La patacca VALES e l’ennesima turlupinatura della dirigenza scolastica
1 – La parola magica è sempre quella: sperimentazione. Che, sposandosi con il mantra della «peculiare complessità» della scuola e della sublime «specificità» della sua dirigenza, potrà, ancora una volta, consentire all’amministrazione e alle corporazioni sindacali di sterilizzare l’imperativo della legge.
Il meccanismo è collaudato da un ventennio: dalla cosiddetta prima privatizzazione del pubblico impiego (legge delega 421/92 e decreto legislativo 29/93), passando per la seconda privatizzazione (legge 59/97 ed una serie di decreti attuativi, poi confluiti nel d.lgs. 165/01), sino alla riforma Brunetta (legge 15/09 e d.lgs. 150/09, poi integrato, ma esso restando meramente virtuale, dal D.P.C.M. 27-1-11, concernente la specifica valutazione degli insegnanti). Insomma, per la scuola, la legge è tam quam non esset. Col che ci si è altresì bellamente sottratti all’impegno che il nostro governo aveva preso con la comunità europea: di fornire assicurazioni, hic et nunc, in ordine all’accountability delle istituzioni scolastiche e sui programmi di ristrutturazione per quelle che avessero registrato risultati insoddisfacenti; di chiarire come intendesse valorizzare il ruolo degli insegnanti di ogni singola scuola e quale tipo di incentivi volesse mettere in campo.
A dire il vero, nel solco delle coordinate legali e delle istanze comunitarie dianzi cennate si era mosso il ministro Gelmimi, proponendo due percorsi – sperimentali, naturalmente! – in parte paralleli, volutamente di basso profilo, all’insegna di un astrattamente sono realismo, ma in buona sostanza piuttosto improvvisati e, per molti versi, implausibili: premiare – selettivamente – il merito con poco più di 31 milioni di euro, destinati ad un ristretto campione di insegnanti (Progetto Valorizza, di durata annuale) a ad un altrettanto esiguo numero di scuole (Progetto VSQ – Valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole, triennale).
Ma il neoministro dell’istruzione Francesco Profumo ne ha decretato il deprofundis, con una spettacolare marcia all’indietro.
Per la valutazione dei docenti la partita finisce qui; forse la si potrà riprendere più in là, molto più in là, dopo che l’attuale governo tecnico di salute pubblica avrà esaurito il suo breve mandato. Lo si potrà fare in seguito ai necessari approfondimenti [si approfondisce da due decenni!] e al coinvolgimento delle comunità professionali e degli esperti di settore [magari in occasione della preannunciata, per l’autunno, conferenza nazionale sulla scuola, dopo quella del 1990,che preparò l’avvento dell’autonomia cartacea].
Per la valutazione «premiale» delle scuole già selezionate ( e destinatarie di un budget di centomila euro cadauna) il progetto in corso continuerà nei prossimi due anni (sempreché vengano realmente assicurate le inerenti risorse finanziarie), ma sarà ad esaurimento; nel senso che, espressamente, quali che potranno essere gli esiti, non verrà più riproposto: e allora, verrebbe fatto di domandarsi, che senso ha portarlo a termine?
Dunque, niente sistematica, selettiva e trasparente valutazione delle performance di ogni istituzione scolastica e dei soggetti (di tutti i soggetti) professionali ivi operanti, in termini di (accertati) meriti individuali e dei relativi apporti recati alla struttura o unità organizzativa (tale è ogni istituzione scolastica, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, d.lgs. 165/01).
2 – Adesso il progetto sostitutivo – uno solo – è denominato VALES, acronimo significante «Valutazione e sviluppo della scuola».
E’ rivolto a non più di 300 scuole, tenendosi conto dell’ordine cronologico di presentazione delle domande e della necessità di garantire un’equilibrata distribuzione sul territorio nazionale, nonché assicurandosi un’equa rappresentatività nel primo e nel secondo ciclo d’istruzione.
Ad ogni scuola prescelta sarà garantita l’astronomica cifra oscillante tra i diecimila e i ventimila euro (nella misura massima fa 6 milioni di euro, contro i 31 milioni delle due sperimentazioni già naufragate), per sostenere l’implementazione del progetto nella sua durata triennale, che si prefigge lo scopo di individuare e verificare sul campo la fattibilità di metodi, criteri, procedure e strumenti che permettano di valutare i punti di forza e di debolezza del singolo istituto, nonché dell’azione del dirigente scolastico.
