Uno spettro si aggira per l’Europa…
di Cosimo De Nitto
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della dispersione scolastica. E’ uno spettro che si fa sentire molto di più in Italia, quasi il doppio della Francia e della Germania. Questi paesi, infatti, investono nella scuola molto più di noi, che con la Gelmini abbiamo somministrato una cura da cavallo, tagliando le già magre e insufficienti risorse di ben 8 miliardi in tre anni. Rossi D’Oria e Profumo, sollecitati nella loro sensibilità, hanno deciso, bontà loro, di investire 30 milioni di fondi europei per aiutare le quattro regioni più disgraziate: Sicilia, Campania, Calabria, Puglia.
Certo togliere 8 miliardi in tre anni e poi aggiungere 30 milioni in due, sempre fondi europei, non è la stessa cosa e non c’è la benché minima compensazione.
Andiamo più nello specifico e seguiamo Rossi D’Oria che nell’articolo “Scuola, è allarme abbandoni. Uno su cinque senza diploma. Italia tra i peggiori d’Europa”, pubblicato su Repubblica lunedì 27 febbraio scorso, dichiara:
“Dobbiamo puntellare il ciclo delle elementari: resta la fase migliore della scuola italiana, ma mostra le prime crepe. Più ore il pomeriggio e rafforzamento degli alfabeti di base. L’obiettivo è quello di tenere le scuole aperte tutto il giorno.”
Questa dichiarazione merita qualche osservazione e un piccolo approfondimento.
Per caso questo “puntello” si è reso ancor più necessario per la devastazione operata dalla Gelmini, della quale vogliono essere continuatori scrupolosi? C’entra qualcosa lo smantellamento del modulo, nel quale c’era qualche spazio per interventi di recupero, del tempo pieno, scambiato per tempo lungo, c’entra qualcosa la brillante idea amarcord del maestro unico con le “crepe” degli alfabeti di base? Altrimenti sembra che le “crepe” siano il frutto di un destino cinico e baro accanitosi, non si sa perché, contro la nostra scuola. Magari anche queste “crepe” sono figlie del ’68.
La ricetta di Rossi D’Oria è facile facile: il problema della dispersione si risolve tenendo aperte le scuole tutto il giorno. Magari fosse così semplice.
Questo suo mi sembra un approccio doposcuolistico, stile anno ’50, destinato ai figli dei poveri. La storia della scuola ci insegna che si tratta di un modello superato, perché il tempo prolungato è cosa diversa affatto dal “tempo pieno”, che negli anni ’70 si proponeva proprio come superamento del doposcuola tramite un progetto didattico. Tutto si basava sulla considerazione che non è tanto decisiva la quantità di tempo, che pure occorre, ma la sua qualità didattica, i suoi contenuti, la sua organizzazione e strutturazione.
Continua Rossi D’Oria: “L’INVALSI, con i suoi test in seconda e quinta elementare ci sta aiutando a guidare i nostri figli…”
Questa, poi, è la più grossa che abbia sentito mai a proposito di test INVALSI! Ho capito bene? I test strumenti per la “guida” dei bambini? Una volta la guida era la figura del maestro punto di riferimento che insegna la via. Ora questa funzione l’attribuiamo a un quiz? Questo non ha il coraggio di dirlo nemmeno il più talebano dei seguaci della scuola del “Theaching to the test”.
Altra ricetta di Rossi D’Oria: “Riqualificare gli istituti tecnici”. Dalla Moratti alla Gelmini i ministri si sono sempre proposti di riformare i tecnici. Risultato di queste straordinarie riforme è che i tecnici hanno visto sempre più peggiorare le loro condizioni e le “cure” somministrate hanno aggravato lo stato di salute del paziente. Anche su questo occorre continuità, basta “oliare” le riforme precedenti? Rossi D’Oria non dice niente, il ministro poi non sente, non vede, non parla.
Secondo il sottosegretario la seconda parte del piano ministeriale prevede una “rete” tra la realtà scolastica e le strutture sociali del territorio circostante. Anche questa è roba vecchia stile anni ’70, figlia della cultura della “gestione sociale della scuola”. La “rete” tra le cosiddette “agenzie” formative non ha mai funzionato per il semplice fatto che ogni ente, istituto, associazione ecc. ha una sua vocazione, ha sue finalità specifiche che sono diverse da quelle di una scuola pubblica. Se non ha funzionato qualche interrogativo, qualche riflessione forse non sarebbero sprecati prima di riproporre questo tipo di intervento. Magari in qualche posto ci sarà stato un risultato apprezzabile, qualche rondine ci sarà pure stata, ma non ha portato la tanto attesa primavera.
