DOCUMENTO CONCLUSIVO, APPROVATO DALLA COMMISSIONE, DELL’INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI EFFETTI CONNESSI ALL’EVENTUALE ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DEL DIPLOMA DI LAUREA
(Doc. XVII, N. 14 – 7a Commissione Senato, 1 febbraio 2012)
CAPITOLO 1
Presentazione
Questo documento presenta i risultati dell’indagine conoscitiva sugli effetti connessi all’eventuale abolizione del valore legale del diploma di laurea in Italia, svolta dalla 7a Commissione permanente del Senato della Repubblica (Istruzione pubblica, Beni culturali, Ricerca scientifica, Spettacolo e Sport).
La Commissione ha deliberato la proposta di avvio di tale indagine nella riunione del 2 febbraio 2011. Il Presidente del Senato, onorevole senatore Renato Schifani, ne ha firmato la prescritta autorizzazione il successivo 8 febbraio. L’indagine si è protratta quindi per tutto il corso del 2011 e si è conclusa con l’approvazione di questo documento nella riunione della Commissione del 1° febbraio 2012.
L’abolizione del valore legale del diploma di laurea è un’ipotesi considerata da tanto tempo nel dibattito sociale e politico italiano, come evidenzia, ad esempio, lo scritto di Luigi Einaudi dal titolo “Per l’abolizione del valore legale del titolo di studio” dal testo “Scuola e Libertà” (1955).
Su questo eventuale cospicuo cambiamento dell’attuale ordinamento del nostro Paese, riguardante la cerniera tra gli studi universitari e il mondo del lavoro, l’indagine conoscitiva ha sviluppato una approfondita analisi, mirante in particolare a chiarire i seguenti punti principali:
– obiettivi dell’abolizione del valore legale del diploma di laurea e sua sostituzione con meccanismi di accreditamento dei corsi di laurea
– fondamento legislativo del valore legale del diploma di laurea
– struttura attuale del sistema universitario in Italia e rilevanza in esso del valore legale del diploma di laurea
– accettabilità sociale della prospettata abolizione
– documenti di Governo, proposte di legge e proposte politiche presentate al riguardo
– l’esperienza di altri Paesi (USA e Regno Unito) dove il diploma di laurea non ha valore legale
– processo di armonizzazione in atto dei sistemi di alta formazione nei Paesi membri dell’Unione Europea.
Per lo svolgimento dell’indagine conoscitiva sono stati utilizzati due metodi diversi (peraltro tra loro sinergici):
1) l’audizione, in apposite riunioni presso la 7a Commissione del Senato, di autorevoli rappresentanti di enti e istituzioni italiane in qualche modo toccati dall’eventuale provvedimento di abolizione del valore legale del diploma di laurea, tra cui il Presidente della Conferenza dei rettori delle università, i principali sindacati operanti nelle università, esponenti di importanti ordini professionali e Ministri del Governo;
2) un approfondito studio dell’argomento sia con il supporto dell’Ufficio Studi del Senato, sia tramite la vasta documentazione ormai facilmente accessibile con Internet.
In particolare, sono stati auditi:
– la Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI);
– il Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI);
– Il Consiglio nazionale forense (CFN);
– Confindustria;
– i rappresentanti delle sigle sindacali FLC CGIL, CISL Università, UIL P.A.-UR, CISAL Università, SNALS CONFSAL, UGL, ANDU, CNU, ADU, APU, CNRU, ADI, RDB-CUB, SUN, Rete29aprile, CONPASS, CIPUR, USPUR e SAUR;
– il Consiglio universitario nazionale;
– la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO);
– il Ministro pro tempore dell’istruzione, dell’università e della ricerca, onorevole Mariastella Gelmini;
– il Ministro pro tempore per la pubblica amministrazione e l’innovazione, onorevole Renato Brunetta.
Il presente documento è così articolato:
Capitolo 1 – Presentazione
Capitolo 2 – Il sistema universitario italiano. La laurea e il suo valore legale. Le iniziative per la sua abolizione
2.1 Il diploma di laurea oggi in Italia
2.2 Cenni sullo sviluppo storico del sistema universitario italiano
2.3 Il valore legale della laurea
2.4 Recenti iniziative a livello governativo, politico e parlamentare in qualche modo predisponenti o promuoventi l’abolizione del valore legale della laurea
Capitolo 3 – Sintesi delle audizioni effettuate
3.1 Audizione della Conferenza dei rettori delle università italiane
3.2 Audizione del Consiglio nazionale degli ingegneri
3.3 Audizione del Consiglio nazionale forense
3.4 Audizione di Confindustria
3.5 Audizione dei rappresentanti delle sigle sindacali
3.6 Audizione del Consiglio universitario nazionale
3.7 Audizione della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri
3.8 Audizione del Ministro pro tempore dell’istruzione, dell’università e della ricerca, onorevole Mariastella Gelmini
3.9 Audizione del Ministro pro tempore per la pubblica amministrazione e l’innovazione, onorevole Renato Brunetta
Capitolo 4 – L’esperienza negli Stati Uniti e nel Regno Unito in cui la laurea non ha valore legale. I processi di armonizzazione in atto nei sistemi di alta formazione dei Paesi membri dell’Unione europea
4.1 Stati Uniti d’America
4.2 Regno Unito
4.3 Lo scenario europeo
Capitolo 5 – Conclusioni
5.1 Quadro dell’indagine conoscitiva svolta
5.2 Considerazioni conclusive
Gli atti dell’indagine conoscitiva includeranno:
– il presente documento;
– le seguenti appendici:
– Appendice n. 1 – Elenco delle università italiane abilitate a rilasciare diplomi di laurea al 31 ottobre 2011
– Appendice n. 2 – Elenco delle attuali classi di laurea
– Appendice n. 3 – Resoconti stenografici delle audizioni effettuate (in ordine di tempo)
– Appendice n. 4 – Documenti presentati dagli auditi
– Appendice n. 5 – Iniziative governative, politiche e parlamentari per l’abolizione del valore legale della laurea
– Appendice n. 6 – DPR n. 76 del 2010 recante il regolamento sulla struttura e sul funzionamento dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR)
– Appendice n. 7 – Dossier del Servizio Studi del Senato dal titolo “Il valore legale del titolo di studio – Contesto europeo ed elementi di legislazione comparata”, Roma, marzo 2011
– Appendice n. 8 – Bibliografia essenziale sul valore legale del titolo di studio e sulla sua eventuale abolizione
In particolare, i documenti presentati nelle appendici (ove non sia già specificato) sono i seguenti:
ü Appendice n. 3 – Resoconti stenografici delle audizioni effettuate (in ordine di tempo)
· Appendice 3.1 – Audizione del Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), professor Marco Mancini (04/05/2011)
· Appendice 3.2 – Audizione del consigliere del Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI), ingegner Giovanni Bosi (05/05/2011)
· Appendice 3.3 – Audizione del Presidente del Consiglio nazionale forense (CFN), professor Guido Alpa (18/05/2011)
· Appendice 3.4 – Audizione del direttore per l’education – area politiche industriali, economia della conoscenza, Europa e internazionalizzazione di Confindustria, dottor Claudio Gentili e della dottoressa Chiara Papaduli della direzione rapporti istituzionali (25/05/2011)
· Appendice 3.5 – Audizione dei seguenti rappresentanti di organizzazioni sindacali:
– il responsabile delle politiche per l’università e il segretario nazionale della FLC CGIL, rispettivamente dottor Claudio Franchi e dottor Francesco Sinopoli (7/06/2011);
– il coordinatore nazionale docenti per la CISL Università, professor Gaetano Dammacco (7/06/2011);
– i membri della segreteria nazionale della UIL P.A.-UR, dottor Enrico Sestili, dottor Agostino Severo e dottoressa Piera Patassini (7/06/2011);
– il segretario confederale per il pubblico impiego ed il segretario nazionale della CISAL Università, rispettivamente dottor Massimo Blasi e dottor Giuseppe Polinari (7/06/2011);
– il coordinatore nazionale del settore universitario ed il responsabile nazionale dei ricercatori dello SNALS CONFSAL, rispettivamente dottor Santo Crisafi e dottor Giuseppe Chisari (7/06/2011);
– il segretario confederale e due dirigenti confederali della UGL, rispettivamente dottoressa Ivette Cagliari, dottoressa Adele Cifani e dottor Fiovo Bitti (7/06/2011);
– un membro dell’esecutivo nazionale per il pubblico impiego-scuola ed un membro dell’esecutivo nazionale per il pubblico impiego-università della USB, rispettivamente professoressa Barbara Battista e dottor Pietro Di Gennaro (7/06/2011);
– il segretario nazionale dell’ADU, professor Leo Peppe (7/06/2011);
– il coordinatore nazionale ed un membro dell’esecutivo nazionale dell’ANDU, rispettivamente professor Nunzio Miraglia e professoressa Paola Mura (7/06/2011);
– il coordinatore nazionale ed un membro del CNRU, rispettivamente professor Marco Merafina e professoressa Rossella Di Federico (7/06/2011);
– il presidente ed il segretario del CNU, rispettivamente professor Francesco Indiveri e professor Paolo Gianni (7/06/2011);
– il coordinatore nazionale del CoNPAss, professor Calogero Massimo Cammalleri (7/06/2011);
– i portavoce nazionali della Rete29aprile, professor Giovanni Piazza e professor Massimiliano Tabusi (7/06/2011);
– il presidente nazionale e il responsabile dell’ufficio studi del CIPUR, rispettivamente professor Vittorio Mangione e professor Alberto Incoronato (8/06/2011);
– un membro della giunta nazionale dell’USPUR, professor Rosario Nicoletti (8/06/2011);
– il segretario generale del SAUR, professor Dario Sacchi (8/06/2011).
