La narrazione come processo di facilitazione del sapere
di Angela Lagreca
Introduzione
Il compito della scuola è trasmettere cultura, e la cultura, secondo lo psicologo Jerome Seymour Bruner, è essenzialmente una “cassetta per gli attrezzi”[1] che consentono l’adattamento alla civiltà, un modo di risolvere crisi e problemi. Nella “cassetta degli attrezzi” l’insegnante deve avere vecchie e nuove procedure. Tra queste la narrazione è un’attività fondamentale, la forma espressiva da sempre utilizzata nella storia dell’essere umano. La sua finalità è da sempre quella di attribuire significati, al di là delle norme condivise, a tutto ciò che ci circonda, alle esperienze vissute.
La narrazione è una pratica sociale ed educativa che da sempre risponde a molteplici e complesse funzioni: dal “fare memoria” alla condivisione di esperienze collettive, dall’apprendimento al puro intrattenimento.
Per fortuna oggi però la ricerca scientifica mostra di avere “riscoperto” il senso della pratica umana del narrare. Alcune discipline quali l’epistemologia, l’antropologia, la storia, la sociologia, la neuropsichiatria infantile, la psicanalisi e la psicologia hanno provato a mettere in luce l’importanza del concetto di narrazione, non solo per assegnare e trasmettere significati, ma per «dare forma al disordine delle esperienze»[2]. Tutti gli studiosi di queste discipline hanno ribadito il valore della narrazione come strumento indispensabile per la costruzione di significati e per la facilitazione dei processi di cambiamento sociale e organizzativo, per l’apprendimento, poiché il punto di vista narrativo risulta connesso alla modalità esperite dai soggetti di attribuzione di senso agli eventi e alla realtà[3].
Cos’e la narrazione? Perché si narra? Perché e importante narrare? Quali sono le sue implicazione nell’apprendimento e nella didattica? Cercherò di rispondere brevemente a queste domande per evidenziare il ruolo indispensabile che la narrazione può assumere.
Cos’e la narrazione e perché si narra
Il termine narrare deriva etimologicamente dalla radice gna-, che significa “rendere noto”, mentre il suffisso -zione, deriva dal latino catione e trasmette il carattere semantico dell’agire, dell’azione, del gesto e di tutta la situazione relazionale.
Nella storia evolutiva dell’uomo, il narrare ha risposto e continua a rispondere a una necessità profonda, addirittura primordiale. La narrazione si presenta come un concetto trasversale all’oralità (tipica dei popoli primitivi) e alla scrittura (tipica delle società più evolute). Sia le “civiltà illitterate” sia le “civiltà alfabetiche” hanno utilizzato la narrazione, pur avendo forme diverse.
La narrazione attraversa le culture, le epoche, i luoghi, e connaturata all’uomo, non si ha testimonianza di civiltà che non hanno utilizzato la narrazione; si potrebbe dire che essa e nata con l’uomo, con il nascere della socialità e della relazione interumana.
Nelle culture passate, che si affidavano molto all’oralità, si può notare come le stesse leggi erano costituite da massime, proposte sotto forma di vere e proprie micro-narrazioni che avevano un ruolo preminente nella vita quotidiana. La modernità, tuttavia, ha messo in crisi il narrare e, come accennato, solo recentemente è stato attribuito valore a questa pratica, recuperando saggiamente il valore del racconto.
La narrazione è da sempre usata dall’essere umano. È uno strumento importante di interpretazione della realtà per interagire con il mondo sociale nel quale noi essere umani viviamo. È dunque un modo per comprendere tutto quanto ci circonda e per trasmetterlo agli altri.
Consciamente o inconsciamente, la narrazione è una pratica indispensabile a tutte le discipline scientifiche e umanistiche: dietro ai proverbi, agli aforismi, alle riflessioni filosofiche, ai riti religiosi, soggiace la memoria dell’esperienza umana disposta nel tempo e soggetta a una trattazione narrativa[4]; dietro alle ipotesi della scienza sottostà la storia delle osservazioni sulla base delle quali le astrazioni sono state formulate[5].
La narrazione è stata definita “imitazione di azione”: quando si imita un’azione con un’altra azione si realizza il dramma, invece nella narrazione «attraverso l’attività di transcodificazione, l’azione non produce più azione, ma una cosa diversa: una finzione; non l’azione, ma una sua rappresentazione, la sua immagine attraverso il discorso»[6].
