita! Peccato! Dura solo nove mesi! Subito dopo cominciano i guai… grazie tanto che appena usciti al’aria aperta piangiamo a dirotto!
Ma tutto questo che cosa ha a che fare con le competenze? Presto detto: i primi due anni vita – poco più, poco meno – sono tutti dedicati alla “costruzione” – con tanto di virgolette – del corpo! Il neonato ha gli occhi e le orecchie, ma ancora non vede e non sente! Occorrono gli stimoli esterni, della luce, del colore, dei rumori, dei suoni perché vista e udito possano accendersi e svilupparsi. Occorrono gli stimoli fisici, il caldo/freddo, il nudo/vestito, l’interazione con gli oggetti perché possa toccare, distinguere il sé corporeo dal non sé fisico. Costruisce il suo corpo nella misura in cui impara a differenziarsi dall’ambiente fisico che lo avvolge, lo circonda, lo limita. Sono due anni di grande fatica oggettiva! Della quale comunque non sente totalmente il peso! La forza vitale che lo anima e lo sospinge nella vita gli conferisce una carica immane. Non solo! In questo processo di distanziamento dal fuori di sé e della costruzione del sé corporeo riesce anche a “giocare”! Ogni piccola conquista è seguita da un sorriso!
Ebbene! Ogni conquista è anche l’acquisizione di una competenza? Indubbiamente sì, se attribuiamo alla competenza un significato molto lato! In effetti il bambino, quando riuscirà ad afferrare un oggetto e poi a lasciarlo, costruendo il movimento della mano e delle dita, apprende le prime competenze del manipolare. Procedendo con il tempo e con gli anni, la manipolazione potrà anche esercitarsi sui tasti di un pianoforte e la competenza manuale si corregge e si affina. Ed è proprio su questo punto che il discorso sulla competenza, su quella con la C maiuscola si perfezionare e si definisce. Pertanto, non è sufficiente avere una mano e manipolare, aprire e chiudere un rubinetto, usare le posate, o una matita, o sfogliare un libro, o sollevare un peso per dire di essere competenti! Ovviamente, un disegnatore o un pesista sono competenti… specialisti adulti!
Certamente, quando il bambino riuscirà a infilarsi il cappotto e allacciarne i bottoni sarà una grande conquista per lui e un sollievo per la madre e, soprattutto per la maestra della scuola dell’infanzia. Però – ed è qui il però – non costituisce competenza tutto l’insieme delle piccole operazioni manuali che compiamo ogni giorno, dal chiudere a chiave la porta di casa o mettere in moto la lavatrice! E’ chiaro, comunque, che, se abbiamo la mano ferita o abbiamo smarrito il libretto delle istruzioni, aprire la porta di casa o avviare la lavatrice per un bucato sofisticato costituiranno operazioni un po’ difficoltose.
Concludendo su questo punto, non possiamo definire competenze tutte le infinite azioni manuali che compiamo ogni giorno. Anche perché sono operazioni che non richiedono né particolari conoscenze né particolari destrezze. A ogni modo, possiamo pure chiamare competenza quella piccola ma importante conquista che vede un bambino allacciarsi per la prima volta una scarpa o sbucciare una mela con il coltello senza ferirsi! Ma chiamiamola competenza con tutto il beneficio di inventario!
Per un discorso corretto sul concetto di competenza
E’ proprio la riflessione sul bambino o, comunque, sull’essere umano, che ci conduce a un discorso corretto sul concetto di competenza. In effetti, che cosa fa il bambino quando, ad esempio, comincia a giocare con la palla, o meglio con il pallone da calcio? In primo luogo faticherà non poco prima di riuscire a calciare imprimendo la giusta velocità al pallone sia che debba tirare in porta o passarlo a un compagno o difenderlo dall’assalto dell’avversario. Quante operazioni sensomotorie dovrà reiterare e apprendere prima di assumere una vera e propria padronanza del pallone e del suo corpo (la vista, il movimento delle gambe e delle braccia, la forza da imprimere al calciare e così via)? E quali operazioni soggiacciono a un semplice calcio al pallone, magari con un bel goal come coronamento finale?
Partiamo da zero, da quando il nostro neonato viene tra noi. Nel giro di un lasso di tempo relativamente breve, un anno o due, deve impadronirsi sotto il profilo concettuale di tutti i dati, le informazioni, gli oggetti che lo circondano. Mamma e pappa costituiranno i primi concetti/oggetti acquisiti: ne va della sopravvivenza! Poi verranno… non so, ciccia e cacca e tutti gli altri concetti/oggetti (biberon, bavaglino, cucchiaino, ecc.), concetti/persone (familiari, parenti, ecc.), concetti/eventi (la mamma che esce, la luce che si accende, la porta che si apre, la pappa che arriva… che gioia, si mangia… ecc.) e i relativi nomi che il bambino apprende, comprende, memorizza, archivia. A ogni nome corrisponde un oggetto, una persona, un fatto.
E nell’interazione comunicativa il bambino comincia anche a costruire il suo linguaggio. Via via acquisisce una serie di dati e di informazioni che organizza e archivia nella sua memoria. Si tratta di tutte le prime informazioni di base che gli permettono la sopravvivenza. Sulla base delle informazioni acquisite, avvia una continua e progressiva interazione con l’ambiente che lo circonda con il quale, ovviamente, deve interagire di conseguenza. Contestualmente apprende i nomi degli oggetti, delle persone e degli eventi che insistono sul suo spazio vitale e a interagire con essi. Quindi, riconosce, “conosce” e “fa”. In altri termini avvia quel processo in cui acquisisce e utilizza le conoscenze e le abilità di base che, procedendo nel processo di sviluppo/crescita, incrementato da continui e irreversibili apprendimenti, gli servono per la prima sopravvivenza.