Nella prima fase si procede all’analisi della scuola come «sistema complesso», condotta da diverse prospettive, attraverso un protocollo di visita delle scuole gestito da nuclei di valutazione esterni coordinati da ispettori [ma dove sono?].
Al termine di questa prima fase di analisi, sarà consegnato alla singola scuola uno specifico rapporto di valutazione, sulla base del quale essa è invitata a progettare in autonomia un percorso di miglioramento, per la cui realizzazione sono previsti i ridicoli finanziamenti di cui sopra.
La scuola avrà a disposizione il successivo anno scolastico per condurre, dopo una fase di autovalutazione e di progettazione, opportune azioni di miglioramento. Nel corso del terzo e ultimo anno di sperimentazione la scuola sarà nuovamente valutata da parte del nucleo di valutazione esterno che, sulla base del rapporto iniziale, ne apprezzerà i risultati raggiunti.
All’interno del quadro di riferimento descritto ed in coerenza con le linee di interventi istituzionali prefigurate per il progetto VALES, specifiche azioni saranno avviate nelle regioni del mezzogiorno appartenenti all’Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia Sicilia). Per queste aree territoriali le attività saranno realizzate con i fondi strutturali europei, nell’ambito del Programma Operativo Nazionale “Competenze per lo sviluppo” finanziato con il fondo sociale europeo 2007-2013.
Per la partecipazione alla sperimentazione è indispensabile la delibera positiva del collegio dei docenti, unitamente all’adesione del dirigente scolastico, che nel quadro della generale valutazione dell’istituzione scolastica dovrà essere – specificatamente e lui solo: non già i suoi docenti e il suo personale ATA – valutato.
Dopo il 12 marzo sapremo se le adesioni avranno registrato un semifallimento, come le ultime due abortite, oppure no; perché, questa volta, l’amministrazione, nella circolare n. 16 del 3 febbraio a firma del capodipartimento Giovanni Biondì, si è peritata di puntualizzare che l’accesso delle scuole alla nuova programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali europei «sarà condizionato alla presenza di alcuni elementi strutturali, quali l’esistenza di sistemi di misurabilità dell’efficacia degli interventi e dei risultati». E si precisa altresì che, diversamente dal precedente progetto VSQ, non sono previste premialità alle scuole che raggiungono i risultati migliori, né penalizzazioni per le scuole deficitarie; che, anzi, queste ultime hanno un incentivo formidabile a permanere in una strutturale situazione di debolezza, perché saranno alimentate da ulteriori, promessi, finanziamenti a sostegno del loro piano di miglioramento, che potrebbero riverberarsi in positivo sulle remunerazioni del personale, nei cui confronti non sarà sanzionato alcun demerito: di sicuro per i docenti e per il personale ATA e – forse, oppure no? – per il dirigente scolastico.
3 – Il dirigente scolastico, per l’appunto, è fatto oggetto di un apposito capitolo nell’ambito di questo progetto valutativo, nella ragionevole presupposizione che la sua azione risulti fondamentale nel promuovere gli obiettivi di miglioramento del servizio, stimolando la collaborazione di tutta la comunità scolastica; pur in assenza di qualsivoglia strumento di gestione cogente, che non siano la sua autorevolezza e/o l’esemplarità del suo comportamento.
E sembra andar bene per tutti.
Va bene per i sindacati generalisti del comparto, rassicurati dal fatto che il dirigente scolastico non potrà valutare chicchessia, sicché il personale della scuola, massivo e fungibile, potrà continuare ad essere ammannito – e garantito – con slogan e parole d’ordine, secondo i perduranti canoni di un’omogenea, piatta ed avvilente cultura impiegatizia.
Va bene per il sedicente più autorevole e rappresentativo dei sindacati della dirigenza scolastica, che già aveva indirizzato all’ex ministro Gelmini l’invito a «predisporre un progetto sperimentale in tema di valutazione dei dirigenti delle scuole con un impianto analogo a quello che sta(va) per prendere l’avvio relativamente ai docenti [ed ora non più riproposto]».
Va bene per le anime belle delle eteree associazioni professionali, che vi trarranno alimento per continuare a disquisire di centralità della dirigenza scolastica, di professione emergente connotata da un’intrinseca dimensione di leadership democratica, distribuita, partecipata, orizzontale ed orientata al cambiamento: quindi leadership trasformazionale, emotiva, evocativa … visionaria!