Lo psicologo e accademico Daniel Taylor sostiene che ognuno e il prodotto delle storie che ha ascoltato e che ha vissuto. Quotidianamente si racconta e ci si racconta, ed è proprio in questa relazionalità, che avviene la negoziazione del proprio sé con quello altrui. In questo senso la narrazione può trovare la propria validità come strumento nel processo formativo per la costruzione di significati[7].
Anche gli psicologi italiani Cesare Kaneklin e Giuseppe Scaratti hanno riaffermato l’importante qualità della narrazione come strumento fondamentale per la costruzione di significati e per la facilitazione dei processi di cambiamento sociale e organizzativo, poiché il punto di vista narrativo risulta connesso alla modalità esperite dai soggetti di attribuzione di senso agli eventi e alla realtà[8].
Secondo Bruner il pensiero narrativo è uno dei due modi principali di pensiero con cui gli esseri umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo, anzi strutturano la loro stessa esperienza immediata[9].
Il procedimento logico-scientifico, l’altro modo con cui gli esseri umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo, ha come obiettivo quello di chiarire, di togliere le ambiguità. Il racconto ha come sua natura la proprietà di esprimere più significati, e questa polisemia del racconto significa apertura al possibile: il racconto diventa una via di trasmissione aperta di un sapere che non può essere limitato agli enunciati dimostrativi della scienza, ma veicolato da un processo che fa riferimento al voler conoscere, al saper ascoltare, al saper scegliere, al saper fare. In più, per lo psicologo statunitense il pensiero narrativo assolverebbe una funzione essenziale «per la coesione di una cultura come per la strutturazione di una vita individuale»[10].
Jerome Bruner, più recentemente, ha sottolineato due aspetti fondamentali del pensiero narrativo. Il primo aspetto è dato dalla sua dimensione interpretativa: in essa si contrappongono la “canonicità” di una narrazione e la sua apertura alla “possibilità”. In questo il pensiero narrativo costituisce il mezzo di stabilizzazione di una cultura, ma anche del suo continuo rinnovamento. Il secondo aspetto fondamentale del pensiero narrativo è costituito dalla “creazione narrativa del sé”, dimensione essenziale di costruzione della identità soggettiva e insieme di apertura costante all’Altro[11].
In definitiva, perché è utile narrare?
La narrazione consente: di esplorare e comprendere il mondo interno degli individui in quanto conosciamo noi stessi e ci riveliamo agli altri attraverso le storie che raccontiamo, ma ci consente anche di esplorare esperienze individuali e collettive, campi e corsi di azione, situazioni problematiche di difficile interpretazione, consentendo di comprenderne e decostruirne/ricostruirne il significato culturale e sociale. Inoltre, attraverso il dispositivo narrativo l’agire umano è collocato in uno specifico tempo e spazio, è dotato di intenzioni e motivazioni, è inscritto in rapporti di causa/effetto e/o di reciprocità con altre azioni ed eventi, infine, è connotato di un significato culturalmente riconosciuto e riconoscibile. Anche per questo, i dispositivi narrativi assumono nel contesto educativo particolare rilevanza.
La narrazione nel contesto educativo
Sostiene Jerome Bruner: «Le scuole devono coltivare la propria capacità narrativa, svilupparla, smetterla di darla per scontata»[12].
Il racconto ha delle potenzialità formative importanti, in quanto conserva e trasmette un sapere di tipo pratico in grado di influire sull’azione umana e perciò rappresenta una modalità significativa di insegnamento-apprendimento. Apprendimento inteso qui come effetto di un’attività di comprensione che coinvolge il soggetto in maniera totale e che, quindi, promuove una più profonda conoscenza di se stessi e del mondo.
Il tipo di conoscenza a cui ci richiamiamo con il racconto va oltre l’aspetto analitico-descrittivo interno al testo: la narrazione evoca un rapporto con il testo molto più coinvolgente in quanto colui che ascolta o legge è chiamato in causa nella totalità delle sue attitudini e abilità soggettive, di ordine cognitivo, ma anche affettivo e pratico.
La narrazione può aiutare a recuperare all’interno dell’azione scolastica la dimensione del senso e del significato che i saperi hanno per la formazione dell’identità personale.