Qualcosa sicuramente avrebbe potuto portare la sperimentazione negli anni ’70 delle cosiddette “150 ore” che fu tentata sul versante educazione degli adulti; si trattava di un rientro nel canale formativo da parte di chi aveva abbandonato gli studi e in età adulta sentiva il bisogno di elevare il proprio grado di cultura. Ma anche quello dell’educazione permanente è un filone abbandonato negli anni fino alla sua scomparsa totale dagli orizzonti “riformatori” degli ultimi governi. Non solo non si è prevenuta la dispersione, ma nemmeno si è agevolata la sua riduzione attraverso il rientro in età adulta.
Il problema fondamentale, e non da oggi, è quel complesso fenomeno che va sotto il nome di “dispersione scolastica”. Dalle cose dichiarate, da quelle fatte, da quelle in progetto non pare che Rossi D’Oria e il ministro Profumo abbiano studiato a fondo il fenomeno e lo abbiano capito nei diversi aspetti e nelle più profonde implicazioni. Se l’avessero fatto 30 milioni sarebbero sembrati una mancetta o una piccola foglia di fico.
Il fenomeno per cui una parte socialmente rilevante di ragazzi e giovani lascia la scuola prima di aver concluso il ciclo di studi obbligatori per andare a finire nella più bassa manovalanza del mercato del lavoro, negli anni ’50 e ’60 fu chiamato “selezione di classe”.
Selezione, perché si riteneva fosse un processo attraverso il quale il sistema duale “scartava” i soggetti già deboli all’ingresso, la scuola poi accentuava queste differenze programmando, in un certo senso, l’insuccesso, la frustrazione, che rendevano insostenibile il proseguimento degli studi.
Di classe, perché questi ragazzi/giovani appartenevano, guarda caso, alle classi sociali meno agiate, più deprivate dal punto di vista economico e culturale.
Le strategie adottate furono quelle che puntavano a trattenere questi ragazzi quanto più possibile negli ambienti scolastici, convinti che la loro permanenza in un luogo “protetto” non solo li togliesse dalla strada, ma poteva colmare il divario culturale e metterli sulla via del successo scolastico.
Non fu così e non poteva essere altrimenti, nonostante le buone intenzioni. La variabile tempo era ed è sì importante, ma non è risolutiva. Dipende da cosa si mette dentro questo tempo e se si intacca il cuore dell’insegnamento-apprendimento, dal quale dipende il successo scolastico. Solo il successo scolastico può prevenire la dispersione, almeno quella che dipende dal modo di funzionare della scuola.
Negli anni ’80 non si è parlato più di selezione di classe, ma di “abbandono”, come se la scelta apparentemente autonoma del soggetto possa scaricare la responsabilità della fuoriuscita dal sistema sulle sue spalle; se gli si chiede come mai, dirà sempre che ha abbandonato lui la scuola, che non gli piaceva, che era distratto da altri interessi ecc, ma si sa che le cose non stanno così.
In questi anni si è cominciato a studiare il problema sotto ottiche diverse. Si è cominciato a capire che la condizione socio-culturale-ambientale non è automaticamente l’unica responsabile dell’abbandono, ma concorre con essa e le è preminente il modo di funzionare della scuola: i curricoli, i saperi, le pratiche, le didattiche, i metodi di insegnamento-apprendimento, le relazioni ecc. Certo è più facile dire che i ragazzi non studiano per colpa della loro provenienza, del degrado ambientale ecc., più difficile ricercare cosa non va nella scuola, come è pensata, organizzata, vissuta.
A partire dagli anni ’90 è prevalso un approccio sistemico al problema e si è cominciato a parlare di “dispersione”. Un termine che si usa nell’ottica, nella fisica, nella statistica, con connotazioni tanto particolari che a volte è difficile vederne l’attinenza al campo dell’istruzione e della formazione.
Nel campo scolastico la “dispersione” è stata studiata e analizzata a lungo e ci sono studi, non solo teorici, di rilevante interesse che hanno dato luogo a sperimentazioni che varrebbe la pena recuperare in un’ottica più ampia e complessiva.