Ed importa punto o poco che la legge (art. 5, d.lgs. 165/01, come modificato dal d.lgs. 150/09; lo stesso art. 25 del d.lgs. 165/01, citato, riguardante la supposta «specificità») dica e voglia tutt’altro (o anche altro).
Perché, in punto di diritto, il dirigente scolastico, come ogni «normale» dirigente pubblico:
– è «datore di lavoro» dialetticamente contrapposto, in una sorta di «fisiologico» conflitto d’interessi, ai «lavoratori» (personale docente e personale ATA) posti alle sue dirette dipendenze, in virtù dei richiami delle norme civilistiche e delle leggi speciali sul supporto di lavoro subordinato nell’impresa;
– in quanto datore di lavoro e capo dell’impresa e/o dell’unità organizzativa (quale deve essere considerata ogni istituzione scolastica dotata di personalità giuridica per il doveroso esercizio della sua autonomia funzionale, ex art. 1, comma 2, d.lgs. 165/01), deve valutare i propri «collaboratori» (tutto il personale docente e ATA) perché ne possano essere apprezzate le prestazioni, in positivo (con effetti premiali, a principiare dalle dirette attribuzioni economiche) ovvero in negativo (con conseguenze sanzionatorie): tutto ciò nell’«interesse dell’impresa», ex artt. 2014 e 2016, codice civile (rectius: nell’interesse dell’istituzione scolastica e della sua mission);
– da lui, pertanto, dipendono gerarchicamente (diverso discorso essendo quello sul come, con quali limiti, modalità e garanzie il rapporto di gerarchia debba essere agito) i suoi «collaboratori» (nel senso che i suoi dipendenti devono – obbligatoriamente – disporsi ad un comportamento collaborativo in relazione al conseguimento dei fini dell’impresa, poco rilevando che essa sia privata o pubblica) [art. 2086, c.c.]; che devono usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta.
E’ ovvio che trattasi di generali paradigmi pur sempre da calibrare sulla peculiarità e sugli scopi del variegato mondo delle pubbliche amministrazioni e delle peculiarità dei soggetti in esse operanti, specialmente se attributari di più o meno ampia discrezionalità tecnico-professionale: vale certamente per la scuola, ma non solo.
Calibrati, però, ma non stravolti, sino ad essere neutralizzati. E a tal proposito ogni dirigente pubblico – che risponde dei risultati dell’unità organizzativa – è, ad un tempo, manager (connotazione ritenuta «innaturale», un corpo estraneo nel fatato mondo della scuola) e leader (per contro apprezzato, purché non autocratico).
E’ manager nell’esercizio di competenze giuridico-organizzativo-gestionali, strumentali al conseguimento dello scopo istituzionale, secondo i canoni di efficienza-efficacia-economicità, dato che vengono usate cospicue risorse pubbliche, coattivamente prelevate dalla fiscalità generale, che pertanto devono essere giustificate, dunque rendicontate. E’ leader in quanto deve essere capace di conseguire gli obiettivi assegnati nella chiarezza della mission e della vision: perciò motivando, coinvolgendo e valorizzando la risorsa fondamentale costituita dal fattore umano.
Ma non per questo può continuare a sostenersi che tale risorsa umana possa agire in assoluta libertà perché, alla fin fine, soggiace ai soli e domestici vincoli di natura morale, se non alla propria «scienza e coscienza».
E’ perciò naturale, anzi indispensabile, che il dirigente scolastico, come tutti i dirigenti pubblici, dev’essere valutato secondo le disposizioni di legge (e, de residuo, del contratto collettivo nazionale di lavoro) e per gli effetti predeterminati dalla legge (e dal contratto): che non sono – le une e gli altri – quelli cui fa riferimento questo progetto sperimentale in tema di valutazione della dirigenza scolastica; il quinto, a far data dalla sua nascita nell’ordinamento giuridico, or sono dodici anni.
Cinque sperimentazioni in dodici anni per valutare la dirigenza scolastica già costituiscono, di per sé, testimonianza inoppugnabile della loro fatua consistenza: dai SIVADIS 1, SIVADIS 2, SIVADIS 3 al caravanserraglio messo a punto dall’INVALSI e mandato al macero dal suo committente, l’allora ministro Fioroni, non appena emesso il primo vagito. Ed ora VALES, che eredita tutte le aporie dei precedenti progetti.