· Appendice 3.6 – Audizione del presidente e del segretario generale/consigliere del Consiglio universitario nazionale (CUN), rispettivamente professor Andrea Lenzi e professor Fabio Naro (15/06/2011)
· Appendice 3.7 – Audizione del direttore generale, del consigliere del comitato centrale e del funzionario dell’ufficio legislativo della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO), rispettivamente dottor Marco Cavallo, dottor Ezio Casale e dottor Marcello Fontana (22/06/2011)
· Appendice 3.8 – Audizione del Ministro pro tempore dell’istruzione, dell’università e della ricerca, onorevole Mariastella Gelmini (5/07/2011)
· Appendice 3.9 – Audizione del Ministro pro tempore per la pubblica amministrazione e l’innovazione, onorevole Renato Brunetta (20/07/2011)
– Appendice n. 4 – Documenti presentati dagli auditi
· Appendice 4.1 – Documento presentato dalla CRUI: “Appunto sul valore legale dei titoli di studio”
· Appendice 4.2 – Documento presentato dal Consiglio nazionale degli ingegneri
· Appendice 4.3 – Documento presentato dal Consiglio nazionale forense: “Osservazioni in merito alla possibile abolizione del valore legale del titolo di laurea”
· Appendice 4.4 – Documento presentato da Confindustria: “Indagine conoscitiva sugli effetti connessi all’eventuale abolizione del valore legale del diploma di laurea”
· Appendice 4.5 – Documento presentato in maniera unitaria dalle sigle sindacali ADU, ANDU, CISAL – Docenti universitari, CISL -Università, CNRU, CNU, CoNPAss, FLC CGIL, LINK, RETE29Aprile, SNALS-Università, UDU, UGL-Università, UIL P.A.-UR, USB Pubblico impiego: “Comunicato unitario sul valore legale del titolo di studio letto e consegnato alla Commissione istruzione del Senato”
· Appendice 4.6 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale CISAL: “Risposta ai quesiti sull’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale del titolo di studio”
· Appendice 4.7 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale CISL: “Valore legale del titolo di studio”
· Appendice 4.8 – Documento presentato autonomamente dal COSAU (ADU, CIPUR, CISAL, CNRU, CNU, SNALS): “La posizione del COSAU, ADU, CIPUR, CISAL, CNRU, CNU, SNALS sul valore legale dei titoli di studio”
· Appendice 4.9 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale CoNPAss: “Memoria del CoNPAss per l’indagine conoscitiva del Senato della Repubblica sul valore legale della laurea”
· Appendice 4.10 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale RETE29Aprile: “Appunti sugli effetti connessi all’eventuale abolizione del valore legale del diploma di laurea”
· Appendice 4.11 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale UGL “Risposta ai quesiti sull’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale del titolo di studio”
· Appendice 4.12 – Documento presentato autonomamente dalla sigla sindacale USB: “Risposta ai quesiti sull’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale del titolo di studio”
· Appendice 4.14 – Documento presentato dalla sigla sindacale SAUR: “Risposta ai quesiti sull’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale del titolo di studio”
· Appendice 4.15 – Documento presentato dalla sigla sindacale USPUR: “Valore legale dei titoli di studio universitari – Abolizione?”
· Appendice 4.16 – Documento presentato dal CUN: “Appunti della discussione interna al CUN svolta in previsione della audizione”
· Appendice 4.17 – Documento presentato dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri: “Risposta ai quesiti sull’indagine conoscitiva sull’abolizione del valore legale del titolo di studio”
– Appendice n. 5 – Iniziative governative, politiche e parlamentari per l’abolizione del valore legale della laurea
· Appendice 5.1 – Rapporto conclusivo della Commissione Martinotti (1997)
· Appendice 5.2 – Disegno di legge n. 1252 presentato al Senato della Repubblica il 17 gennaio 2007, a prima firma del senatore Quagliarello, dal titolo “Ordinamento del sistema universitario nazionale. Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del diploma di laurea”
· Appendice 5.3 – Estratto dal Programma del Popolo della Libertà per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008
· Appendice 5.4 – Proposta di Legge n. 2250 presentata alla Camera dei Deputati il 27 febbraio 2009, a prima firma del deputato Garagnani, dal titolo “Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del diploma di laurea”
· Appendice 5.5 – Disegno di legge n. 2480 presentato al Senato della Repubblica il 1° dicembre 2010, a firma del senatore Lauro, dal titolo “Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del titolo di studio”.
CAPITOLO 2
IL SISTEMA UNIVERSITARIO ITALIANO. LA LAUREA E IL SUO VALORE LEGALE. LE INIZIATIVE PER LA SUA ABOLIZIONE
2.1 Il diploma di laurea oggi in Italia
Per esaminare l’opportunità dell’abolizione del valore legale della laurea è indispensabile che vi sia piena consapevolezza della enorme rilevanza che la formazione universitaria ha ormai raggiunto nel nostro Paese, come in tutti i Paesi sviluppati.
L’odierna università è una struttura fondamentale della società moderna, società, come sappiamo, basata sulla conoscenza quale nessun’altra in passato. All’università è affidata l’importantissima fase conclusiva della preparazione al lavoro di una parte cospicua dei giovani con il trasferimento ad essi di una vasta gamma di approfondite conoscenze sia professionalizzanti sia di alta formazione.
L’università svolge funzioni vitali per la società, quali in particolare:
– la trasmissione ai giovani nelle varie professioni sia di conoscenze immediatamente operative, sia di fondamentali conoscenze di base che danno identità e consentono l’apprendimento lungo tutto il corso della vita
– la formazione dei quadri tecnici in un’estesa gamma di discipline, in rapporto fecondo con il mondo delle imprese e del lavoro
– la rapida interiorizzazione della nuova conoscenza prodotta nel mondo e la sua pronta ed efficace trasmissione ai giovani
– la formazione degli intellettuali, degli uomini di alta cultura, delle élite della società (giuristi, filosofi, professori universitari, ricercatori, alti funzionari, eccetera)
– il supporto alla ricerca tecnologica e all’innovazione industriale tramite approfondite conoscenze professionali di decine di migliaia di professori e ricercatori e sofisticate strumentazioni
– il supporto alla competitività scientifica e tecnica del Paese nel processo in atto di globalizzazione delle economie mondiali
– lo svolgimento di ricerca scientifica di base a livello internazionale in specifici settori di punta
– il sostegno all’indipendenza e vitalità della comunità scientifica nazionale, che svolge funzioni poco conosciute ma di grande delicatezza e rilevanza in molti settori
– un importante stimolo allo sviluppo del territorio in particolare là dove le carenti condizioni sociali ed economiche lo rendono opportuno
L’importanza assunta dal sistema universitario in Italia balza all’occhio anche da un solo dato: nell’anno solare 2009, l’ultimo per cui sono disponibili statistiche complete, sono stati conferiti dalle università italiane ben 293.034 diplomi di laurea. I giovani di una generazione che conseguono una laurea sono ormai oltre il 40 per cento (i giovani nati nel 1984 che hanno raggiunto 25 anni nel 2009 sono circa 560.000).
In pochi decenni l’università italiana si è trasformata da università di élite, che aveva come scopo principale quello di formare la classe dirigente del Paese (medici, avvocati, ingegneri, professori, alti funzionari della pubblica amministrazione) a università di massa. Nel 1961, cinquant’anni fa, i laureati erano stati appena 23.019, meno di un decimo dei laureati del 2009.
Il diploma di laurea attesta l’avvenuto percorso con profitto di un determinato iter di formazione e apprendimento universitario, il corso di laurea. L’offerta formativa in Italia di corsi di laurea è particolarmente ricca.
Un primo motivo di tale grande varietà è da ascrivere alla attuale compresenza di tre diversi ordinamenti dei corsi di studio. Siamo in una fase di transizione, cioè di passaggio dal vecchio ordinamento, in cui ciascun corso di laurea aveva la propria durata, di 4, 5 o 6 anni, al nuovo ordinamento introdotto con il DM n. 509 del 1999, in cui per molti insegnamenti – ma non per tutti – sono state attivate le lauree di primo livello o triennali (con 180 crediti formativi), a carattere professionalizzante, le lauree specialistiche (con 300 crediti formativi complessivi), a carattere specialistico, a cui si accede dopo la laurea triennale, e il dottorato di ricerca, a cui si accede avendo una laurea specialistica o equivalente; a questo nuovo ordinamento, il DM 270 del 2004 del ministro Moratti ha apportato alcune modifiche, fra cui l’introduzione della laurea magistrale (con 120 crediti formativi autonomi) in luogo della laurea specialistica. Al riguardo può essere indicativo il seguente prospetto che si riferisce ai laureati 2009:
– Corsi di laurea vecchio ordinamento (27.797 laureati)
– Corsi di diploma vecchio ordinamento (158 laureati)
– Scuole dirette a fini speciali (Si tratta delle vecchie scuole per assistenti sociali) (4 laureati)
– Corsi di laurea triennali nuovo ordinamento – DM 509 del 1999 (170.380 laureati)
– Corsi biennali di laurea specialistica nuovo ordinamento – DM 509 del 1999 (73.532 laureati)
– Corsi di laurea specialistica a ciclo unico nuovo ordinamento – DM 509 del 1999 (13.559 laureati)
– Corsi di laurea nuovo ordinamento – DM 270 del 2004 (1.142 laureati)
– Corsi biennali di laurea magistrale nuovo ordinamento – DM 270 del 2004 (496 laureati)
– Corsi di laurea magistrale a ciclo unico nuovo ordinamento – DM 270 del 2004 (5.966 laureati) .
