da la Repubblica
È vero, molti nostri studenti non conoscono l’italiano ma la colpa è anche dell’università
Marco Rossi Doria: Una replica alla lettera dei seicento docenti di vari atenei sulle scarse competenze degli iscritti: se la scuola con loro ha fallito, vanno cambiati i corsi di laurea degli insegnanti
La lettera dei seicento professori ripropone la povertà delle competenze linguistiche — non solo degli studenti universitari — come grande questione nazionale. Tullio De Mauro la chiamava la «de-alfabetizzazione degli italiani». Va affrontata con l’esame di una catena di responsabilità che riguardano ognuno, per favorire un’opera di riparazione comune.
In tanti docenti dedichiamo grandi energie a insegnare a ascoltare, leggere, scrivere correttamente, ad aumentare le parole conosciute e a utilizzarle bene e ad accompagnare a formulare le domande che vengono dal discutere e dall’esplorare il mondo. Era certamente più facile quando nelle famiglie e nelle comunità resisteva il presidio del limite e si poteva contare su un’alleanza educativa tra adulti. È più difficile insegnare lessico e grammatica mentre ci si deve dedicare anche al lessico e alle grammatiche del rispetto e alla ri-creazione dell’attenzione per arte, scienze, letteratura di fronte a fenomeni di desertificazione culturale che hanno carattere generale, non certo attribuibile alla sola scuola.
Poi, è una sfida esaltante ma anche impegnativa fare i conti ogni giorno con media che hanno trasformato gli stessi modi di imparare: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita. Questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola. Il cruciale tema posto dalla lettera-appello non può essere separato da tutto questo. Nelle scuole convivono molte cose. Troppo spesso la didattica trasmissiva, senza laboratorio, mortifica la curiosità e le straordinarie potenzialità esplorative ed espressive dei ragazzi minando la motivazione e si sottovaluta il come si parla e si scrive. Al contempo, moltissimi docenti sanno curare — insieme — curiosa ricerca, conoscenze di base solide, metodo di lavoro, padronanza della lingua. Ed è possibile imparare a farlo. Ma per anni la formazione degli insegnanti era passata da diritto-dovere a opzionale. E sia il Ministero che le Università non hanno davvero raccolto la grande lezione sul come si impara a insegnare che veniva da Mario Lodi o Emma Castelnuovo o dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica compilate da Tullio De Mauro dopo un grande lavoro cooperativo tra docenti di scuola e di università. Sono prevalse le ricette con la lista degli esercizi o l’elenco dei micro-obiettivi e gli schemi di lezione. E, invece, la vera competenza docente si costruisce come un sapiente artigianato con una ricchezza di strumenti didattici. Ma questo è un processo che implica imparare a prendere la lingua della vita e quella di più arti e discipline, usarne la potenza nel ricco lavoro in classe e curarne, al contempo, le forme, nel ri-conoscimento e nel confronto con la nostra superba tradizione letteraria. Oggi questa cosa è un’opera titanica, che a volte non avviene e altre sì, ben poco riconosciuta.
Per quanto riguarda la scuola di base, le Indicazioni nazionali per il Curricolo hanno ridato importanza all’italiano, proprio nello spirito dell’appello. Infatti, vi è stabilito esattamente ciò che si deve imparare — entro III, V classe primaria e III media — nell’ascolto e nel parlato, nella lettura, nella scrittura, nell’acquisizione ed espansione del lessico ricettivo e produttivo, negli elementi di grammatica esplicita e di riflessione sugli usi della lingua.
Dunque, non è «necessario rivedere le indicazioni nazionali» come, invece, sostengono i seicento firmatari. Per convincersene basta leggerle. E proprio a partire dalle Indicazioni si può convenire su compiti comuni. La competenza sofisticata dei docenti va posta nuovamente al centro dell’attenzione politica. Con esami obbligatori di lingua e grammatica all’università per chi insegnerà e con adeguati investimenti a sostegno della formazione dei docenti. Le verifiche delle conoscenze degli alunni vanno rese rituali. La riflessione sulle competenze linguistiche va posta come questione di tutte le discipline. E va potenziata l’analisi di ciò che fanno le scuole che ottengono buoni risultati nella lingua: il loro successo è la più importante lezione per battere la de-alfabetizzazione. Francesco Sabatini, da presidente dell’Accademia della Crusca, ci regalò parole importanti: «Non ci stancheremo mai di ripetere che se alla scuola dobbiamo attribuire tanta responsabilità specifica in questo campo, sarebbe vuoto esercizio retorico o, peggio, modo di oscurare molteplici altre responsabilità il continuare a non vedere la catena che lega allo stesso carro almeno altri due soggetti comprimari: l’università e i governi… Alla prima spetta con assoluta evidenza il compito di preparare in modo appropriato la classe degli insegnanti; ai secondi spettano i compiti, ineludibili ma troppo spesso elusi di assicurare una decorosa condizione socio-economica ai docenti e, fatto per nulla secondario, di verificare la rispondenza della formazione degli aspiranti insegnanti alle funzioni che li attendono nelle aule. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’italiano, bisogna dirlo francamente, si ignora il fatto che la preparazione universitaria degli insegnanti nell’area specifica della linguistica italiana è stata, per lungo tempo, del tutto assente e poi ha continuato ad essere assai limitata».