Sapere e agire, conoscere e fare costituiscono, quindi, le condizioni necessarie perché il nostro nuovo nato si inserisca positivamente nell’ambiente in cui opera, debitamente assistito e sollecitato. Le conoscenze e le abilità sono strettamente interrelate e non è facile – e sarebbe anche inutile farlo – dire quali vengono prima e quali dopo: in effetti sono in uno stretto rapporto dialettico e si condizionano vicendevolmente. Sotto questo profilo allora è anche giustificato il fatto che in una scuola dell’infanzia, là dove i bambini si trovano nella fascia di età tre-sei anni, vengano puntualmente sollecitate, accertate e certificate quelle competenze elementari, specifiche e comuni a ciascun nuovo nato, con cui ho aperto questo articolo. Ed è bene riportare altre competenze, che hanno a che fare con il linguaggio creativo. Il bambino: si esprime attraverso la pittura, il disegno e la rappresentazione; usa strumenti, tecniche e materiali mostrando una adeguata manualità fine; sa organizzarsi nel gioco e nelle attività; sa organizzarsi in un piccolo gruppo nel gioco e nelle attività.
L’attenzione al fare da parte dei suoi attanti – familiari e maestre – è estremamente importante, proprio perché si ha a che fare con soggetti che giorno dopo giorno conquistano nuove conoscenze e contestualmente nuove abilità! Tenere in mano correttamente un pennarello al fine di tracciare segni e colori su un foglio bianco è altra cosa rispetto alla presa dello stesso pennarello, quando il medesimo bambino, qualche tempo prima, apprendeva ad afferrare un oggetto anche senza sapere quale ne fosse la funzione.
Torniamo all’assunto precedente: è corretto definire competenze tutte queste azioni che un bambino che cresce e apprende compie via via in modo sempre più mirato e consapevole? Indubbiamente no, anche se sempre di un saper fare si tratta, e per una ragione molto semplice. Ma voglio ricorrere a un esempio. Quando quei meravigliosi ingegneri di Maranello costruiscono una nuova Ferrari, formulano un progetto debitamente finalizzato e poi a poco a poco ne producono le singole parti, pezzo dopo pezzo e questi dovranno poi essere assemblati insieme. Ciascuno ha una sua funzione, ma la funzione finale è quella di un nuovo modello di macchina rombante sulla pista di Monza! I vari pezzi – immaginando l’automobile come un qualcosa di vivente – costituiscono un insieme organizzato e organico di abilità, ma la corsa vittoriosa è la competenza acquisita, dichiarata, dimostrata e condivisa… ovviamente non dai tifosi della RedBull! Per non dire, poi, che in ogni pezzo funzionante, quindi “abile”, c’è un’alta dose di “conoscenza”! Guai se il pezzo non avesse quel tasso di “conoscenza” che gli permette di interagire con gli altri, a loro volta ciascuno portatore di una quota di “conoscenza”!
Conoscenze e abilità come condizioni primarie per una competenza
Così, tra una divagazione e un’altra, una similitudine e un’altra, ci avviamo alla definizione del concetto di conoscenza, come indicato dalla Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008: “Le conoscenze indicano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche” [1].
Potremmo anche dire che una conoscenza è un insieme organizzato di dati e informazioni relative a oggetti, eventi, principi, teorie, tecniche, regole che il soggetto ap-prende, cioè fa proprie, com-prende, cioè lega insieme, archivia e utilizza in situazioni operative procedurali e problematiche. Si noti il crescendo delle operazioni cognitive: un conto è memorizzare una data, un numero telefonico, altro conto è memorizzare un evento (si pensi a una testimonianza oculare) elaborare un principio o una teoria, adottare una regola, sposare una ideologia! Se non addirittura fondarla! Insomma, dal semplice al complesso! In quanto all’applicazione di conoscenze date, si hanno due tipi di operazioni, una procedurale, l’altra problematica. Si ha una operazione procedurale quando il soggetto utilizza le conoscenze acquisite e necessarie per una determinata operazione, abituale e ripetitiva. Aprire la porta di casa, avviare il motore dell’automobile, cercare e trovare un libro nello scaffale in cui siamo solito collocarlo, sono tutte operazioni procedurali: a volte le eseguiamo quasi senza pensarci, magari pensando ad altro. Ma, se abbiamo perso la chiave di casa, se l’auto non parte, se non troviamo il libro, la procedura si interrompe e nasce il “problema”: come fare per…? E’ il caso di accedere ad altre conoscenze al fine di risolvere la situazione problematica: ho affidato a un parente le chiavi di casa? O devo rivolgermi a un fabbro? E così via! Comunque, sono sempre le situazioni critiche che poi inducono ad acquisire nuove conoscenze: i processi cognitivi non hanno mai fine. Caratteristica della natura umana è proprio quella di acquisire conoscenze, ma anche quella di produrre processi cognitivi e di dar luogo a nuove conoscenze. Se fossimo robot programmati solo per accendere il motore di un’auto, quando l’auto non parte, staremmo lì in eterno a girare la chiave! Ne consegue che questa capacità di acquisire conoscenze, utilizzarle, abbandonarle per crearne e utilizzarne di nuove è tipicamente umana!
Ora veniamo al fare! La conoscenza – anche quella che riteniamo speculativa – ha sempre un fine pratico: è l’esito di conoscenze acquisite se ci alziamo al mattino, andiamo al lavoro, rientriamo, organizziamo un piacevole week end, affrontiamo momenti critici e così via. In effetti, le conoscenze non sono mai “gratuite”, sono sempre legate a un fare, semplice o complesso che sia: ci facciamo la barba canticchiando, ma, se siamo architetti o chirurghi, progettiamo edifici o affrontiamo difficili operazioni utilizzando conoscenze anche molto complesse. L’architetto e il chirurgo non si differenziano quando si radono o quando aprono la porta di casa, ma, a fronte di operazioni complesse e particolari si differenziano, e guai se non fosse così!