Ma la grande varietà dei corsi di laurea dell’offerta formativa italiana è soprattutto dovuta ai contenuti delle discipline insegnate e apprese. Al riguardo va sottolineata l’enorme estensione del patrimonio di conoscenze disponibile per l’insegnamento universitario, patrimonio che viene inoltre ogni anno potentemente arricchito dalle ricerche in svolgimento in tutto il mondo. Tale patrimonio è ormai suddiviso in migliaia e migliaia di complesse discipline scientifiche, tecniche e umanistiche.
Per comprensibili motivi gestionali, tale gigantesco patrimonio è stato inquadrato dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca in 14 grandi aree scientifiche. In ciascuna di esse sono stati individuati un certo numero di settori scientifico-disciplinari, ognuno caratterizzato da un proprio ambito di competenza. Vi sono settori scientifico-disciplinari che raggruppano centinaia di discipline. Il professore di università è nominato professore in un determinato settore scientifico-disciplinare.
Le 14 grandi aree scientifiche sono elencate nel seguito (tra parentesi il numero dei settori scientifico-disciplinari afferenti).
– 1. Scienze matematiche e informatiche (10)
– 2. Scienze fisiche (8)
– 3. Scienze chimiche (12)
– 4. Scienze della Terra (12)
– 5. Scienze biologiche (19 + 2 presenti in area 6)
– 6. Scienze mediche (52)
– 7. Scienze agrarie e veterinarie (30)
– 8. Ingegneria civile e architettura (25)
– 9. Ingegneria industriale e dell’informazione (38)
– 10. Scienze dell’antichità, filologico – letterarie e storico – artistiche (77)
– 11. Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche, psicologiche (32 + 2 presenti in area 6)
– 12. Scienze giuridiche (21)
– 13. Scienze economiche e statistiche (19)
– 14. Scienze politiche e sociali (14)
In tutto i settori scientifico-disciplinari sono 369.
Come abbiamo detto, la principale differenza tra i vari corsi di laurea della complessiva offerta formativa italiana è nei contenuti disciplinari insegnati e appresi. Il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, per indirizzare opportunamente le possibilità formative in relazione ai bisogni della società, ha definito un certo numero di percorsi standard, denominati “classi di laurea”. Ciascuna classe di laurea è caratterizzata da determinati contenuti disciplinari obbligatori conteggiati in termini di crediti formativi. I crediti formativi vincolati di una determinata classe di laurea sono attualmente il 50 per cento dei crediti formativi che caratterizzano il corso di laurea. Ciò significa che due corsi di laurea di una stessa classe di laurea, svolti, ad esempio, uno in una università e l’altro in un’altra università, possono differire nei contenuti disciplinari fino ad un massimo del 50 per cento dei crediti formativi. Anche due studenti nella stessa classe di laurea nella stessa università possono avere corsi di studio marcatamente diversi se scelgono insegnamenti opzionali differenti.
Le classi di laurea sono state definite ai sensi del DM MIUR 270 del 2004 (vedi Appendice n. 2). Le classi di laurea triennale (con 180 crediti formativi) sono 43 (tra cui, ad esempio, L-30 “Scienze e tecnologie fisiche”). Le classi di laurea magistrale sono in tutto 98, suddivise in tre tipi: n. 2 a ciclo unico di 6 anni, con 360 crediti formativi (la LM-41 “Medicina e chirurgia” e la LM-46 “Odontoiatria e protesi dentaria”); n. 5 a ciclo unico di 5 anni con 300 crediti formativi (tra cui LMG/01 “Giurisprudenza” e LM-42 “Medicina veterinaria”); e infine n. 91 biennali, con 120 crediti formativi. Ultimamente (rispettivamente con il decreto interministeriale 19 febbraio 2009 e con il decreto ministeriale 8 gennaio 2009) sono state definite le classi di laurea delle professioni sanitarie: 4 triennali (tra cui, ad esempio, L/SNT1 “Classe delle lauree in professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica”) e 4 magistrali (tra cui, ad esempio, LM/SNT1 “Classe delle lauree in Scienze infermieristiche e ostetriche”).
Va tenuto presente un ulteriore elemento di diversificazione, costituito dalla suddivisione di molte delle suddette classi di laurea in “indirizzi”.
I corsi di laurea (e perciò i diplomi di laurea) possono differire, oltre che per la tipologia del corso di laurea (triennale, magistrale, eccetera), oltre che per la diversa classe di laurea, oltre che per il diverso indirizzo all’interno di una data classe di laurea, oltre che per gli insegnamenti opzionali scelti dallo studente, anche per l’università in cui i corsi vengono svolti.
Il sistema universitario italiano è costituito da 95 università (vedi Appendice n. 1), in grande prevalenza università statali. Nel Paese opera inoltre un limitato numero di università non statali. In questi ultimi anni infine sono state create e poi accreditate presso il MIUR alcune università telematiche private, che svolgono la docenza unicamente per via telematica, i cui diplomi di laurea hanno lo stesso valore legale di quelli rilasciati dalle università statali (alcune delle quali accanto alla docenza tradizionale offrono anche la possibilità di usufruire della docenza telematica).
La diversità dei corsi di laurea svolti nelle varie università, pur limitata dai vincoli delle classi di laurea sopraindicati, ha fondamento nell’autonomia universitaria. Tale autonomia è un valore costituzionalmente protetto. Il comma 6 dell’articolo 33 della Costituzione così recita: “Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.” Una legge molto importante per la definizione di tali limiti è la recente legge n. 240 del 2010.
Un ultimo elemento di particolare rilievo per l’indagine conoscitiva è costituito dal grado di aspettative che il conseguimento del diploma di laurea suscita sia nel diretto interessato sia nella sua famiglia, che assai frequentemente deve sobbarcarsi spese importanti per il mantenimento agli studi del figlio. Le aspettative più rilevanti riguardano ovviamente la possibilità di ottenere in breve tempo dopo la laurea un posto di lavoro ragionevolmente retribuito e con buone prospettive di carriera, senza doversi allontanare troppo dal territorio in cui si è vissuto. Per svariati tipi di laurea (ad esempio, per le lauree in ingegneria industriale) tali aspettative fino a una generazione fa erano abbastanza soddisfatte. La situazione attuale è invece assai meno favorevole per le seguenti ragioni:
– l’accresciuto numero di laureati in competizione tra loro sul mercato del lavoro;
– la diversa fisionomia assunta dal sistema universitario, ora non più ristretto e di eccellenza, rivolto ad un’élite destinata a diventare la futura classe dirigente, ma relativo ad una cospicua frazione dei nostri giovani, per soddisfare una domanda di conoscenza per così dire “di massa”;
– la conseguente mutata qualità del sapere trasmesso da questo nuovo sistema universitario, ritenuto spesso insufficiente dal mercato del lavoro, tanto da spingere le nuove generazioni di laureati ad ulteriori azioni formative (come master, corsi di perfezionamento, eccetera).
Ma i genitori riflettono nelle loro aspettative più l’esperienza da loro avuta in gioventù che non le effettive possibilità del presente, inevitabilmente da loro poco conosciute; tendono cioè ad essere in ritardo sui tempi.
2.2 Cenni sullo sviluppo storico del sistema universitario italiano
Nel precedente paragrafo è stata messa in evidenza l’attuale complessa articolazione del sistema universitario italiano. Per rispondere pienamente alle esigenze di approfondimento dell’indagine conoscitiva, è ora opportuno accennare alle linee portanti dello sviluppo storico di tale sistema.
Le prime università si sono costituite nel nostro Paese già nel tardo Medioevo, nei secoli XI, XII e XIII, promosse e sostenute dalle rigogliose vitalità comunali allora esistenti. Le università attualmente in funzione costituite prima del 1500 sono le seguenti 16, in ordine di data di costituzione: l’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum” (anno di fondazione 1088), l’Università degli Studi di Modena (1175), l’Università degli Studi di Padova (1222), l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” (1224), l’Università degli Studi di Siena (1240), l’Università degli Studi di Macerata (1290), l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (1303), l’Università degli Studi di Perugia (1308), l’Università degli Studi di Firenze (1321), l’Università degli Studi di Camerino (1336), l’Università degli Studi di Pisa (1343), l’Università degli Studi di Pavia (1361), l’Università degli Studi di Ferrara (1391), l’Università degli Studi di Torino (1404), l’Università degli Studi di Catania (1434), l’Università degli Studi di Genova (1481).
Successivamente, dal 1500 al 1850 sono state costituite altre 8 università : l’Università degli Studi di Urbino (1506), l’Università degli Studi di Messina (1548), l’Università degli Studi di Sassari (1562), l’Università degli Studi de L’Aquila (1596), l’Università degli Studi di Cagliari (1626), l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” (1732), l’Università degli Studi di Palermo (1805), la Scuola Normale Superiore di Pisa (1810).
Nei settant’anni dal 1850 al 1920 sono state costituite 6 università statali: il Politecnico di Torino (1859), l’Università degli Studi di Parma (1859), il Politecnico di Milano (1863), l’Università di Venezia “Ca’ Foscari” (1868), l’Università per Stranieri di Siena (1917) e l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” (1919), nonché 2 università private: l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli (1864) e l’Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano (1902).
Dal 1920 al 1940, nel periodo “fascista”, sono state costituite 5 università statali: l’Università degli Studi di Milano (1923), l’Università degli Studi di Trieste (1924), l’Università degli Studi di Bari (1925), l’Università per stranieri di Perugia (1925), l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (1926) e 2 università private: l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (1921), che poi ha costituito sedi in varie altre città d’Italia, e la Libera Università Santa Maria Assunta di Roma – LUMSA (1939).
Nel secondo dopoguerra (dal 1945 ad oggi) sono state costituite 33 università statali (vedi Appendice n. 1), 10 università private e tutte le 11 università telematiche.