L’educazione non è qualcosa di avulso dal contesto culturale e sociale, essa esiste e si struttura all’interno di esso. La scuola può sviluppare metodologie in grado di fornire questi strumenti affinché il bambino, l’adulto di domani, possa riuscire a trovare il proprio ruolo nei molteplici contesti e possibilità che la vita offre. Lo sviluppo della competenza narrativa va incontro a questa esigenza; saper narrare non è una dote innata ma un’abilità che può essere coltivata. Bruner individua due punti fondamentali da cui partire: la conoscenza che ogni bambino deve avere relativamente alle fiabe e ai racconti tipici della propria tradizione culturale e la convinzione che il raccontare storie sviluppa la capacità immaginativa, offrendo così strumenti adeguati per costruire con più sicurezza gli scenari della propria vita. Ecco perché questa capacità va esercitata, affinata, condivisa, confrontata. Secondo Bruner, un elemento che favorisce l’uomo è la sua tendenza all’intersoggettività, ossia la «capacità di capire attraverso il linguaggio e i gesti o con altri mezzi, cosa hanno in mente gli altri»[13], e di relazionare tutto quanto ad un contesto che ne specifica il significato. In virtù di questa capacità, gli uomini riescono a negoziare i significati al di là del linguaggio verbale. La psicologia culturale ha trovato un ottimo campo di applicazione in ambito educativo; essa sostiene l’approccio interattivo (intersoggettivo) anche all’interno della classe: non è l’insegnante il detentore del sapere da trasmettere ma è nello scambio collaborativo e cooperativo tra tutti, alunni e insegnanti che si crea l’apprendimento.
Bruner nel suo testo La cultura dell’educazione propone una panoramica dei modelli educativi e di apprendimento nella realtà scolastica evidenziandone i diversi aspetti; volendo fare una sintesi si possono individuare due linee teoriche principali: una basata sul rapporto esternalizzazione-internalizzazione, ossia l’indagine spazia dalla modalità tradizionale di trasmettere insegnamenti dall’esterno a quella che parte dal presupposto di verificare la prospettiva del bambino, agendo dall’interno per capire che cosa può o vuole fare. L’altra considera la dimensione oggettività intersoggettività che pone l’insegnante su un piano totalmente distaccato dall’alunno nel primo caso o lo rende esso stesso partecipe delle teorie insegnate nel secondo caso. L’obiettivo della pedagogia moderna è di trovare un equilibrio tra tutte queste visioni, avendo come presupposto che il bambino oltre ad avere un buon bagaglio di conoscenze e informazioni debba possedere anche consapevolezza dei suoi meccanismi di apprendimento, di come procede il suo pensiero per acquisire la capacità di organizzare la sua vita di adulto.
Per offrirci un quadro di quale debba essere la natura dell’insegnamento e dell’apprendimento, Bruner si ispira ad uno studio condotto dei psicologici dell’educazione Ann Brown e Joseph Campione in cui vengono evidenziate quattro idee fondamentali:
– capacità di azione (agency). La mente è intesa come agente, è orientata al raggiungimento di obiettivi, è selettiva ed interpretativa. È nella sua attività di scambio con altre menti che si attiva il dialogo costruttivo della realtà, negoziando ipotesi, formulando strategie
– riflessione. L’apprendimento non è completo se non è accompagnato dalla comprensione profonda e contestuale di ciò che si apprende; ogni materia deve essere interpretata nel suo significato al di là della pura spiegazione scientifica.
– collaborazione. Comporta la messa in comune delle abilità e risorse, lo scambio interattivo tra alunni e insegnanti come momento di maggior apprendimento.
Lavora in stretta sinergia con il primo punto.
– cultura. L’insieme di pensieri, usanze, credenze, comportamenti che è in continua evoluzione e che è costantemente modificato dall’interagire degli individui, che rappresenta il mondo in cui viviamo.
Il minimo comune denominatore di tutto quanto sopra detto si trova nella narrazione: è coltivando questa fondamentale abilità che traggono nutrimento e possono attecchire le quattro linee educative sopra descritte, la narrazione come forma mentis, come struttura che organizza il corpus delle conoscenze e come supporto alle pratiche educative scolastiche.