In genere chi ha approfondito il problema e ha fatto ricerca sa quanto sia limitato l’approccio che si ferma alle considerazioni socio-culturali-ambientali, e prevederne poi la pesatura per calcolare il “valore aggiunto” nel campo degli apprendimenti, del merito dei docenti, della scuola tutta appare come minimo problematico e comunque molto discutibile. D’altronde la scuola non ha il potere, la possibilità, il compito di agire su questa variabile, ad altri la responsabilità e il dovere di farlo.
L’altro approccio che si è dimostrato fallimentare è quello che punta ad una sorta di scuola parallela e di più basso livello, con più tempo scuola (doposcuola), più limitata nell’offerta formativa e più servizi assistenziali ai soggetti a rischio tramite la “rete” con le altre agenzie nel territorio.
La sfida è ardua e non si può vincere riducendo, ma al contrario, elevando la qualità dell’offerta formativa. Non una scuola, una didattica per i soggetti a rischio, ma una scuola che ordinariamente per tutti, nel suo curricolo, nell’insieme delle relazioni, nei metodi, negli ambienti, nell’organizzazione contenga e si fondi su strategie che abbiano una marcata valenza di “prevenzione del rischio” della dispersione.
Via via che si è riflettuto è cambiato e si è ampliato il concetto stesso di “dispersione”; si sa ormai che il fenomeno non riguarda solo i soggetti che abbandoneranno la scuola, ma riguarda tutti, perché è da considerarsi dispersione anche la perdita, o la non acquisizione, di conoscenze, competenze, non perché mancano le capacità, ma perché gli allievi sono travolti dalla noia, dal disinteresse, dalle scarse motivazioni dovuti ad un metodo di apprendimento meccanico, nozionistico, mnemonico, poco significativo, distante dal mondo con i suoi nuovi linguaggi, tecnologie, forme di comunicazione e interazione. Si può essere “dispersi” anche se si continua a stare tra i banchi di scuola trascinandosi stancamente da un anno all’altro e accontentandosi dei risultati minimi e indispensabili per essere “promossi”.
Se questo è, a poco serve curare la pianta, bisogna curare il terreno. Servono interventi strutturali e generalizzati che riguardano l’intero sistema scolastico. Il quartiere Zen di Palermo, o i quartieri Spagnoli di Napoli sono solo la punta dell’iceberg, la parte in cui emergono e sono visibili nelle forme rese più estreme e drammatiche dal degrado ambientale i problemi che affliggono in misura diversa l’intero sistema scolastico.
Tutti gli interventi che sono stati fatti in almeno due decenni non hanno avuto cura per questo problema, e i diversi governi, non occupandosene (Lisbona, Lisbona!), si sono dimostrati miopi, lasciando che le cose peggiorassero fino al punto in cui siamo oggi, quando per affrontare meglio la crisi avremmo bisogno di tutte quelle “risorse umane” che sono andate disperse per quella miopia.
Da molti, troppi anni la parola “riforma” è stata un mantra che ci ha accompagnato, una stanca liturgia che ha spacciato per cambiamento ciò che tale non è, per avanzamento e innovazione ciò che al contrario è un ritorno indietro per strade già percorse e fallite o comunque superate, inadatte ad affrontare le nuove sfide.
Chi è chiamato a governare e dirigere la scuola deve avere ben piantata in testa una cosa: la prevenzione della dispersione è la madre di tutte le riforme, connota la qualità del sistema scolastico, ne rivoluziona il modo di operare e funzionare, è il parametro principale che permette alla “valutazione”, a tutte le valutazioni, di avere un senso e una ragion d’essere fondata sul principio cardine di una scuola moderna e di qualità, il principio del “non uno di meno”.
Tutto il bailamme che si fa con la “valutazione per test”, “valutazione reputazionale”, “valore aggiunto” e quante altre ne saranno inventate o meccanicamente copia-incollate da altri sistemi scolastici, perché ce lo chiede l’Europa dirà qualcuno, non partendo dal principio e fine del funzionamento della scuola, che è quello prevenire la dispersione, appaiono come campati in aria, inefficaci a produrre veri cambiamenti, a risolvere i problemi, e oltretutto sono discutibili anche dal punto di vista scientifico.
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