Le caratteristiche principali dell’attuale sistema universitario del nostro Paese sono state determinate in particolare dalle vicende di questi ultimi 150 anni. In tale periodo la dinamica più importante è stata quella della complessa transizione prodottasi con la creazione del Regno d’Italia nel 1861, con il passaggio da una piuttosto disordinata costellazione di sedi universitarie a base prevalentemente regionale esistente prima del 1861 ad un sistema universitario organico nazionale. Nel periodo hanno operato sul sistema universitario anche fortissime pressioni di cambiamento esterne, quali le necessità di realizzazione delle infrastrutture del Paese e del suo sistema industriale (a cui sono associate, ad esempio, le costituzioni per regio decreto del Politecnico di Torino nel 1859 e del Politecnico di Milano nel 1863), le esigenze di estensione a tutto il territorio nazionale di una Pubblica Amministrazione centralizzata di tipo sabaudo, l’enorme rapido sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecniche, nonchè, in questi ultimi decenni, lo straordinario aumento delle necessità di alta formazione dei nostri giovani per via della mutata struttura sociale ed economica del Paese.
Per quanto qui interessa è opportuno soffermarsi in particolare sul complesso rapporto tra università e Stato centrale. Al riguardo la prima fondamentale impostazione fu quella data dalla legge Gabrio Casati del 1859 (“Legge sul riordinamento della pubblica istruzione”), varata in occasione della fusione immediata di Lombardia e Piemonte. L’assetto dato all’istruzione superiore da questa legge fu caratterizzato dal monopolio statale (non erano ammesse università private) e da un forte accentramento ministeriale, mitigato da margini di libertà accademica sia nell’organizzazione della didattica, sia nella libera concorrenza tra i docenti, sia nella libertà riconosciuta agli studenti di regolare “l’ordine degli studi” e degli esami, pur in presenza di un piano di studi ufficiale. L’ispirazione statalista fondata sul principio del monopolio dello Stato nell’istruzione superiore della legge Casati fu riaffermata nella successiva riforma voluta da Carlo Matteucci nel 1862. Questa riforma portò avanti anche un disegno di riduzione degli atenei allora esistenti. Gli atenei italiani vennero suddivisi in due classi. Nella prima classe – a pieno finanziamento statale – furono inserite solo le 6 sedi universitarie di Bologna, Napoli, Palermo, Pavia, Pisa, Torino. Matteucci si oppose all’introduzione in Italia di “università libere” da affidare all’iniziativa dei municipi, delle province ed anche di private associazioni, convinto che le università avessero bisogno dell’intervento dello Stato per superare le difficoltà economiche e per conseguire l’obiettivo della formazione di una élite dirigente moderna, efficiente e uniforme. Vi erano però eccezioni al principio monopolistico: tra queste i 4 atenei a governo autonomo di Camerino, Ferrara, Perugia e Urbino, tutti negli Stati già pontifici.
L’orientamento statalista e accentrato riguardante l’insegnamento superiore, scaturente dalle leggi Casati e Matteucci, è rimasto prevalente fino alla fine del XIX secolo. Tuttavia si è progressivamente affievolito il principio della competenza esclusiva dello Stato ad impartire l’istruzione superiore per mezzo di istituti suoi propri ed è stata altresì superata la distinzione voluta da Matteucci delle università in due categorie con il pareggiamento (raggiunto nel 1902) di tutti gli atenei.
La prima importante apertura alle università private venne realizzata con una legge del 1902, che riconobbe il rango di università con diritto a rilasciare lauree alla Scuola di studi commerciali Luigi Bocconi di Milano. Un simile riconoscimento venne conferito nel 1922 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Una grande importanza nella storia del nostro ordinamento universitario ha avuto la riforma Gentile (settembre 1923). Tale riforma (che ha riguardato in modo organico tutta la formazione scolastica) per quanto attiene alle università ha puntato a sviluppare un’alta qualità della formazione, seguendo il modello von Humboldtiano di università (caratterizzato da docenti capaci di essere contemporaneamente grandi ricercatori e grandi didattici). Coerentemente con tale finalità la riforma Gentile ha teso ad operare un drastico ridimensionamento del numero degli istituti universitari. Gli atenei sono stati classificati in due categorie, quelli della Tabella A, completi di tutte le Facoltà, con finanziamento in gran parte a carico dello Stato (Bologna, Cagliari, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pisa, Roma e Torino) e gli altri inseriti nella Tabella B (tra cui Bari, Firenze e Milano), con diritto a ricevere dallo Stato solo un contributo parziale. Per gli atenei in Tabella A la riforma Gentile ha previsto adeguate risorse sia per gli stipendi dei professori e del personale tecnico-amministrativo, sia per il finanziamento della ricerca scientifica (iscrivendo a bilancio un apposito stanziamento).
Il forte indirizzo centralista e statalista del sistema universitario italiano disegnato dalla riforma Gentile (sostanzialmente confermato dalla successiva riforma Bottai del 1939) ha trovato la sua manifestazione più evidente nelle pervasive competenze del Ministero: è il Ministero che fissa le discipline da insegnare, che attribuisce le risorse finanziarie, che definisce le modalità di reclutamento dei docenti e dei ricercatori, che indica i temi e i campi della ricerca scientifica, che stabilisce le modalità di gestione, che approva la costituzione di nuove università, che approva l’apertura di nuove facoltà e perfino l’attivazione di nuove cattedre. Tale forte indirizzo centralista caratterizza anche l’epoca repubblicana fino alla fine degli anni ’80, quando viene in parte mitigato dal progressivo riconoscimento dell’autonomia delle università, disposta dall’articolo 33 della Costituzione.
L’autonomia viene resa possibile in via legislativa in tre passi successivi: prima con il riconoscimento agli atenei dell’autonomia statutaria e regolamentare (mediante la legge n. 168 del 1989), poi con il riconoscimento dell’autonomia didattica (mediante la legge n. 341 del 1990) e infine con il riconoscimento dell’autonomia finanziaria (mediante l’articolo 5 della legge n. 537 del 1993).
Negli anni successivi tuttavia non poche università commettono abusi nell’esercizio dei loro diritti di autonomia, ad esempio moltiplicando eccessivamente le sedi universitarie distaccate, attivando un numero sovrabbondante di corsi di laurea, espandendo fuori misura le spese correnti e indebitando troppo l’ateneo. Recentemente si è reso perciò necessario un ulteriore riordino del sistema universitario, attuato con la legge n. 240 del 2010, che tra l’altro introduce per le università l’obbligo di una governance duale (consiglio di amministrazione e rettore) e prevede un generale ricorso a procedure di valutazione del funzionamento degli atenei (tramite l’ANVUR) e degli stessi docenti.
Questo breve excursus storico mette in evidenza come il sistema universitario nazionale che si è strutturato nel nostro Paese dopo la creazione del Regno d’Italia, sia stato in gran parte un sistema basato sullo Stato, sia pure sui generis, in particolare perché in tutte le sue principali caratteristiche gestito centralmente dal Ministero competente e perché a finanziamento statale nettamente prevalente.
Le ragioni per cui a partire dall’avvento del Regno d’Italia l’alta formazione è stata ritenuta compito fondamentale dello Stato sono innanzitutto ideologiche, strettamente connesse alle filosofie politiche che hanno ispirato l’arte del governare in buona parte dei 150 anni della storia d’Italia. Ma non sono affatto trascurabili le ragioni economiche: l’istruzione universitaria richiede cospicui investimenti patrimoniali (aule, laboratori di ricerca, biblioteche, eccetera), nonché rilevanti spese correnti (per gli stipendi dei professori e del personale dedicato). Solo lo Stato può disporre di queste risorse con la necessaria continuità. Il capitalismo italiano per gran parte della sua storia non ha avuto risorse tali da potersi permettere di finanziare in proprio università private. La Chiesa Cattolica avrebbe avuto nel nostro Paese la disponibilità di adeguate risorse, ma le note vicende politiche del nostro Risorgimento hanno impedito per lungo tempo iniziative di questo tipo e solo nel 1921 le è stato consentito di attivare l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Dal carattere centralista e statalista del moderno sistema universitario italiano discende direttamente l’attribuzione di un identico valore ai diplomi di laurea rilasciati dalle varie università statali (e non statali riconosciute): non è evidentemente pensabile che lo Stato introduca discriminazioni tra diplomi di laurea di università che controlla in tutto e per tutto. Va tuttavia notato che perfino nella Riforma Gentile le università sono state abilitate a conferire lauree “aventi esclusivamente valore di qualifiche accademiche”. L’accesso agli uffici e alle professioni era previsto avvenire attraverso meccanismi di controllo, abilitazioni e soprattutto esami di Stato, a cui Gentile affidava il compito di “controllare energicamente l’opera dell’università”.
Questa centralità dello Stato nello sviluppo dei sistemi universitari nazionali, che abbiamo visto presente nella storia dell’università italiana, caratterizza la maggior parte degli Stati europei. L’unica importante eccezione è costituita dal Regno Unito, in cui lo Stato, al contrario, rimane più ai margini del sistema universitario; lo sviluppo di tale sistema nel Regno Unito è sensibile alle esigenze del mercato, attraverso forme di accreditamento da parte di organismi privati.
2.3 Il VALORE LEGALE DELLA LAUREA
Il diploma di laurea è un documento rilasciato da una università, autorizzata per legge ad emettere questo tipo di documento, che certifica l’avvenuta frequentazione con profitto di un determinato corso di studi inserito tra quelli appartenenti ad una delle classi di laurea previste dall’ordinamento.
Il diploma di laurea, indicando che il laureato ha acquisito nella frequentazione nel suo percorso universitario un complesso di conoscenze, competenze, abilità, capacità in un determinato settore, ha innanzitutto un valore sostanziale, un valore (ovviamente non abolibile) molto importante per l’inserimento nel mondo del lavoro, per i suoi effetti sociali, per l’azione di consolidamento dell’identità personale.