Il mondo del fare differisce da quello del conoscere perché il primo si vede, il secondo no: le conoscenze sono archiviate nella testa di ciascuno di noi, mentre il fare è visibile a tutti, però… Il però del mondo del fare ci conduce a una distinzione: da un lato c’è il fare semplice e immediato, a tutti largamente comune, camminare, mangiare, lavarsi i denti, indossare il cappotto, aprire la porta di casa, e così via; dall’altro c’è il fare specialistico, non a tutti comune. L’architetto e il chirurgo, come il cuoco o il piastrellista, la manicure o il direttore d’orchestra, quando attendono alle loro specifiche operazioni professionali, “fanno cose”, o meglio attendono a operazioni estremamente diversificate, non trasferibili, irriducibili. Ed è su questo discrimine che cessa l’abilità, o un insieme di abilità, e ha inizio la competenza.
Ricorriamo ancora una volta alla citata Raccomandazione europea: “Le abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di usare know-kow per portare a termine compiti e risolvere problemi; le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti)”. In altri termini, potremmo dire – anche con il soccorso della ricerca psicologica – che un’abilità è un atto concreto singolo, coordinato anche con altre abilità, che il soggetto compie utilizzando date conoscenze e gli “strumenti” del suo corpo, occhi, mani, piedi, ecc. Aprire la porta di casa comporta di individuare con la vista il buco della serratura, con il tatto di selezionare la chiave giusta, con la mano infilarla nella toppa e farla ruotare. Si tratta di un insieme di azioni, o meglio di singoli atti insieme coordinati, sui quali neanche riflettiamo convenientemente, i quali però sono necessari e indispensabili perché l’operazione abbia successo.
La caratteristica delle abilità consiste anche nel fatto che determinate abilità possono essere finalizzate anche ad altre operazioni e alla realizzazione di altri obiettivi. Ad esempio l’abilità manuale del girare la chiave nella serratura rinvia anche ad altre migliaia di operazioni che quotidianamente compiamo. Indossiamo la giacca, utilizziamo la matita, giriamo il volante quando guidiamo, carezziamo il gatto, sfogliamo il giornale e via dicendo… ma! Se ci fossimo feriti e avessimo la mano fasciata, tutta una serie di abilità ci sarebbero negate. Né potremmo aprire la porta di casa se sulle scale manca la luce, perché l’abilità del vedere è compromessa. Insomma, è il concorso intelligente e mirato di più abilità che comporta poi un crescendo di specializzazioni sempre più mirate e differenziate. Ed è in questo crescendo che raggiungiamo il top della competenza.
Per una definizione di competenza
Ricorriamo ancora a quanto ci dice la citata Raccomandazione europea: “La competenza è la capacità dimostrata da un soggetto di saper utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini (nel senso lato di atteggiamenti, n.d.a.) personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale”. Ne consegue che una competenza non è un semplice saper fare, ma un saper fare particolare, che non va confuso con l’abilità. Abbiamo già detto che le abilità sono atti concreti singoli e, ovviamente coordinati e “intelligenti”, che il soggetto compie utilizzando date conoscenze; pertanto, potremmo anche dire che un’abilità è un segmento di competenza. Una corretta operazione manuale “mi serve” sia per aprire la porta di casa che per aprire il rubinetto o per pettinarmi o per usare forchetta e coltello o per scrivere un appunto o per mille altre azioni! Ma manovrare il volante dell’auto o la leva del cambio dovrà coordinarsi con il piede, che deve “giocare” tra i tre pedali del freno, dell’acceleratore, della frizione, con gli occhi vigili sulla strada e la segnaletica, con le orecchie attente ai clacson o al fischio del vigile! Poi, sceso dall’auto, se fossi cuoco, le mie operazioni manuali avrebbero determinati fini e, se fossi scrittore o chirurgo o pianista, ne avrebbero altri.
Ed è proprio in queste azioni particolari e mirate che si esprime la competenza. Il semplice cittadino, come il cuoco, il chirurgo, il pianista hanno le singole abilità manuali, visive, auditive e non so quali altre per guidare l’automobile ma, nel momento in cui attendono a operazioni in cui sono specialisti, quelle abilità acquistano un valore aggiunto specifico: ed è qui che si esprime la competenza. Il cuoco e il chirurgo guidano l’automobile ma, a fronte di specifiche lavorazioni, un pranzo di gala o un intervento sul cuore, l’uno cede il passo all’altro.
Ne consegue che, mentre tra il conoscere e il fare il discrimine è chiaro – il conoscere non si vede, il fare, invece, sì – tra le abilità e le competenze il discrimine non è sempre facile a trovarsi: ambedue sono un fare. E allora, dov’è che una o più abilità cedono il passo a una competenza? E abbiamo anche visto come la competenza acquisita con tanta fatica da parte del bambino di indossare da solo il cappotto – se poi competenza si può definire – diventa di fatto un’abilità che replichiamo migliaia di volte per tutta la vita. A meno che, dopo la rottura di un braccio a seguito di chissà quale incidente, non dobbiamo riacquisire giorno dopo giorno, e chissà con quale fatica, quel movimento così semplice che precedentemente abbiamo replicato centinaia di volte senza neanche avvedercene, per una sorta di automatismo felicemente acquisito.
Ma torniamo ancora a quanto ci dice la citata Raccomandazione a proposito di competenze. Leggiamo che si ha la competenza quando un soggetto dimostra di essere capace di saper utilizzare le conoscenze e le abilità – e sappiamo che cosa sono – ma anche le attitudini personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio. Ma che cos’è un’attitudine? Sappiamo che viene dal latino aptus (da apiscor, meglio adipiscor, ottenere, raggiungere) e che indica una particolare predisposizione di un soggetto a svolgere una determinata attività, a ottenere un certo risultato: è incerto se si tratti di una predisposizione naturale o se la si sia acquisita nel tempo con il reiterare di una serie di operazioni. Non ci interessa in questa sede entrare nel merito. E’ invece interessante sottolineare che la competenza caratterizza il soggetto, quel soggetto e non un altro. Si tratta di una sottolineatura di una estrema importanza.