Bruner propone un altro concetto interessante che ha influenzato il modo di pensare l’apprendimento e le ricerche in merito: l’idea del curriculum a spirale, ossia il metodo più efficace per affrontare un argomento consiste nel partire da un’idea intuitiva comprensibile e familiare all’alunno per poi procedere a spiegazioni più formali seguendo un moto circolare crescente fino alla completa comprensione. In altre parole: si può insegnare qualsiasi argomento a qualsiasi bambino a qualsiasi età, purché ciò sia fatto in forma accettabile; e si dovrebbe aggiungere, non slegato dalla comprensione pratica del contesto entra il quale si sviluppa il ragionamento. Tale concetto è applicabile ad ogni sfera della conoscenza. La forma narrativa è quella che consente di meglio percorrere la spirale della conoscenza.
Anche in ambito scientifico la forma narrativa consente di spiegare meglio e comprendere in modo più intuitivo gli eventi studiati; il linguaggio matematico offre garanzia di chiarezza e rigore logico ma è inevitabile il ricorso alla modalità del racconto per meglio evidenziare l’insieme dei legami, gli aspetti coerenti e quelli contradditori che permettono di capire se una teoria funziona o presenta alcuni aspetti che necessitano di verifica. La storia offre molti esempi di come gli scienziati siano ricorsi frequentemente, consapevolmente o in modo casuale, all’uso di storie, metafore, immagini narrative per esprimere e definire il loro pensiero: questo modo di procedere consente di andare oltre, al di là delle cose così come si presentano, per afferrare quel quid di significato in più che compare nella visione intuitiva d’insieme e che non può essere tradotto in linguaggio scientifico.
Quali sono gli elementi caratterizzanti il pensiero narrativo che fanno si che si possa considerare generatore di verità universali? Secondo Bruner essi sono:
– struttura di tempo significativa. La sequenza degli eventi in un racconto non è determinata dallo scorrere lineare del tempo bensì dal susseguirsi di vicende significative in base alla trama. È il tempo degli uomini che danno significato agli eventi che accadono all’interno della cornice cronologica.
– Particolarità generica. I generi sono i contenitori all’interno dei quali vengono narrate le vicende umane attribuendo loro un significato universale, le lenti che permettono di filtrare il modo in cui leggere e interpretare il mondo.
– Le azioni hanno delle ragioni. Ogni pensiero, azione, evento narrativo è mosso da intenzionalità; esistono ragioni diverse che influenzano lo svolgimento dei fatti che vanno ad là della “causalità” pura e semplice.
– Composizione ermeneutica. I livelli di lettura e di interpretazione di una storia sono molteplici, ognuno con un diverso significato, coerente con le varie parti di cui è composta la storia stessa; scopo dell’indagine ermeneutica è di verificare l’attendibilità delle varie interpretazioni del testo.
– Canonicità implicita. Ogni storia per essere raccontata deve apportare qualcosa di nuovo, interrompere il corso atteso (la canonicità) degli eventi. Il pensiero narrativo consente di creare un imprevisto che altera la trama e crea un effetto sorpresa, mantenendo viva l’attenzione di chi ascolta.
– Ambiguità di referenza. Il racconto crea la realtà nella quale avvengono i fatti narrati rendendo impossibile stabilire uno scenario oggettivo.
– Centralità della crisi. Le storie che vengono raccontate sono quelle che nascono da una situazione di “crisi”, vale a dire la rottura dell’equilibrio narrativo causato da un elemento che perturba la canonicità della trama.
– Negoziabilità inerente. La verità narrata nelle storie è sempre opinabile e per tale motivo la narrazione è un ottimo strumento di negoziazione culturale: permette la convivenza di più storie a garanzia della necessaria flessibilità.
– La capacità di espansione storica della narrativa. Le molteplici storie che raccontano la vita si intrecciano continuamente; una concatenazione di eventi passati, resi coerenti fra loro, può assurgere a storia, funzionale a sostenere una verità di oggi. Vi sono degli elementi chiave, dei “punti di svolta”, che determinano il passaggio da qualcosa di “vecchio” a qualcosa di “nuovo”.