L’indagine conoscitiva riguarda il valore legale del diploma di laurea. Per prima cosa è importante sottolineare che tale valore deriva dalla natura di solenne certificato ufficiale emesso da una istituzione dello Stato (come sono le università “statali”, pur nella loro autonomia) o emesso da una università privata riconosciuta dallo Stato (riconoscimento che consegue ad una rigorosa istruttoria e a continue verifiche della sussistenza dei requisiti minimi per tale riconoscimento). Le università possono rilasciare tale certificato perché abilitate per legge a tale emissione. Non a caso le attuali disposizioni (derivate dal regio decreto 4 giugno 1938, n. 1269, il cosiddetto Regolamento studenti, vedi in particolare l’articolo 48) prevedono che le lauree e i diplomi conferiti dalle università contengano esplicitamente la dicitura “Repubblica Italiana” e “in nome della Legge”.
Il diploma di laurea attesta il superamento con profitto da parte del laureato di un corso di studi pluriennale in cui le discipline sono state insegnate da professori ordinari o associati reclutati dall’università secondo disposizioni di legge. Le discipline insegnate ed apprese sono tutte quelle caratterizzanti la classe di laurea a cui il diploma si riferisce. La classe di laurea è definita per legge, come dalla legge è determinato il totale dei crediti formativi richiesti ad uno studente, in termini di attività di apprendimento, per l’acquisizione di un’adeguata preparazione in un corso di studi e per il conseguimento di una determinata laurea.
Per quanto riguarda il valore “legale” del diploma di laurea, va puntualizzato subito che nel nostro ordinamento legislativo non si rinviene una specifica norma che conferisca “direttamente” valore legale alla laurea. Di questo avviso è, ad esempio, un autorevole giurista come il professor Sabino Cassese, che in particolare ricorda quanto stabilisce il regio decreto 30 settembre 1923, n. 2102 (la riforma Gentile), e poi conferma il regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, articolo 172: ” I titoli di studio rilasciati dalle università hanno esclusivamente valore di qualifiche accademiche.” Il valore legale della laurea emerge invece “indirettamente”, perché alcune leggi o atti aventi forza di legge ricollegano al possesso di questo titolo determinati effetti giuridici. Cassese parla al proposito di “valore legale indiretto”.
Va altresì sottolineato che a livello costituzionale non è presente nessuno specifico riferimento al valore legale della laurea. Le disposizioni costituzionali riguardanti l’università sono contenute nell’articolo 33 della Costituzione. In particolare in esso viene sancita al comma 1 la libertà di insegnamento della scienza (e dell’arte), viene ribadito al comma 2il diritto di ciascun cittadino a formarsi presso l’istituzione ritenuta più idonea, viene prescritto al comma 5 l’esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole e per la conclusione di essi (ma non per la conclusione degli studi universitari). Viene infine prescritto, sempre al comma 5, l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale. Obiettivo di tale esame di Stato è verificare che la formazione di chi esercita professioni suscettibili di incidere su diritti costituzionalmente garantiti o riguardanti interessi generali meritevoli di specifica tutela, sia adeguata alla bisogna. Per tali delicate professioni (avvocati, medici, ingegneri, eccetera) lo Stato abilita all’esercizio esclusivamente i laureati che superano un apposito esame, di uniforme difficoltà su tutto il territorio nazionale. Nelle intenzioni dei Padri costituenti un obiettivo di tale esame era anche quello di esercitare un controllo sulla qualità della preparazione accademica delle singole università. Ma l’efficacia di questo controllo si è dimostrata nei fatti piuttosto limitata, probabilmente perché gli esami di Stato di abilitazione all’esercizio professionale sono in maggioranza condotti dagli stessi professori dell’università che ha rilasciato il diploma di laurea. Il valore legale della laurea è invece rintracciabile, nel nostro ordinamento, in quelle leggi ordinarie che prescrivono il possesso del diploma di laurea come condizione necessaria per accedere a determinate possibilità. In particolare:
– il diploma di laurea è richiesto per legge per l’iscrizione agli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni “regolamentate”; si tratta delle professioni che, incidendo su diritti costituzionalmente garantiti o riguardando interessi generali, sono meritevoli di specifica tutela da parte dello Stato;
– il diploma di laurea è richiesto per legge per l’iscrizione a determinati albi professionali;
– specifici diplomi di laurea sono richiesti per legge per l’accesso a numerosi tipi di concorso per l’accesso alla Pubblica Amministrazione, in sostanza là dove si è ritenuto che il diploma di laurea fosse importante per garantire competenza e qualità nell’esercizio di professioni e di pubblici uffici, ad esempio, per l’accesso ai concorsi per l’entrata in Magistratura, per l’accesso ai concorsi per l’entrata nella carriera diplomatica, per l’accesso ai concorsi per il notariato, per l’accesso ai concorsi per la docenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
Il principio del valore legale dei titoli universitari è espresso, indirettamente, nel Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 31.8.1933, n. 1592, articolo 167) dove si stabilisce che le università e gli istituti superiori conferiscono, in nome della legge, le lauree e i diplomi determinati dall’ordinamento didattico.
Una esplicita conferma del principio del valore legale dei titoli universitari è presente nella riforma universitaria realizzata con il DM 509/1999 del MIUR, che ha introdotto i nuovi titoli accademici di “laurea triennale” e di “laurea specialistica”. In questo decreto ministeriale si afferma all’articolo 4 che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale.
Il medesimo principio è stato ribadito nella riforma universitaria realizzata mediante il DM 270 del 2004 (“Modifiche al regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei, approvato con decreto del Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509”), dove all’articolo 4 si prescrive ancora una volta la parità di valore legale tra titoli universitari appartenenti alla stessa “classe”.
In una stessa “classe” sono raggruppati a cura del MIUR i corsi di studio dello stesso livello, comunque denominati dagli atenei, aventi gli stessi obiettivi formativi qualificanti e le stesse conseguenti attività formative. Le “classi” di laurea sono individuate dal MIUR (con il parere consultivo del CUN) in base al loro progetto formativo centrale tramite appositi decreti ministeriali.
L’attività di controllo e garanzia esercitata dal MIUR (per conto dello Stato) nell’ambito della formazione universitaria con la verifica che i singoli corsi di studio delle varie università soddisfino i criteri prescritti per le diverse classi di laurea, giustifica e legittima la parità di valore legale tra titoli universitari della stessa “classe” di laurea emanati dalle diverse università.
Il DPR 328 del 2001 recante “Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti” di fatto determina un ulteriore riconoscimento di valore legale alla laurea nel settore delle libere professioni, stabilendo uno stretto collegamento tra l’accesso alla libera professione e la laurea posseduta. Tale decreto, infatti, individuando le classi di laurea necessarie per l’accesso alle varie professioni, considera separatamente laurea triennale e laurea specialistica (ora magistrale). Ad esempio, nel caso della professione di ingegnere, il relativo albo è suddiviso in due sezioni, una riservata a coloro che hanno conseguito una laurea di durata complessiva pari a 5 anni, l’altra riservata a coloro che hanno conseguito una laurea triennale.
Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, un tempo ancorato al sistema del valore legale della laurea nell’ambito della disciplina delle assunzioni e degli avanzamenti di carriera, oggi va registrata una significativa evoluzione. La materia ha subito, infatti, un progressivo processo di delegificazione, sia per la privatizzazione di vari settori che, nel passato, ricadevano nell’ambito del pubblico impiego, sia per il frequente rimando alla contrattazione sindacale per la determinazione degli avanzamenti di carriera di coloro che fanno parte dei pubblici uffici. In molti casi, il requisito del titolo di studio non è più così essenziale, soprattutto per gli avanzamenti di carriera, dove contano maggiormente altri criteri, quali l’esperienza precedentemente acquisita e l’aver ricoperto, di fatto o per incarico temporaneo, funzioni superiori.
Come nel pubblico anche nel privato la laurea costituisce un titolo fondamentale per le neo-assunzioni. Ma nel privato la laurea non viene valutata tanto per il suo valore legale, quanto per il suo contenuto sostanziale: le imprese considerano diversamente il titolo e il voto di laurea a seconda dell’università che lo ha rilasciato. Ovviamente per assunzioni successive alla prima o alle prime contano più che la laurea soprattutto l’esperienza maturata e le competenze acquisite nel settore di interesse.
In conclusione si può affermare che in Italia, a differenza di altri Paesi, il titolo di studio non è un semplice titolo accademico, che attesta il felice superamento di un corso di studi, bensì un vero e proprio certificato pubblico, rilasciato “in nome della Legge” dall’autorità accademica nell’esercizio di una potestà pubblica.
Il valore legale del titolo di studio rappresenta una certezza legale circa il possesso, da parte dei soggetti che ne siano provvisti, di una data preparazione culturale o professionale, risultante dalla conformità del corso di studi seguito agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale. Tale certezza legale opera non solo nell’ordinamento didattico, consentendo il proseguimento degli studi, ma in tutto l’ordinamento giuridico nazionale, permettendo, ad esempio, la partecipazione a pubblici concorsi o l’esercizio di un corso di studi.
I principali studi relativi all’argomento del valore legale del diploma di laurea in Italia e alla sua eventuale abolizione sono indicati nella bibliografia essenziale riportata nell’Appendice n. 8
2.4 RECENTI INIZIATIVE A LIVELLO GOVERNATIVO, POLITICO E PARLAMENTARE in qualche modo predisponenti o promuoventi L’ABOLIZIONE DEL VALORE LEGALE DELLA LAUREA
Negli anni recenti si sono avute in Italia diverse iniziative a livello politico, governativo e parlamentare in qualche modo predisponenti o promuoventi l’abolizione del valore legale della laurea.