In effetti, sul concetto di competenza un luogo comune porta a vederla come un qualcosa di statico, ripetitivo, indifferenziato. Un operaio alla catena di montaggio di un tempo doveva svolgere certe operazioni e non altre, seguendo un protocollo preciso di movimenti e di rispetto dei tempi. Un altro operaio sulla medesima postazione avrebbe eseguito puntualmente le medesime operazioni. Ebbene, questo concetto di competenza, cioè come insieme di operazioni eguali e ripetitive nel tempo di lavorazione, chiunque sia il soggetto ad eseguirle, per decenni è stato pressoché dominante. E non è un caso che, quando si parla di competenza in certi ambienti intellettuali – o presunti tali – in genere si storce sempre il naso e si dice: che c’entra la competenza per un avvocato o un professore universitario? Un idraulico, un muratore, un manovale, questo sì deve essere competente!
Delle attitudini in quanto atteggiamenti
Ed è proprio su questo punto che non solo cascano gli asini, ma su cui occorre fare il massimo della chiarezza. “Attitudini personali, sociali e/o metodologiche”: così si esprime la Raccomandazione. Che attitudini vada inteso nel senso più lato possibile, in quanto atteggiamenti, è fuor di dubbio, ma che cosa si intende per atteggiamenti? La psicologia sociale è ricca di interpretazioni al riguardo. Un atteggiamento in genere è sempre plurale, nel senso che è un insieme di stati d’animo, di predisposizioni che un soggetto ha o assume nei confronti di un determinato qualcosa, di un altro soggetto, di una situazione e via dicendo. Un insieme di atteggiamenti predispone un comportamento o più comportamenti: gli atteggiamenti sono interni al soggetto, i comportamenti ne sono l’estrinsecazione attiva e concreta. Semplificando, un atteggiamento di amore o di odio si traduce poi in concreti comportamenti: dal mazzo di rose alle violenze psicologiche e fisiche financo alla pugnalata! E le cronache sono ricchissime di amori intensi e poi folli, finiti addirittura in tragedia!
Quindi, un insieme di atteggiamenti tipici di quel soggetto già connota la competenza che poi esprimerà. Ma c’è anche l’aggettivo “sociali”: non va inteso in senso lato, perché non ci aiuterebbe a capire un aspetto pur importante della competenza, ma in senso concreto, quando il soggetto esprime la sua competenza in concorso con altri [2]. Si pensi al pianista in un a solo e allo stesso pianista in un concerto: nel primo caso darà luogo al massimo della sua espressività, nel secondo dovrà anche e soprattutto tener conto della bacchetta del direttore d’orchestra e dei singoli professori intenti nei loro strumenti. O al trapezista che… è inutile dire! Il coordinamento di ciascun movimento di ciascuno degli acrobati è imprescindibile: l’errore dell’uno inficia la prestazione del gruppo. E un bravo chirurgo non può non coordinare la sua perizia con gli atteggiamenti e i comportamenti di ciascun membro dell’équipe! E va sottolineato che oggi un gran numero di competenze si esprime e si realizza proprio all’interno di gruppi di lavoro. C’è poi l‘ultimo aggettivo, “metodologiche”: allude al fatto che un competenza può realizzare gli obiettivi proposti seguendo anche percorsi diversi sotto il profilo delle scelte effettuate. Un avvocato può assumere la difesa del suo cliente secondo una data strategia, centrando l’attenzione su alcuni elementi e non su altri; un altro avvocato ne potrebbe adottare un’altra! E quale pianista di grido non interpreta Chopin diversamente da un altro pianista di grido? E ciascuno di loro è convinto di essere l’unico interprete fedele del grande musicista polacco! Eppure avvocati, chirurghi, pianisti hanno a monte un insieme di conoscenze e di abilità largamente comuni, per quanto attiene i codici, i bisturi, gli spartiti musicali e i tasti del pianoforte. Il che significa che nessuna competenza è, né potrebbe essere, eguale a un’altra, anche se a monte, per quanto attiene gli specifici campi dei saperi, i percorsi per raggiungerla e acquisirla sono largamente comuni.
Autonomia e responsabilità connotano una competenza
Va infine ricordata un’importante sottolineatura: nel Quadro Europeo delle Qualifiche la definizione di competenza si conclude con la seguente considerazione: “le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”. E’ un passaggio molto importante. In effetti non si tratta tanto di “descrizione”, quanto, invece, direi, di “sollecitazione”. Una competenza per essere tale richiede, infatti, che il soggetto sia autonomo e responsabile: autonomo nel senso che abbia la piena consapevolezza di ciò che sa fare, di come farlo, dei limiti in cui può e deve agire e di ciò che non sa fare; responsabile, in quanto deve rispondere del suo operato non solo ai committenti, ma anche a se stesso. In altri termini, la Raccomandazione intende sottolineare in quali termini ed entro quali limiti una competenza possa e debba esprimersi: anche e soprattutto perché mai una competenza può essere assimilata tout court a un’altra! Insomma, è la persona competente che la connota e la “colora”.
In seguito a queste ultime considerazioni emerge un quesito: fino a quale limite una competenza deve rifarsi a comportamenti oggettivi, sostanzialmente eguali, standardizzati – potremmo dire – e in quale misura, invece, deve cedere alla specificità di una data personalizzazione? A questo punto occorre anche considerare quanto pesi la considerazione che il pubblico ha di un determinato soggetto competente. In genere si chiede di essere operati da “quel” chirurgo perché è di chiara fama; o di essere difesi da quell’avvocato perché non c’è causa difficile che non abbia vinta. Eppure ambedue hanno nel loro studio tanto di diploma di laurea bell’incorniciato con il massimo della votazione. In altri termini, dove finisce la certificazione ufficiale e formale di un competenza acquisita e dove comincia, invece, la connotazione personale e pubblica di tale certificazione? E’ difficile a dirsi, ma è certo che le istituzioni che attendono alla formazione di date competenze, quindi le scuole e le università, non possono esimersi dal descrivere, e con un alto tasso di oggettività e di specificazione, quali sono le competenze terminali che propongono ai loro studenti. Potremmo quindi dire che a monte ci deve pur sempre essere una sorta di standardizzazione delle competenze perseguite e che poi a valle c’è, nell’esercizio professionale, quella connotazione che le arricchisce di quel valore aggiunto che il soggetto stesso è in grado di conferire loro.