La forma narrativa è talmente intrinseca e radicata nella nostra vita che talvolta risulta difficile staccarsi dall’automatismo con cui la utilizziamo per vedere con occhio critico e consapevole i meccanismi e le trame delle nostre storie e potere, così, agire su di essa migliorandola. Bruner individua nel contrasto, il confronto e la metacognizione gli strumenti per poterlo fare. Il contrasto consiste nel dare due interpretazioni opposte ma entrambe plausibili di un medesimo fatto mentre il confronto si realizza nel momento in cui si comprende che la propria verità narrativa è in contraddizione con ciò che avviene successivamente, quando la propria aspettativa viene disattesa; occorre molta attenzione per far si che tale situazione non degeneri in conflitto aperto. Entrambi questi aspetti portano a riflettere sulla relatività della conoscenza. La metacognizione apre le possibilità di costruire le basi epistemologiche sulle quali fondare la propria conoscenza della realtà; consente di conseguire gli strumenti necessari per negoziare i significati all’interno delle relazioni anche quando essi sono diversi.
Spesso il pensiero narrativo viene accusato di non saper veicolare la presunta verità dei fatti, competenza esclusiva del pensiero logico-razionale. Di quest’ultimo ci si preoccupa di insegnarne i metodi di sviluppo, le tecniche, le modalità di verifica innalzandolo a strumento di sicura trasmissione della conoscenza, non considerando il fatto che per lo più la vita quotidiana si svolge all’interno di un mondo che è innanzitutto scandito da narrazioni e storie. Un compito della scuola è sicuramente quello di offrire agli alunni gli adeguati strumenti metacognitivi per orientarsi nel complesso mondo delle narrazioni.
Narrazione ed educazione alle emozioni
Oltre che per gli aspetti esaminati, il genere narrativo si caratterizza per il fatto di coinvolgere fortemente la dimensione affettiva e motivazionale del lettore o dell’ascoltatore. La narrazione non e un semplice resoconto o una lista di eventi.
Di solito nelle storie e presente un “paesaggio duplice”: lo “scenario dell’azione”, cioè gli eventi e gli accadimenti, e quello della “coscienza”, costituito dai vissuti emotivi e gli eventi mentali dei protagonisti[14]. I due piani sono fortemente intrecciati e interconnessi.
Nella narrazione la tonalità emotiva e spesso molto forte. Il materiale narrativo innesca numerose emozioni: da quelle più “mentali” – come la curiosità, l’interesse, il divertimento, la suspance – a quelle più “calde” – come la gioia, la tristezza, la paura – che nascono dal nostro coinvolgimento empatico con gli stati interiori e i punti di vista dei personaggi[15].
La narrazione, dunque, oltre a favorire lo sviluppo delle funzioni linguistico -cognitive ha anche un’altra straordinaria funzione: i racconti possono aiutare i bambini e i ragazzi a riconoscere e a dare un nome alle emozioni vissute, a costruire un vocabolario per parlare dei sentimenti e a illustrare i diversi modi in cui le persone reagiscono, ad esempio, all’ira, alla paura e alla tristezza… I libri di buon livello e i grandi romanzi possono rappresentare un’ottima occasione per genitori e fi gli, per insegnanti e alunni per imparare a riconoscere le emozioni.
La lettura di romanzi, poesie o fiabe equivale a un incontro con emozioni di altri che suscitano le nostre o che ci permettono di scoprirne sfumature nuove e significati diversi[16]. Incontrare esperienze emotive indirette può essere rassicurante perché il lettore, l’ascoltatore o lo spettatore, non si trova di fronte a un’esperienza emotiva densa che invade i suoi processi somato-motori; l’emozione si presenta al suo sistema concettuale sotto una forma già svolta, articolata nello spazio e nel tempo e integrata in un reticolo logico dove sono presenti rapporti di causa ed effetto[17].
Lo psicanalista Bruno Bettelheim assegna un ruolo catartico alla fiaba, forma di narrazione radicata nella tradizione popolare, a cui viene riconosciuto un importantissimo ruolo formativo per il bambino[18]. Nella fiaba, come nei grandi romanzi della letteratura, nel teatro, ma anche nel cinema il contatto con emozioni raccontate o rappresentate da altri, non implicando il diretto coinvolgimento, permette di acquisire una molteplicità di informazioni relative alle varie esperienze emozionali, ai possibili modi di viverle ed esprimerle, alla possibilità stessa di elaborarle e renderle – nonostante la sofferenza che implicano – produttive e arricchenti sul piano esistenziale. Così, è come se il soggetto si esercitasse, anticipando sul piano del possibile esperienze emotive e modalità per accettarle (e non subirle)[19].
Racconti adatti possono offrire a genitori e insegnanti l’opportunità di affrontare argomenti delicati.