Tra queste iniziative va innanzitutto ricordato il Rapporto finale (ottobre 1997) del gruppo di lavoro, guidato dal professor Guido Martinotti, istituito nell’ambito dell’allora Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (MURST) sul tema “Autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio di livello universitario e post-universitario”. Tale Rapporto, nel riaffermare la filosofia generale dell’autonomia universitaria, sottolinea tuttavia che autonomia non significa pura e semplice deregulation, e che finché il sistema universitario italiano rimane pubblico finanziato con risorse nazionali, oltre a possedere alcuni requisiti comuni minimi, deve puntare ad una “graduale sostituzione di un valore formale del titolo di studio… con un sistema di certificazioni a posteriori o accreditamento”. Tale accreditamento nazionale “si pone come garante della qualità dell’istruzione offerta” e dovrebbe basarsi “su tre criteri, valore culturale del titolo proposto, sua rispondenza a esigenze sociali o economiche e adeguatezza delle risorse messe a disposizione dagli atenei”. In sostanza un sistema universitario basato sull’autonomia richiede “una regolazione più sofisticata”, da realizzarsi mediante l’adozione di meccanismi di valutazione. “Maggiore è l’autonomia, più stringente deve essere l’obbligo da parte dei soggetti di confrontarsi con una valutazione anche esterna del proprio funzionamento”.
Una visione, per così dire, “abolizionista” è stata in qualche modo espressa nel Programma elettorale del Popolo della Libertà per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008, là dove si ritiene “fondamentale affrontare il tema del valore legale del titolo di studio, giacché tale istituto oggi sembra esser superato da una realtà in cui conta soprattutto poter fornire agli studenti, alle famiglie, ai datori di lavoro dati certi sulla qualità dei corsi e delle strutture”. La proposta del Pdl nel suo progetto di governo nel settore si incentra “sull’introduzione di un meccanismo di accreditamento teso a garantire il valore sostanziale dei titoli rilasciati dagli atenei, superando una concezione formalistica che è anche causa non ultima di alcune degenerazioni del sistema”.
Dal 2007 ad oggi sono ben tre i disegni di legge presentati al Parlamento comportanti l’abolizione del valore legale della laurea.
Il primo tra questi è il disegno di legge n. 1252 presentato al Senato il 17 gennaio 2007, su iniziativa dei senatori Quagliarello, Asciutti, Alberti Casellati, Cantoni, Mauro e Sacconi, dal titolo “Ordinamento del sistema universitario nazionale. Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del diploma di laurea.”
Si tratta di una complessa proposta di riforma dell’università, mirante a sviluppare qualità degli studi, flessibilità e attenzione alle esigenze del mercato, ispirata ai seguenti principi:
– riconoscimento dell’autonomia dell’attività di insegnamento e della libertà di ricerca;
– libertà di scelta del percorso formativo da parte degli studenti, da coniugarsi tuttavia con la consapevolezza delle esigenze del sistema economico e delle possibilità occupazionali del mondo del lavoro;
– garanzia dell’effettivo diritto allo studio, da inquadrare tuttavia nella promozione dell’eccellenza, eliminando ogni connotazione di carattere assistenziale;
– garanzia da parte dello Stato di un’adeguata attività di valutazione dell’operato delle istituzioni universitarie secondo criteri oggettivi di efficacia ed efficienza;
– trasparenza e meritocrazia nel sistema di reclutamento dei docenti.
“Per garantire un sistema che valorizzi e faccia propri questi principi, che sono alla base di un’università di qualità – si precisa nella presentazione del disegno di legge – è necessario intervenire su alcuni snodi decisivi. Col sistema attuale, in cui tutti i diplomi sono eguali tra loro e ciò che premia è quindi la facilità con cui acquisirli, si è creato un meccanismo di concorrenza al ribasso, piuttosto che di eccellenza. L’unico modo per spezzare questo meccanismo e avviare una virtuosa competizione per la qualità è l’abolizione del valore legale del titolo di studio”. Il disegno di legge prevede questa misura come obiettivo di medio termine (entro 36 mesi), durante i quali va attuata una riforma graduale del sistema, in particolare introducendo un efficiente sistema di valutazione della qualità dell’attività delle singole università. Tale valutazione deve riguardare prima di tutto la fase di avvio dell’attività di nuove università, da accreditarsi sulla base di parametri oggettivi, e deve poi avere per oggetto la qualità del funzionamento delle università accreditate, sia della didattica, sia della ricerca, tenendo in debito conto il rapporto con il sistema produttivo e il mercato del lavoro. Le disposizioni riguardanti l’abolizione del valore legale del diploma di laurea sono inserite nell’articolo 15. Tale articolo prevede la delega al Governo per l’emanazione entro 36 mesi di uno o più decreti legislativi riguardanti tra l’altro “l’abrogazione delle disposizioni di legge in vigore che conferiscono valore legale al diploma di laurea e a tutti i diplomi universitari” (comma 2, lettera a)). Non viene data alcuna indicazione circa le suddette disposizioni di legge da abrogare.
Un’altra proposta di legge riguardante l’abolizione del valore legale della laurea è stata presentata alla Camera dei deputati il 27 febbraio 2009 dai deputati Garagnani, Barbieri, Biasotti, Carlucci, Ceccacci Rubino, Di Centa, Palmieri, Pelino e Raisi (tutti del PdL). Si tratta di una proposta di legge n. 2250, avente per titolo “Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del diploma di laurea”, composta da un solo articolo, riguardante appunto la delega al Governo per l’emanazione entro un anno di un decreto legislativo riguardante tra l’altro “l’abrogazione delle disposizioni di legge in vigore che conferiscono valore legale al diploma di laurea e a tutti i diplomi universitari” (comma 2, lettera a)). Nella presentazione della proposta di legge si sostiene che “la legge italiana conferisce “valore legale”, cioè il potere di produrre effetti giuridici, ai titoli di studio che rispondono agli standard nazionali normativamente previsti.” Il principio del valore legale dei titoli universitari è attribuito all’ articolo 167 del testo unico delle leggi sull’istruzione superiore, di cui al regio decreto 31 agosto 1933 n. 1592. Le finalità che la legge si propone sono così riassumibili:
– ottenere un’offerta formativa di qualità e la promozione del merito, da cui una maggiore efficienza dell’università italiana;
– consentire un accertamento più rigoroso delle competenze professionali di ciascun soggetto, finora considerate comunque acquisite in base al possesso del diploma di laurea, e promuovere nell’accesso alla pubblica amministrazione bandi concorsuali e selezioni del personale basati sul merito e non sul “pezzo di carta”, non su votazioni troppo alte ottenute presso istituti scolastici ed universitari poco scrupolosi nel valutare l’effettiva preparazione degli allievi;
– eliminare il rischio per le università di diventare mere “fabbriche di titoli” e sviluppare tra gli atenei una concorrenza virtuosa.
Sullo stesso argomento il 1° dicembre 2010 è stato presentato al Senato il disegno di legge n. 2480, firmato dal senatore Lauro (PdL), avente il titolo “Delega al Governo per l’abolizione del valore legale del titolo di studio”. Il testo di questo disegno di legge è identico a quello precedente. Diversa invece la presentazione del disegno di legge. In essa si richiama l’ordine del giorno Grimoldi n. 9/1966/56 presentato l’8 gennaio 2009 in sede di conversione del decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, in cui il rappresentante del Governo accettava il dispositivo (riformulato) dell’odg e cioè accettava che il Governo si impegnasse per “un graduale superamento del valore legale del titolo di studio”. Il disegno di legge, secondo il presentatore, riprende l’impostazione liberale einaudiana e la aggiorna rispetto all’evoluzione della società e del mercato. Abbraccia comunque la scelta “abolizionista”, che si rifà in sostanza al modello statunitense, dove non vi è alcun controllo statale sugli studi svolti, ma vi è piena competizione tra istituzioni formative e la valutazione del valore dei titoli è affidata interamente al mercato.
CAPITOLO 3
SINTESI DELLE Audizioni
Vengono presentate nel seguito le sintesi degli interventi fatti nel corso delle varie audizioni. Per maggiori dettagli si rimanda ai resoconti stenografici delle audizioni e ai documenti presentati dagli auditi, (vedi le Appendici n. 3 e n. 4)
3.1 AUDIZIONE DELLA CONFERENZA DEI RETTORI DELLE UNIVERSITA’ ITALIANE
La prima audizione dell’indagine conoscitiva, tenutasi il giorno 04/05/2011, ha riguardato il neo Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), professor Marco Mancini.
Il Presidente ha iniziato chiarendo che il complesso argomento dell’abolizione del valore legale della laurea, pur da parecchi anni oggetto di riflessione tra i componenti della CRUI, non è stato ancora posto all’ordine del giorno di dibattiti della Conferenza. Non è stata perciò raggiunta all’interno della CRUI una opinione formalmente condivisa. Sull’argomento il professor Mancini ha manifestato alcune preoccupazioni circa le conseguenze che potrebbero derivare dall’abolizione del valore legale della laurea.
In due ambiti in cui il valore legale della laurea assume primaria rilevanza, ossia nell’accesso alle libere professioni e nell’accesso ai concorsi pubblici, la sua abolizione avrebbe serie conseguenze negative: comporterebbe la perdita dell’attuale collegamento tra laurea ed iscrizione agli albi professionali, con conseguente ridimensionamento della funzione degli stessi Ordini professionali (perdita di tutela e garanzia) e determinerebbe una minor sicurezza di selezione meritocratica nei concorsi pubblici, per cui la laurea costituisce oggi uno dei più importanti requisiti di ammissione.