Un VALES che sembra valere veramente poco, come hanno scritto o lasciato intendere esperti di cose scolastiche, come M. Tiriticco e l’ispettore G. Cerini; che poi però s’industria nel tentare di trarne elementi e spunti di con divisibilità (che, astrattamente, non mancano) e dando mostra di crederci: a cominciare dal protocollo cui la valutazione del dirigente scolastico dovrà fare riferimento, strutturato in indicatori individuati all’interno delle seguenti macro-aree:
– Direzione, coordinamento, valorizzazione delle risorse umane.
– Organizzazione e gestione delle risorse finanziarie e strumentali.
– Promozione della qualità dei processi interni alla comunità professionale.
– Sviluppo delle innovazioni.
– Attenzione alle famiglie e alla comunità sociale.
– Collaborazione con i soggetti istituzionali, culturali, professionali, sociali ed economici del territorio.
E’ un dispositivo sensato, potrebbe dirsi, perché tarato sulla peculiarità del luogo di esercizio della funzione dirigenziale scolastica, oggettivamente più complesso e meno standardizzabile rispetto ad un mero ufficio interno di una più ampia ed autonoma struttura organizzativa (poniamo: un ufficio scolastico regionale o una direzione generale del MIUR), chiamato a perseguire obiettivi circoscritti, più semplici, facilmente quantificabili (e facilmente valutabili). Ma è un dispositivo che non ha richiesto un apprezzabile sforzo ideativo, altro non essendo che una (parziale) copiatura in pejus del modello figurante nell’art. 41 del CCNI del 31 agosto 1999 per una valutazione (sperimentale, è il caso di precisarlo?) degli allora capi d’istituto ancora appartenenti al comparto scuola ed in transito verso la qualifica dirigenziale (ed in attesa di essere collocati nella quinta autonoma area contrattuale, surrettiziamente e saldamente ancorata al ceppo d’origine: una riserva indiana per non infettare le dirigenze «vere», cioè quelle «normali», e quivi contemplare la sua ineffabile specificità).
Lo riportiamo di seguito, anche per significarne una più puntuale o dettagliata configurazione rispetto al più generico suo odierno clone:
Area 1: Direzione e organizzazione dell’istituzione scolastica
– 1.1. pianificazione e definizione P.O.F.
– 1.2. interventi specifici per l’apprendimento e il successo scolastico
– 1.3. autovalutazione d’istituto
Area 2: Relazioni interne ed esterne
– 2.1. comunicazione pubblica
– 2.2. relazioni istituzionali ed esterne
– 2.3. iniziative relative al rapporto scuola-famiglia
Area 3: Innovazione e sviluppo
– 3.1. sviluppo e diffusione progetti di ricerca e innovazione formativa
– 3.2. attivazione di accordi di reti, convenzioni, consorzi
Area 4: Valorizzazione delle risorse umane
– 4.1. formazione e sviluppo personale docente e ATA
– 4.2. modalità affidamento incarichi e funzioni
Area 5: Gestione delle risorse finanziarie e strumentali
– 5.1. gestione dei fondi d’istituto
– 5.2. utilizzo innovativo di tecnologie e infrastrutture disponibili.
Siamo così punto e a capo. E sono trascorsi, invano, tredici anni!
Basterebbe (anche) questo per comprendere quanto vale VALES, partecipe del collaudato gioco delle scatole cinesi, delle sperimentazioni che si rincorrono e spesso si sovrappongono, infine sciogliendosi come neve al sole; una sorta di cambiale puntualmente rinnovata prima della scadenza, di modo che non si porta mai all’incasso.
E così si continua – potrà continuarsi – a cincischiare. Perché è ora mai acclarato che una seria, e vera, valutazione non la vuole nessuno.
Non la vuole l’amministrazione: perché non è dotata di una tecnostruttura in grado di gestirla e perché non ha né intende reperire le risorse finanziarie per remunerarla (retribuzione di risultato).