Un esempio di narrazione: le fiabe protagoniste dell’alfabetizzazione
Nella Scuola dell’Infanzia e nelle prime classi della Scuola Primaria, l’utilizzo delle fiabe si caratterizza per il suo essere un vero e proprio ambiente di apprendimento, capace di favorire molte abilità.
La narrazione della fiaba fa aumentare il rapporto sinergico tra pensiero e linguaggio, favorendo lo sviluppo della zona prossimale[20] e aumentando i parametri di autonomia e comunicazione verbale. Le fiabe abituato i bambini all’ascolto e alla comprensione orale del racconto incluso, consentendo di sviluppare idonee competenze linguistiche. Infatti, attraverso l’esposizione del contenuto della fiaba si può verificare le loro competenze linguistiche ed espositive.
Le fiabe, inoltre, grazie allo schema narrativo semplice e ripetitivo, utilizzano e sviluppano strategie di memorizzazione specifiche tra cui la ripetizione, che svolge un ruolo determinante nella memorizzazione e, di conseguenza, nell’apprendimento. Inoltre la ripetizione consente al bambino di impadronirsi di strutture linguistiche nuove facendole diventare parte del loro patrimonio e trasformandole in pensiero verbale. La lettura ad alta voce di fiabe, oltre a dare l’impressione ai bambini di compartecipare alla narrazione, offre anche la possibilità di affinare l’orecchio, di cogliere gli aspetti ritmico sonori del testo. Le fiabe, infine, aiutano il bambino a costruirsi le strutture spazio-temporali.
Interessanti per il nostro argomento sono i lavori proposti da Piero Acler e Lauramaria Fabiani, scrittore di fiabe il primo e insegnante della Scuola Primaria la seconda, su l’alfabetizzazione e la conoscenza dei verbi attraverso le fiabe.
Poiché l’alfabeto è una delle prime grandi conquiste per un bambino, entrambi hanno pensato di aiutarlo ad apprendere ogni singola lettera attraverso una favola mirata. Essi hanno pensato di dar vita a un primo Laboratorio alfabeto. Fiabe e attività per iniziare a leggere e scrivere[21], un buon metodo per lo sviluppo delle prime competenze di letto-scrittura. È una raccolta di fiabe, una per ciascuna lettera, cui sono affiancate schede operative di comprensione del testo, giochi con vocali e consonanti, scrittura e lettura delle medesime. Secondo i due autori, legare ciascuna lettera a una storia che ne definisca le caratteristiche e la renda un personaggio interessante, inciderà sul ricordo che il bambino ha di tale lettera.
Un secondo laboratorio pensato da Piero Acler e Lauramaria Fabiani è quello dei verbi: Laboratorio verbi. Fiabe e attività per la scuola primaria[22], un progetto che, attraverso l’uso delle fiabe, diventa stimolante per apprendere la grammatica.
Conclusioni
La narrazione aiuta lo sviluppo cognitivo, affettivo ed etico-valoriale. L’aspetto cognitivo del bambino è sviluppato attraverso l’arricchimento della conoscenza, l’ampliamento degli orizzonti intellettuali e culturali, l’esercizio di pensiero, stimolando la formazione di idee, sollecitando le facoltà logiche, affinando lo spirito critico e l’autonomia di giudizio e potenziando le capacità linguistiche ed espressive; l’aspetto affettivo è potenziato grazie al fatto che la narrazione sviluppa e risveglia emozioni e sentimenti, arricchisce la fantasia e sollecita l’immaginazione; l’aspetto etico-valoriale è impreziosito dall’attivazione di processi di identificazione essenziali per l’interiorizzazione di modelli, norme e valori nonché per l’acquisizione di adeguate norme comportamentali, grazie alla definizione e comprensione dei concetti di bene e male, di giusto e ingiusto, vero e falso, bello e brutto e così via.
Come non dare ragione a Umberto Eco, quando diceva: «Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale»[23].
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[1] La “cassetta degli attrezzi” è una metafora utilizzata da Bruner per indicare i mezzi che una cultura e la relativa azione educativa possono offrire a ogni individuo per produrre significati e interpretazioni durante la propria vita. Cfr. J. Bruner, The Culture of Education, Harvard University Press, Cambridge 1996, trad. it. La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 2004.