L’abolizione del valore legale della laurea potrebbe anche comportare la decadenza delle complesse e articolate procedure legislative, di attuazione ministeriale, previste attualmente per la costituzione di nuove università rilascianti titoli riconosciuti nel nostro ordinamento. Solo le università che hanno superato con successo l’esame severo di queste procedure hanno il diritto di esercitare alta formazione e di rilasciare diplomi di laurea aventi valore legale. Una volta che fossero abrogate tali procedure, chiunque potrebbe facilmente attivare istituti universitari, senza offrire agli utenti le garanzie di serietà che in qualche modo le attuali procedure esercitano.
Infine, ad avviso della CRUI, l’abolizione del valore legale della laurea indebolirebbe nelle università la funzione di garanzia della qualità dell’insegnamento offerto. Sarebbe un grave errore pensare che tocchi al mercato del lavoro con le sue scelte valutare questa qualità. Sono le università, i soggetti deputati e qualificati per l’alta formazione, ad avere la prima responsabilità sulla qualità della loro azione formativa.
Circa l’accreditamento delle università in base a ranking, come in uso nel mondo anglosassone, il professor Mancini ha espresso perplessità e dubbi: i parametri indicatori usati per questi ranking non sono sempre condivisibili; lo “sgranamento” delle università (per usare le sue parole), che deriverebbe da questa classifica della qualità, sarebbe difficilmente gestibile in un sistema universitario come quello italiano sostanzialmente basato su università statali.
Nella situazione attuale, secondo il Presidente della CRUI, la scelta dell’abolizione del valore legale della laurea non appare né necessaria né opportuna. E’ assai più conveniente cogliere l’importante occasione offerta dalla legge 240 del 2010, la riforma Gelmini, che all’articolo 5, comma 3, lettera a), prevede un accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio universitari, fondato sull’utilizzazione di specifici indicatori definiti ex ante dall’ANVUR. Questi indicatori dovranno verificare il possesso da parte degli atenei di idonei requisiti didattici, strutturali, organizzativi, di qualificazione dei docenti e delle attività di ricerca, nonché di sostenibilità economico – finanziaria. Tale accreditamento, se applicato in maniera rigorosa, trasparente e seria, responsabilizzerà le università e promuoverà la qualità e l’efficienza delle offerte formative, senza tuttavia stravolgere il sistema universitario esistente. Il suddetto accreditamento delle università, ha sottolineato il professor Mancini, se serio e tempestivo, avrebbe anche il merito di informare gli studenti e le famiglie circa l’effettiva qualità dell’offerta formativa delle singole università, cosa utilissima per orientare una scelta universitaria consapevole.
Il Presidente Mancini ha osservato inoltre che nel mercato del lavoro è già presente una sorta di “accreditamento popolare” indicante la qualità migliore di alcune università rispetto ad altre. La maggior parte della aziende si orienta ormai, nella ricerca del personale, a preferire i laureati degli atenei riconosciuti dalla generalità come i più preparati per il tipo di competenza ricercata; questa realtà rimane estranea solo alla Pubblica amministrazione. Tali diffuse prassi di selezione e assunzione del personale verranno certamente rafforzate dall’introduzione del suddetto meccanismo di accreditamento e porranno ancora di più in competizione gli atenei, ma ciò non spaventa in nessun modo le università italiane. La CRUI auspica comunque che gli indicatori che saranno stabiliti dall’ANVUR per questo meccanismo di accreditamento siano sganciati da logiche di mercato, giacché gli atenei, prima di confrontarsi serenamente con quest’ultimo, devono essere “verificati” all’interno, ovvero per l’attività da loro svolta nell’ambito della stessa realtà universitaria.
Il professor Mancini ha peraltro manifestato l’opinione che l’abolizione del valore legale della laurea potrebbe essere considerata la meta finale di un percorso graduale, la cui prima tappa sarebbe appunto la sperimentazione del suddetto meccanismo di accreditamento delle sedi e dei corsi di studi basato sugli indicatori ANVUR.
In ogni caso, va tenuto ben presente, ha continuato il professor Mancini, il quadro globale di riforma dei sistemi universitari europei che va sotto il nome di Processo di Bologna. Tale processo prevede una progressiva convergenza dei corsi di studi di alta formazione europei (e internazionali), onde rendere i titoli di studio sempre più compatibili. L’introduzione del Diploma Supplement rende già ora comprensibili a livello internazionale i percorsi di studio dei singoli laureati. Il Processo di Bologna richiede l’istituzione da parte dei Paesi che vi partecipano di Agenzie nazionali per la valutazione indipendente delle università (come per l’Italia è appunto l’ANVUR) e il loro coordinamento generale mediante l’ENQA (European Quality Assurance), l’associazione europea per l’assicurazione della qualità dell’alta formazione. E’ evidente che una eventuale iniziativa legislativa per l’abolizione del valore legale della laurea dovrebbe raccordarsi con questo quadro europeo (e non solo europeo) in avanzata via di costituzione.
Per quanto concerne il riconoscimento dei titoli di studio per facilitare ai cittadini dell’Unione europea il diritto di circolazione per lavoro nei territori dell’Unione, il professor Mancini ha ammesso la difficoltà della CRUI nel paragonare corsi di studi di sistemi d’istruzione superiori stranieri molto diversi dai nostri (in particolare quelli del Regno Unito), generati da tradizioni culturali sostanzialmente diverse.
Un ultimo punto su cui il Presidente Mancini si è espresso ha riguardato la anomala proliferazione di corsi di laurea verificatasi nel recente passato. Il problema, a suo avviso, si sta ridimensionando attraverso “un’autoregolazione” del sistema, con vari effetti positivi (tra cui anche una maggiore facilitazione del riconoscimento reciproco dei titoli con gli altri Stati). Un’ulteriore riduzione dei corsi di laurea potrebbe essere determinata da alcune norme della legge 240/2010, tra cui in particolare l’introduzione del meccanismo di accreditamento di cui si è detto sopra, che porterà a chiudere i corsi di laurea che non rispettano i requisiti minimi stabiliti dagli indicatori ANVUR.
3.2 AUDIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE DEGLI INGEGNERI
L’audizione del Consiglio nazionale degli ingegneri (CNI) si è tenuta il giorno 5/5/2001. In rappresentanza del Consiglio è intervenuto il consigliere ingegner Giovanni Bosi, su mandato del Presidente, ingegner Rolando. La comunicazione dell’ingegner Bosi ha integrato il documento allegato in appendice presentato dal CNI. I punti principali toccati sono stati i seguenti:
– una forte critica dell’attuale formazione accademica degli ingegneri;
– un’analisi critica dell’attuale esame di Stato per l’abilitazione alla professione di ingegnere;
– il gradimento nei confronti di procedure di accreditamento dei corsi di laurea in ingegneria in sostituzione del valore legale della laurea;
– la libera circolazione degli ingegneri nel territorio dell’Unione europea.
Circa il primo punto l’ingegner Bosi ha dichiarato che la professione dell’ingegnere sta risentendo di un’offerta formativa universitaria decisamente carente. Ciò a suo avviso è da attribuire a varie cause, tra cui la recente introduzione del ciclo di studi 3+2, la proliferazione nel territorio del Paese di troppe facoltà d’ingegneria e l’apertura di vari nuovi di corsi di laurea in ingegneria privi di seria connessione con esigenze di mercato. In particolare la riforma cosiddetta 3+2 ha comportato la compressione della parte propedeutica, quella formativa generale, relativa agli studi di matematica, geometria, meccanica razionale, fisica e chimica, studi approfonditi e severi che determinavano l’acquisizione di una caratteristica forma mentis, fondamentale per la capacità di affrontare problemi. Ma a soffrire è stata anche la didattica professionalizzante, ridotta nei corsi di 3 anni ad un solo anno. Gli Ordini auspicano al riguardo una disponibilità del Ministero all’introduzione di due corsi formativi distinti per le discipline di ingegneria: il ciclo unico di 5 anni, in particolare per la formazione degli ingegneri professionisti, e un ciclo breve (3 anni) rivolto ai “tecnici d’ingegneria”, con competenze in ambiti più ristretti, orientati al lavoro dipendente.
Una forte critica è stata espressa dal CNI anche sull’attuale configurazione dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione d’ingegnere. Tale esame, pur migliorato dalla regolamentazione del DPR 328/2001, resta essenzialmente incentrato sulla verifica delle conoscenze teoriche e scolastiche del candidato (che può presentarsi all’esame anche immediatamente dopo la laurea). L’esame è gestito da commissioni in cui la presenza di professionisti è minoritaria rispetto alla componente accademica. Manca la previsione dello svolgimento di un periodo di tirocinio propedeutico all’accesso all’esame (tirocinio invece necessario in vari altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti). Altro difetto dell’attuale regolamentazione è la possibilità di accesso all’esame, proprio per “il valore legale” del titolo accademico, di laureati che hanno frequentato corsi fornenti conoscenze e competenze molto differenziate, con disomogeneità accresciute negli ultimi anni. In complesso l’attuale forma dell’esame di Stato non risponde più in modo adeguato alle sue finalità costituzionali.
Circa il terzo punto il CNI si è dichiarato favorevole all’abolizione del valore legale della laurea a condizione della sua sostituzione con opportuni meccanismi di accreditamento del contenuto dei corsi di studio. L’ingegner Bosi ha insistito molto che gli eventuali processi di certificazione e accreditamento sostitutivi del valore legale del titolo siano riferiti non alle università e nemmeno alle facoltà o ai dipartimenti, ma ai singoli corsi di laurea. Solo così si produrrà un innalzamento della qualità dei programmi e una loro migliore rispondenza alle esigenze del mercato del lavoro e in parallelo verranno eliminati i corsi meno validi. Ed ha citato recenti contatti dell’Ordine degli ingegneri con la Conferenza dei presidi delle facoltà d’ingegneria, che sta per l’appunto studiando procedure di accreditamento di corsi di laurea, anticipando iniziative legislative. Il CNI ritiene inoltre che all’Ordine degli ingegneri, proprio per la funzione svolta (a garanzia pubblica della rettitudine morale e della capacità professionale dei propri iscritti) dovrebbe esser riconosciuto uno specifico ruolo nei meccanismi di accreditamento (come avviene per l’ABET nel Regno Unito).