La centralità della competenza fa sì che oggi l’insegnare per competenze sia diventato una sorta di imperativo categorico. Ovviamente, soprattutto nel nostro Paese, dove si è sempre insegnato sulla base di precisi contenuti disciplinari, di cui si richiedeva la semplice conoscenza, passare dalla verifica e dalla valutazione delle conoscenze di dati contenuti all’accertamento e alla certificazione di date competenze non è cosa facile: anche perché queste “date” competenze non vengono assolutamente indicate da chi ha la responsabilità della Pubblica istruzione, fatta eccezione per quelle da conseguire al termine dell’istruzione obbligatoria decennale [3].
Le competenze nel nostro sistema di istruzione
Ma vediamo concretamente che cosa succede nella nostra scuola. Com’è noto esistono ancora i gradi di studio, che nel corso della nostra storia si sono venuti sovrapponendo uno sull’altro e sui quali non si mai fatto né un ragionamento d’insieme né un complessivo riordino. Così, invece di avere una scuola di base decennale continua e progressiva, finalizzata al conseguimento di competenze che l’amministrazione scolastica ha indicate, definite e descritte con sufficiente chiarezza [4], abbiamo ancora una scuola primaria, una scuola media, che è anche il primo livello dell’istruzione secondaria, e una scuola secondaria quinquennale, di cui i primi due anni completano l’obbligo di istruzione. Abbiamo quindi tre gradi, in effetti ciascuno in certo qual modo autosufficiente e chiuso in se stesso, eredità di un passato lontano che ancora pesa negativamente sull’intero sistema di istruzione [5].
E non basta! Siccome ormai insegnare per competenze è di moda, l’amministrazione chiede agli insegnanti di certificare competenze alla fine di ogni grado, senza indicare però – fatta esclusione della conclusine dell’obbligo di istruzione – di quali competenze si tratti. Così i maestri della scuola primaria e i professori della scuola media si devono arrovellare per “inventarsi” competenze che abbiano un minimo di credibilità. Senza contare che ogni scuola certifica le “sue” competenze, per cui è impossibile avere una visione omogenea e credibile delle competenze acquisite dagli alunni. E non solo! Le competenze acquisite non hanno alcun valore né didattico né formale, perché le uniche competenze che fanno testo e che hanno un valore giuridico sono quelle accertate e certificate a conclusione degli studi obbligatori. Per quanto riguarda poi la conclusione dell’istruzione secondaria di secondo grado, occorre ricordare che la legge 425/97 che ha riformato gli esami di maturità prevedeva che il nuovo esame si concludesse con la certificazione delle competenze [6]; ma fino a oggi ciò non si è verificato. Com’è noto dall’anno scolastico 2012/13 vengono avviati i nuovi trienni [7] ed è auspicabile che in tre anni l’amministrazione indichi, definisca e descriva quali competenze i nostri studenti dovranno acquisire negli esami di Stato che concludono gli studi secondari.
Un’altra questione non banale è la seguente: mentre è relativamente semplice declinare competenze professionali (dal cuoco al chirurgo, dall’operatore ecologico al magistrato), non è sempre facile declinare altre competenze, non legate a una diretta attività e il cui confine con le abilità e le conoscenze è estremamente labile. Comunque, se volessimo elencare categorie di competenze, considerando anche il progress degli anni di studio, potremmo dire che in primo luogo vengono le competenze disciplinari, quindi quelle pluridisciplinari, poi quelle trasversali, quelle culturali, quelle di cittadinanza e infine quelle propriamente professionali. Occorre considerare anche che le competenze culturali, quelle di cittadinanza e quelle professionali dovrebbero tra loro interagire. Il condizionale “dovrebbero” sta ad indicare che non è affatto detto che competenze di cittadinanza e competenze professionali siano sempre interattive. Sarebbe auspicabile che così fosse, ma… è sotto gli occhi di tutti che vi sono politici e professionisti anche di chiara fama che evadono le tasse o scambiano bustarelle o sono in combutta con la malavita.
Ma è corretto in assoluto parlare di competenze rigidamente disciplinari? Un solo esempio: un’interprete simultanea, magari anche figlia di madre lingua, quindi più che mai esperta ad esempio dell’italiano e del tedesco, in un convegno internazionale di alta matematica o di cardiochirurgia potrebbe incontrare serie difficoltà laddove i parlanti utilizzassero termini o espressioni altamente specialistiche: è segno che anche la padronanza del linguaggio comune di due lingue e di due culture è insufficiente a fronte di determinate situazioni molto specializzate. In effetti, se la nostra figlia di madre lingua fosse anche un matematico o un chirurgo, il problema non si porrebbe. La lingua è una competenza così trasversale che da sola non reggerebbe a confronti su tematiche di alto profilo settoriale.
Forse sarebbe allora più corretto parlare di competenze pluridisciplinari! In effetti, nei curricoli scolastici i percorsi pluridisciplinari dovrebbero essere presenti in misura maggiore rispetto a quanto avviene. E non è un caso che fin dal lontano 1981, con il dm 26 agosto, introducemmo nell’esame di terza media il colloquio pluridisciplinare [8]. Analogo provvedimento adottammo con la riforma degli esami di maturità del 1969 [9], ribadito poi dalla riforma del 1997 [10]. Il che significa che la pluridisciplinarità di una prestazione può meglio garantire circa il raggiungimento di una competenza data. La prospettiva è chiara, ma è anche assai lontana: infatti le discipline ben tra loro distinte costituiscono ancora le fondamenta della nostra scuola. E spesso in sede di esami colloqui pluridisciplinari diventano rigide interrogazioni spudoratamente disciplinari!
Sono competenze trasversali quelle che implicano i modi di essere, di proporsi, di comunicare e di interagire di un dato soggetto: afferiscono più alla persona in quanto tale che al saper fare in senso stretto [11].
Sono competenze culturali quelle che afferiscono alla cultura di un dato milieu socioculturale, di un dato hic et nunc: ad esempio, conoscere e orientarsi per quanto riguarda la vita di una città, quali siano gli eventi di un certo rilievo, dallo spettacolo allo sport, all’associazionismo, ai problemi della gestione politica e sociale, e così via.