[2] U. Eco, Sei passegiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, p. 51. Umberto Eco si riferisce alla funzione dei miti.
[3] Tra questi studiosi cfr. le opere in italiano: J. Bruner, La costruzione narrativa della “realtà, in M. Ammanniti, D.N. Stern (a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Roma-Bari 1991, pp.17-38; M. Dallari, La comprensione narrativa, in M. Tarozzi (a cura di), Il governo della TV. Etnografie del consumo televisivo in contesti domestici, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 153-160 e Testi in testa. Parole e immagini per educare conoscenze e competenze narrative, Erickson, Trento 2012; D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaele Cortina, Milano 1996; A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 1997; A. Smorti, Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze 1994 e Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del Sé, Giunti, Firenze 2007; M. Sbandi (a cura di), La narrazione come ricerca del significato, Liguori, Napoli 2003.
[4] Ad esempio, dietro i testi sacri di qualsiasi religione c’è il racconto di un “essere primordiale” che ha plasmato il creato.
[5] Ad esempio in un laboratorio scientifico i ricercatori devono trascrivere i loro esperimenti, cioè devono raccontare cosa hanno fatto e quali sono stati i risultati delle loro ricerche.
[6] C. Xodo, Conti e racconti. Teoria e didattica del testo narrativo, EIT, Teramo 1990, p. 51.
[7] D. Taylor, The healing power of stories. Creating Yourself Through the Stories of Your Life, Doubleday, New York 1996, trad. it. Le storie ci prendono per mano. L’arte della narrazione per aiutare la psiche, Frassinelli, Piacenza 1999.
[8] Cfr. C. Kaneklin, G. Scaratti (a cura di), Formazione e narrazione. Costruzione di significato e processi di cambiamento personale e organizzativo, Cortina, Milano 1998.
[9] L’altro modo con cui gli esseri umani organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo è il pensiero propositivo o paradigmatico, quello logico-scientifico. Cfr. J. Bruner, A Study of Thinking, John Wiley & sons, New York, 1956. trad. it. Il pensiero. Strategie e categorie, Armando, Roma, 1969.
[10] J. Bruner, Acts of Meaning, Harvard University Press, Cambridge 1990, trad. it. La ricerca del significato, Bollati Borignhieri, Torino 1992, p. 74.
[11] Cfr. J. Bruner, Making Stories. Law, Literature, Life, Farrar, Strauss and Giroux, New York 2002, trad. it. La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Roma-Bari 2006.
[12] J. Bruner, La cultura dell’educazione, cit., p. 55.
[13] Ivi, p. 34
[14] Cfr. J. Bruner, Actual minds, possible words, Harvard University Press, Cambridge 1986, trad. it. La mente a più dimensioni, Laterza, Roma-Bari 1988.
[15] Cfr. M.C. Levorato, Le emozioni della lettura, il Mulino, Bologna 2000.
[16] Cfr. M. Contini, Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, Firenze, 1992.
[17] V. D’Urso e R. Trentin (a cura di), Psicologia delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 302.
[18] Cfr. B. Bettelheim, The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, Knopf, New York 1976, tradotto in italiano in più Edizioni, tra cui Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2001.
[19] M Contini, Per una pedagogia delle emozioni cit., p. 69.
[20] La Zona di Sviluppo Prossimale delimita quelle funzioni che sono presenti nel processo di maturazione del bambino ma che non sono ancora maturate, funzioni che sono embrionalmente già presenti e che matureranno attraverso l’interazione sociale con un adulto (o coetaneo competente). In definitiva ciò che il bambino può fare al proprio livello di sviluppo attuale e cosa può fare se aiutato al suo livello di sviluppo potenziale determina la Zona di Sviluppo Prossimale. Ovviamente questa zona è difficile da individuare con precisione, perché molto variabile e soggettiva, ma grazie alle abilità degli educatori può essere individuata e plasmata. Sull’argomento cfr. E.R. Hilgard, G.H. Bower, Theories of Learning, Appleton, New York 1966, trad. it. Le teorie dell’apprendimento, Franco Angeli, Milano 1971.
L.S. Vygotskij, Myšlenie i reč Psicholodičeskie issledovanija, 1934, trad. it., Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2001.
[21] Erickson, Trento 2010.
[22] Erickson, Trento 2013.
[23] Eco U., Sei passegiate nei boschi narrativi, cit. p. 107.