Non la vogliono le corporazioni sindacali generaliste di comparto; un’anomalia tutta italica, che tiene forzosamente e quasi indistintamente insieme docenti e personale amministrativo, dopo che ne sono felicemente fuoriusciti gli ex ispettori tecnici – ora dirigenti pleno iure e plena pecunia – e solo formalmente i dirigenti scolastici; dirigenti finti e perciò dirigenti pezzenti: se ne è accorta, dopo dieci anni, la rivista “Tuttoscuola”, e sembra che la cosa stia, finalmente?, facendo rumore. Non la vogliono i sindacati del personale della scuola o «lavoratori della conoscenza» (sic!), non fosse altro perché un dirigente non valutato non può (non è legittimato a) valutare il personale dipendente, della cui gestione lo si pretende (lo pretende la legge) esclusivo responsabile.
Non la vogliono – e ci riesce ancora arduo comprendere il perché – «il più autorevole e rappresentativo dei sindacati della dirigenza scolastica» e le associazioni sindacali professionali, turistico-convegnistiche, di categoria.
E forse non la vuole – con sommo autolesionismo – la categoria.
A parte ciò, sotto il profilo tecnico e con particolare riguardo alla dirigenza scolastica, la riproposta sperimentazione permane viziata dalla confusione tra valutazione dell’istituzione scolastica e valutazione delle prestazioni del suo dirigente.
La prima è preordinata (realizzandosi sapientemente un mix tra valutazione interna o autovalutazione e valutazione esterna ad opera di soggetti terzi) all’emersione dei punti di forza e di debolezza della «struttura organizzativa» onde apprestare conseguenti e coerenti interventi atti a consolidare gli uni e migliorare gli altri, sicché ogni istituzione scolastica possa erogare una prestazione di qualità generalizzata, di tipo inclusivo, «al fine di garantire il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema d’istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento» (art. 1, comma 2, d.p.r. 275/99). Anche se fa specie leggere che, nell’anno di grazia 2012, non si è ancora riusciti a «individuare e verificare sul campo la fattibilità di metodi, criteri, procedure e strumenti che permettano di valutare …». E nulla succede – meglio, non succede – per caso.
La seconda tipologia è finalizzata – anche con l’impiego di un’apposita, e differente, strumentazione – alla valutazione dei risultati dell’azione del dirigente (comprendente il conseguimento degli obiettivi assegnati e il comportamento organizzativo).
Certamente, ben possono integrarsi, ma restano – devono restare – distinte, concettualmente e per i diversi esiti cui mettono capo: interventi promozionali-supportivi-equitativi, ovvero premiali-sanzionatori (in positivo differenziata retribuzione di risultato, in negativo ed extrema ratio la risoluzione del rapporto di lavoro).
Nel mentre, un progetto predisposto per la valutazione dei punti di forza e di debolezza dell’istituzione scolastica, va surrettiziamente ad includere la valutazione delle prestazioni professionali di un solo soggetto – e, a questo punto incoerentemente, escludendo quelle di tutti gli altri soggetti (docenti e ATA) – non già per premiarlo e/o sanzionarlo, ma, soggetto minorenne, per orientarlo e assisterlo con una consulenza permanente affinché possa egli esplicare «la sua azione fondamentale nel promuovere gli obiettivi di miglioramento del servizio scolastico, stimolando la collaborazione di tutta la comunità scolastica … ».
E’ il privilegio della sua specificità! Che non è toccato in sorte ai generici, fungibili, «non complessi», e maggiorenni, dirigenti amministrativi e tecnici dello stesso datore di lavoro, il MIUR. Tal che, sottoposti ad un’ordinaria, prosaica, «egoistica» valutazione annuale, compendiata in due sole schede e contenente pochi, circoscritti, operazionalizzati obiettivi, si mettono, sempre annualmente, in tasca una retribuzione di risultato media pari a 30.000 euro, con punte che sfiorano i 70.000. E’stampato sul sito del MIUR «Trasparenza, Valutazione e Merito», aggiornato all’8 febbraio 2012. Cliccare per credere!
Andiamo dunque a sperimentare, anche per non perdere i finanziamenti europei. Allegramente, però. Perché, comunque vada, a fine anno ogni «specifico» dirigente scolastico percepirà i suoi bravi 2.000 – dicesi duemila – euro lordi, uguali per tutti, a meno che non abbia avuto l’improbabile sventura di essere incappato in una valutazione negativa formalizzata in atti.
E’ così da dodici anni. E lo sarà ancora per i prossimi tre. Giusto per prendere, e perdere, tempo.
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