Possiamo anche dire che le competenze trasversali e le competenze culturali riguardano l’utilizzazione di una serie di informazioni riguardanti aspetti globali o specifici della cultura, appunto in ordine alle caratteristiche, alle motivazione e alle attese della persona. In genere soggiacciono a competenze specificamente professionali. Un critico cinematografico ha competenze culturali, che poi utilizza nella sua professione; lo stesso vale per un giurista o per un architetto o per un insegnante. Può darsi anche il caso di un architetto che sa anche tutto di cinema o di un medico che ha la passione della chitarra. Quello delle competenze culturali è un terreno difficilmente misurabile nella vita corrente, ma acquisisce una particolare rilevanza nella scuola, negli studi universitari e nell’apprendimento permanente. Nella scuola di base è importante che gli insegnanti si adoperino perché le competenze disciplinari via via acquisite dagli alunni acquistino anche uno spessore pluridisciplinare e culturale. In genere si dice che si è colti quando si personalizzano conoscenze e competenze con particolari caratterizzazioni. Quando si parla di teatro, Antonio e Luisa non vanno mai d’accordo, anche se, colleghi nel mondo del lavoro, operano sempre all’unisono.
Specificità delle competenze di cittadinanza
Le competenze di cittadinanza hanno, soprattutto oggi, un’importanza fondamentale, perché sono quelle che ci permettono di vivere in una società sempre più aperta, ma anche sempre più complessa e difficile, conoscendone gli aspetti critici per affrontarli e gestirli convenientemente. La stessa Unione europea si è fatta carico di individuare e definire le competenze di cittadinanza in quanto sono quelle che non solo permettono a ciascun cittadino dei singoli Paesi membri di sentirsi anche europeo, ma concretamente di circolare in Europa per studio, lavoro, turismo, avendo la piena consapevolezza di quelli che sono i suoi diritti e i suoi doveri in quanto, appunto, cittadino europeo. Si tratta di competenze che quindi promuovono la cosiddetta cittadinanza attiva e sono in grado di garantire l’apprendimento permanente: in altri termini, sostengono il cittadino nella consapevolezza di quanto sia necessario aggiornare costantemente conoscenze, abilità e competenze per fronteggiare quei cambiamenti che sempre più rapidamente ricompongono il nostro modo di vivere.
Il Parlamento europeo e il Consiglio con la Raccomandazione del 18 dicembre 2006 ha individuato e descritto otto competenze chiave per l’esercizio della cittadinanza attiva e per l’apprendimento permanente: Comunicazione nella madre lingua; Comunicazione nelle lingue straniere; Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologie; Competenza digitale; Imparare a imparare; Competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica; Imprenditorialità; Espressione culturale. Come si vede, le prime quattro rinviano alle discipline fondamentali di studio, le seconde, invece, investono propriamente la persona nel suo impegno civile verso se stesso e verso gli altri.
La Raccomandazione è stata accolta e recepita dai diversi Paesi dell’Unione e anche dal nostro, che ha assunto le otto competenze come finalità civiche del percorso obbligatorio di istruzione decennale. Nel dm 139/07 con cui, appunto, si è innalzato l’obbligo di istruzione dagli otto ai dieci anni, ritroviamo, infatti, le competenze di cittadinanza indicate dall’Unione, curvate comunque alla realtà del nostro sistema di istruzione. Le otto competenze sono state aggregate a tre macroindicatori, con i quali un soggetto può essere letto secondo tre modalità: a) la persona in quanto tale; b) la persona nelle sue relazioni con altre, il suo impegno sociale; c) la persona nelle sue relazioni con gli oggetti, gli eventi: in altri termini l’impegno professionale, il lavoro.
Nello specifico, si sono individuate le seguenti macrocompetenze: a) il Sé, l’Io sono, la costruzione del Sé, in quanto esito del processo di formazione; b) il Sé e l’altro, l’Io collaboro, la costruzione del Sé nelle sue relazioni con gli altri, in quanto esito del processo di educazione; c) il Sé e le cose, l’Io faccio, la costruzione del Sé nelle sue relazioni con le cose, esito del processo di istruzione. Il riferimento al comma 2 dell’articolo 1, comma 2, del dpr 275/99 (Regolamento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche) è più che evidente. Infatti, così recita: “L’autonomia delle istituzioni scolastiche… si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, istruzione e formazione, mirati allo sviluppo della persona umana… al fine di garantire ai soggetti coinvolti il successo formativo”. Le otto competenze sono così definite: a) il Sé in quanto persona, 1. Imparare a imparare, 2. Progettare; b) il Sé e l’altro, 3. Comunicare, 4. Collaborare e partecipare, 5. Agire in modo autonomo e responsabile; c) il Sé e le cose, 6. Risolvere problemi; 7. Individuare collegamenti e relazioni, 8. Acquisire e interpretare l’informazione.
Va comunque ricordato che tali competenze, che a mio giudizio assumono un’importanza fondamentale anche perché coronano l’apprendimento di una materia fondamentale quale Cittadinanza e Costituzione [12], in effetti non vengono certificate al termine dell’obbligo di istruzione. Nel modello di certificazione allegato al dm 9/10, vengono certificate le competenze culturali, ma non quelle di cittadinanza. In una nota in calce al modello si legge infatti che “le competenze di base relative agli assi culturali sopra richiamati sono state acquisite dallo studente con riferimento alle competenze chiave di cittadinanza”. A mio vedere, si è trattato di una scelta impropria. Non è affatto detto che tra le due serie di competenze vi sia un’automatica contiguità: un soggetto può avere eccelse competenze, culturali o professionali che siano, ma utilizzarle in modo improprio sotto il profilo civico; d’altra parte possiamo avere onestissimi cittadini, privi però di specifiche competenze professionali.
In relazione a considerazioni di questo tipo, abbiamo acquisito che al termine dell’obbligo di istruzione decennale non è tanto importante quanto un alunno sappia degli specifici disciplinari, quanto invece sia capace di avvalersene e di utilizzarli in quando corredo pluridisciplinare: un corredo che lo aiuta e lo sostiene nella gestione di quelle competenze culturali di base che gli permettono di accedere con successo in una società che, com’è noto, si fa sempre più complessa.
Per questi motivi, è necessario che lo studente, alla fine del percorso obbligatorio di studi, qualunque indirizzo abbia seguito, liceale, tecnico, professionale, raggiunga competenze culturali di base a cui concorrono le singole discipline, pur nel loro diverso spessore, data la differenza che corre tra i tre indirizzi. Si sono così individuati quattro assi culturali pluridisciplinari: dei linguaggi; matematico; scientifico-tecnologico; storico-sociale [13]. E’ fondamentale e necessario che i saperi e le competenze, articolati in conoscenze e abilità, assicurino “l’equivalenza formativa di tutti i percorsi, nel rispetto dell’identità dell’offerta formativa e degli obiettivi che caratterizzano i curricoli dei diversi ordini, tipi e indirizzi di studio” [14]. Analogo discorso vale per quei ragazzi che, all’uscita della scuola media, optano per i percorsi dell’istruzione e formazione professionale regionale [15]o, al compimento dei 15 anni di età, optano per l’apprendistato[16]. Si tratta di scelte operate dall’ultimo governo di centro-destra che, in effetti, hanno rotto la continuità dei percorsi obbligatori all’interno dei soli percorsi dell’istruzione, continuità che da sola avrebbe garantito l’unità dei saperi e l’uniformità delle competenze conseguite.
La certificazione delle competenze al termine dell’obbligo di istruzione
Ultima questione riguarda la certificazione delle competenze, a cui è sottesa un’altra questione, quella del loro accertamento. Preliminarmente, va sottolineato con forza che valutare competenze è cosa diversa dal valutare conoscenze. In questo secondo caso, la valutazione decimale tradizionale consente di valutare l’acquisizione di determinate conoscenze dal meno al più (cinque voti riguardano la zona dell’insufficienza, altri cinque quella della sufficienza e dell’accettabilità). La certificazione, invece, riguarda solo competenze effettivamente accertate. In effetti, una competenza c’è o non c’è: non esiste una competenza insufficiente. Quindi, a conclusione dell’accertamento [17], ci si potrebbe limitare a certificare semplicemente che una data competenza è stata raggiunta. In taluni casi si effettuano altre scelte: viene graduata la competenza in più livelli, da quello dell’accertata accettabilità a quello di una massima soddisfazione. In effetti, anche a livello internazionale si opta per tre livelli, essenziale, esperto, eccellente [18].
Nel nostro Paese le competenze vengono certificate sulla base di una disposizione normativa valida per tutto il territorio nazionale, a tutt’oggi, solo al termine dell’obbligo di istruzione decennale. In questo caso, si è optato per i tre livelli, come di evince dal dm 9/10. Per ciascuno dei quattro assi i livelli adottati sono i seguenti: di base, intermedio e avanzato. Segue il dettaglio dei relativi indicatori.
Livello di base: lo studente svolge compiti semplici in situazioni note, mostrando di possedere conoscenze e abilità essenziali e di saper applicare regole e procedure fondamentali. Nel caso in cui il livello base non sia stato raggiunto, è riportata l’espressione “livello di base non raggiunto” con l’indicazione della relativa motivazione Livello intermedio: lo studente svolge compiti e risolve problemi complessi in situazioni note, compie scelte consapevoli, mostrando di saper utilizzare le conoscenze e le abilità acquisite. Livello avanzato: lo studente svolge compiti e problemi complessi in situazioni anche non note, mostrando padronanza nell’uso delle conoscenze e delle abilità. Sa proporre e sostenere le proprie opinioni e assumere autonomamente decisioni consapevoli. Occorre anche specificare la prima lingua straniera studiata.
Occorre anche sottolineare che, mentre per gli assi matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale è stata mantenuta l’unitarietà pluridisciplinare, l’asse dei linguaggi è stato così disaggregato: a) italiano, con tre descrittori – parlare/ascoltare; leggere, comprendere, interpretare; produrre testi; b) lingua straniera, con un solo descrittore – il suo uso per i principali scopi comunicativi e operativi; c) altri linguaggi con due descrittori – fruizione consapevole del patrimonio artistico e letterario – uso e produzione di testi multimediali.
Ovviamente, sta poi alle istituzioni scolastiche e ai singoli consigli di classe considerare che un conto è certificare il conseguimento dell’obbligo di istruzione, che richiede competenze di un livello tale che consentano all’alunno/cittadino di operare le scelte per l’ulteriore percorso di studi a) nell’istruzione, b) nell’istruzione e formazione professionale, c) nell’apprendistato [19], altro conto è promuoverlo o meno al terzo anno del percorso prescelto. Nel primo caso occorre considerare gli assi che sono pluridisciplinari e che afferiscono a date conoscenze, abilità e competenze utili ad un inserimento consapevole nella società dei nostri giorni; nel secondo caso occorre considerare se ci sono le condizioni culturali e disciplinari che consentano un accesso produttivo al successivo anno di studi.
In conclusione è opportuno considerare che sarebbe necessaria una riscrittura e una migliore messa a punto sia delle competenze che concludono l’obbligo di istruzione sia del modello di certificazione in cui va assolutamente recuperata la certificazione delle competenze di cittadinanza. Nel primo caso la riscrittura dovrebbe verificarsi contestualmente con un riordino complessivo dell’intero percorso decennale, attualmente ancora frantumato nei tre segmenti della scuola primaria, della scuola media e del primo biennio della scuola secondaria di secondo grado. Il che permetterebbe di avviare fin dal primo anno di una rinnovata scuola decennale di base attività di insegnamento/apprendimento finalizzate a competenze che l’alunno è tenuto a raggiungere in un periodo di dieci anni di istruzione, formazione e educazione, come dettato nel citato Regolamento sull’autonomia.
In seconda istanza, è necessario che nel corso dei tre anni in cui si matura il triennio dei nuovi percorsi della scuola secondaria di secondo grado, l’amministrazione si faccia carico di riordinare l’esame di Stato finale e indicare con chiarezza quali siano le competenze da perseguire, accertare e certificare per ciascun percorso. Il che consentirebbe di rendere leggibili i nostri titoli di studio soprattutto per quanto concerne la loro circolazione nei Paesi dell’Unione europea, circolazione auspicata fin dalla fine del secolo scorso, come chiaramente indicato dalla legge 425/97, precedentemente ricordata, che ha riformato gli esami di maturità [20].
Roma, 28 gennaio 2012
Maurizio Tiriticco
* in corso di pubblicazione sul n. 2/2012 della “Rivista di scienza dell’amministrazione scolastica” diretta da Anna Armone
[1] Il Quadro europeo delle qualifiche è un documento elaborato dall’Unione europea, con cui si invitano gli Stati membri a indicare a quale di otto livelli indicati dalla stessa Unione europea, da quello rilasciato al termine della scuola di base a quello più elevato, come le specializzazioni universitarie, corrispondano il loro titoli di studio,. Il che consentirebbe di equiparare i diversi titoli di studio e faciliterebbe la circolazione di studenti e di lavoratori all’interno dei Paesi dell’Unione. Entro il 2012 ciascun Paese dovrà indicare a quale degli otto livelli europei si riferiscono i singoli titoli di studio da esso rilasciati..
[2] In effetti lo stesso etimo latino di cum-petere, aspirare insieme a un obiettivo, ci aiuta a capire meglio l’aggettivo “sociali”.
[3] Si vedano i decreti del Miur 139/07 e 9/10 con i relativi allegati.
[4] Vedi i decreti di cui alla nota precedente.
[5] Si veda il Rapporto della Fondazione Agnelli sulla criticità della nostra scuola media, pubblicato nel novembre del 2011.
[6] Legge 425/97, art. 6, c. 1 – Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea.
[7] Si vedano le Indicazioni nazionali dei Licei e le Linee guida dei trienni degli Istituti tecnici e Professionali, reperibili sul sito del Miur. I trienni dei licei già sono stati pubblicati con le Indicazioni nazionali, di cui al dpr 89/10.
[8] In quel dm leggiamo tra l’altro: “La commissione imposterà il colloquio in modo da consentire una valutazione comprensiva del livello raggiunto dall’allievo nelle varie discipline, evitando peraltro che esso si risolva in un repertorio di domande e risposte su ciascuna disciplina, prive del necessario organico collegamento, così come impedirà che esso scada ad inconsistente esercizio verboso, da cui esulino i contenuti culturali cui è tenuta ad informarsi l’azione della scuola. Pertanto il colloquio non deve consistere in una somma di colloquio distinti…”
[9] All’articolo 6 della legge 119/69 leggiamo: “Il colloquio, nell’ambito dei programmi svolti nello ultimo anno, verte su concetti essenziali di due materie scelte rispettivamente dal candidato e dalla commissione fra quattro che vengono indicate dal Ministero entro il 10 maggio e comprende la discussione sugli elaborati”.
[10] Nell’articolo 16 dell’om 42/112, che dà istruzioni sullo svolgimento dell’esame leggiamo: “Il colloquio ha inizio con un argomento o con la presentazione di esperienze di ricerca e di progetto, anche in forma multimediale, scelti dal candidato… Deve vertere su argomenti di interesse multidisciplinare proposti al candidato e con riferimento costante e rigoroso ai programmi e al lavoro didattico realizzato nella classe durante l’ultimo anno di corso. Gli argomenti possono essere introdotti mediante la proposta di un testo, di un documento, di un progetto o di altra questione di cui il candidato individua le componenti culturali, discutendole… Il colloquio, nel rispetto della sua natura multidisciplinare, non può considerarsi interamente risolto… se non abbia interessato le diverse discipline”.
[11] L’Isfol individua tre competenze trasversali: diagnosticare le caratteristiche dell’ambiente e del compito, analizzare, capire, rappresentare la situazione, il problema, se stessi (le risorse che possono essere utilizzate o incrementate all’occorrenza) come condizione indispensabile per la progettazione e la esecuzione di una prestazione efficace (abilità cognitive); relazionarsi, mettersi in relazione adeguata con l’ambiente, le persone e le cose di un certo contesto per rispondere alle richieste (abilità interpersonali o sociali: insieme di abilità emozionali, cognitive e stili di comportamento, ma anche abilità comunicative); affrontare, fronteggiare, predisporsi ad affrontare l’ambiente e il compito, sia mentalmente che a livello affettivo e motorio, intervenire su un problema (uno specifico evento, una criticità, una varianza e/o una anomalia) con migliori probabilità di risolverlo, costruire e implementare le strategie di azione, finalizzate al raggiungimento degli scopi personali del soggetto e di quelli previsti dal compito.
[12] La nuova disciplina è stata introdotta nelle scuole con il decreto legge 137/08, in seguito convertito con la legge 169/08.
[13] Per i dettagli si veda l’allegato al dm 139/07
[14] Si veda l’articolo 2 del dm 139/07.
[15] Si veda la legge 133/08
[16] Si veda la legge 183/10
[17] Non è detto che l’accertamento debba consistere in una sorta di prova d’esame. Molto più produttivo dovrebbe essere l’esito di una serie di osservazioni mirate condotte dagli insegnanti per l’intero percorso ottonnale sulla base di opportuni indicatori.
[18]Ad esempio, nel portfolio europeo delle lingue sono stati individuati tre livelli, dall’essenziale all’eccellente, A, B e C, che, a loro volta, sono stati distinti ciascuno in due segmenti, A1, A2, B1, B2, C1, C2.
[19] Va ricordato che con la legge 53/03 (articolo 2, comma 1, punto c) è stato istituito il diritto/dovere all’istruzione e alla formazione per ben 12 anni o comunque fino al conseguimento di un titolo o di una qualifica da conseguire entro il diciottesimo anno di età. Si consideri anche che l’istruzione e la formazione professionale rilasciano le prime qualifiche a 17 anni di età.
[20] Si rinvia alla nota 6.
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