Quanto al tema della libera circolazione degli ingegneri in ambito europeo, l’ingegner Bosi ha sottolineato che la professione dell’ingegnere è una professione regolamentata e in quanto tale in quasi tutti gli Stati il suo esercizio è soggetto a regole e tutele. In Italia un ingegnere dell’Unione Europea che eserciti la professione nel nostro Paese in modo saltuario ed occasionale, non è soggetto all’iscrizione all’albo italiano, basta quella del Paese d’origine; se invece l’esercizio della professione diventa stabile, l’ingegnere straniero deve iscriversi all’albo in Italia, iscrizione automatica per curricula simili a quelli italiani e successiva invece a un tirocinio di 6 mesi se il percorso formativo dell’ingegnere straniero presenta significative lacune rispetto a quello italiano. Il CNI è comunque pienamente favorevole al diritto di circolazione entro l’Unione Europea degli ingegneri professionisti, anche perché la categoria non teme concorrenza, data la preparazione degli ingegneri italiani.
3.3 AUDIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
Il parere del Consiglio nazionale forense (CNF) sul tema oggetto dell’indagine conoscitiva è stato espresso dal suo Presidente, professor Guido Alpa, nel corso dell’audizione del 18 maggio 2011. Nell’occasione il Presidente Alpa ha anche consegnato agli uffici un documento del CNF dal titolo “Osservazioni in merito alla possibile abolizione del valore legale del titolo di laurea” (riportato in Appendice n. 4.3).
I punti principali emersi in questa audizione possono essere così riassunti:
– analisi critica dell’attuale formazione degli aspiranti avvocati nei corsi di laurea in giurisprudenza e nelle successive scuole di formazione professionale (le scuole di specializzazione legale e le scuole istituite dagli ordini forensi);
– parere del CNF in merito all’abolizione del valore legale del titolo di laurea;
– analisi dell’attuale esame di Stato per l’abilitazione alla professione di avvocato.
Circa il primo punto il professor Alpa ha tenuto a sottolineare che ormai il mercato in cui deve svolgersi l’azione professionale dell’avvocato è diventato europeo, anzi internazionale. Di ciò devono tenere debito conto sia i piani di studio della facoltà di giurisprudenza sia la successiva formazione professionale e pratica. È ormai richiesta all’avvocato, qualunque sia la sua nazionalità, una formazione che non sia circoscritta soltanto all’ordinamento interno. Ciò non solo per le sempre più frequenti transazioni commerciali sul mercato internazionale, ma anche per la grande espansione verificatasi del diritto comunitario e del diritto internazionale, a livello di formule, termini, prassi contrattuali e modelli organizzativi e normativi.
En passant il professor Alpa ha segnalato la complessità della comparazione tra le due grandi tradizioni della professione forense esistenti nei Paesi dell’Unione Europea, quella continentale, tendenzialmente codificata, a cui appartiene la tradizione italiana, e la tradizione di common law del Regno Unito. In questa ultima tradizione, assai diversa dalla nostra, gli avvocati sono divisi in due categorie: solicitor e barrister. La categoria che si avvicina maggiormente ai nostri avvocati è quella dei barrister. Anche all’interno della tradizione continentale si registrano cospicue differenze. Il professor Alpa ha ricordato, ad esempio, il ben diverso numero degli avvocati ammessi alla difesa alle corti superiori in Francia (98) e in Italia (almeno 15 mila, di cui almeno 2000 praticanti).
Il parere del CNF circa l’abolizione del valore legale del titolo di laurea è negativo. Vi è piena consapevolezza dei gravi difetti dell’attuale sistema, quali l’assenza di una reale concorrenza virtuosa tra gli atenei, le cospicue differenze di preparazione nelle varie università (che tuttavia non possono essere considerate nell’accesso alle pubbliche amministrazioni, proprio per il valore legale della laurea), l’eccessiva proliferazione degli atenei e corsi di laurea a scapito della qualità, l’eccesso di controllo pubblico sul sistema universitario. Tra gli atenei si è anzi innescata a suo giudizio una concorrenza perversa, una corsa al ribasso che si manifesta nella semplificazione eccessiva dei contenuti didattici, nella banalizzazione delle verifiche di apprendimento, nella rinuncia all’innovazione didattica. Ciò è stato dovuto, oltre alla naturale tendenza degli studenti a preferire i corsi di studio meno impegnativi, anche ai criteri adottati fino ad ora in sede ministeriale per l’assegnazione delle risorse pubbliche alle università, basati sul numero assoluto degli studenti iscritti, sulla percentuale di studenti in regola con gli esami, sul basso numero di fuori corso. Il CNF non ha dubbi sull’assoluta necessità di contrastare in maniera risoluta questi gravi difetti, ma ritiene che l’abolizione del valore legale della laurea sarebbe una misura destabilizzante. La garanzia pubblica (o di strutture equiparate a quelle pubbliche) sul livello delle conoscenze apprese dal laureato andrebbe al contrario rafforzata e resa più affidabile e veritiera, anche con un sistema di rating degli atenei. Il professor Alpa ha in particolare criticato l’esperienza delle piccole sedi universitarie e delle università telematiche, spesso prive di biblioteche, mancanti di vero contatto con il corpo docente, riducenti ogni esame ad un adempimento più formale che sostanziale. In conclusione il CNF auspica che l’accesso alle professioni venga reso più equo tramite una selezione accademica più rigorosa e ritiene che la conservazione del valore e dell’effetto legale del titolo di laurea consenta di rafforzare il controllo di qualità su tale titolo.
Il professor Alpa ha inoltre tenuto a sottolineare che il nostro ordinamento pone anche degli ostacoli di principio alla realizzazione di un intervento così incisivo sul valore certificativo del titolo di studio come quello della sua abolizione. Il primo tra questi vincoli è di natura costituzionale. All’articolo 33 la Costituzione prevede l’obbligo per lo Stato di garantire un sistema di istruzione completo. La logica conseguenza è che gli istituti pubblici, tanto scolastici quanto universitari, debbano certificare l’avvenuta impartizione e verifica degli insegnamenti nei modi loro propri, ossia con atti pubblici. Il titolo di studio pertanto non può considerarsi un’entità che vive di vita propria, ma costituisce la rappresentazione giuridica dell’avvenuto assolvimento della funzione formativa dello Stato o degli istituti ad esso collegati.
Il professor Alpa ha infine ribadito il dovere di garanzia spettante alla mano pubblica sull’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, una delicata professione regolamentata. Al riguardo ha ricordato la specifica formazione fornita sia dalle scuole di specializzazione legale post laurea, sia dalle scuole istituite dagli ordini forensi (che ad oggi sono 80, collegate con gli ordini presenti in tutte le regioni, anzi più esattamente in tutti i distretti). Ed ha concluso esprimendo l’avviso che sia assolutamente necessario prevedere e mantenere un sistema nazionale e accentrato di selezione all’accesso agli albi professionali, senza possibilità per le Regioni di stabilire diverse modalità d’ingresso nell’esercizio professionale.
3.4 AUDIZIONE DI CONFINDUSTRIA
Il punto di vista di Confindustria sul tema dell’indagine conoscitiva è stato presentato il 25 maggio dal dottor Claudio Gentili, Direttore Education dell’Associazione, e può essere così riassunto[1].
Il dottor Gentili ha iniziato ricordando brevemente l’introduzione nel nostro ordinamento del valore legale del titolo di studio (un regio decreto del 1933). L’intenzione del legislatore era quella di istituire un “marchio di qualità”: lo Stato garantiva una identica qualità della formazione in tutte le università, imponendo vincoli generali e regole omogenee sulle materie da insegnare, sul reclutamento degli insegnanti, sul loro numero, sul tipo dei corsi di laurea, eccetera. In tal modo lo Stato tutelava non solo le famiglie e gli studenti, ma anche la società tutta, dagli utenti dei servizi dei professionisti, alle imprese e alle pubbliche amministrazioni che assumono laureati. L’esperienza di tutti questi anni, tuttavia, secondo Confindustria non è stata così positiva. Gli effetti auspicati per l’introduzione del “marchio di qualità” sono stati spesso sovvertiti, perché l’istituto del valore legale della laurea, usato in termini formalistici, ha ridotto la concorrenza tra università, ha esercitato un’azione antimeritocratica, ha determinato un abbassamento della qualità degli studi, ha allontanato i programmi di studio dalle esigenze del mercato del lavoro.
Vi sono stati ulteriori effetti distorsivi. Ad esempio, il valore legale della laurea ha reso più difficile attrarre nelle nostre università studenti stranieri di valore. Per incrementare questa attrattività occorrerebbe poter realizzare corsi completamente in inglese che non siano la riproduzione di corsi che già esistono in italiano. Ma tali corsi in inglese non sono realizzabili, perché sarebbero vietati da inevitabili sentenze dei TAR che impedirebbero corsi di laurea aventi valore legale nel nostro Paese non somministrati in italiano.
Secondo Confindustria quindi il valore legale del titolo di studio va superato. Ma non con una abolizione tout court, che lascerebbe posto ad un inaccettabile Far West, bensì con la sostituzione del valore legale con rigorosi strumenti di certificazione e accreditamento affidati ad agenzie indipendenti, che assicurino la verifica del “valore reale” dei corsi di studio universitari.
Al riguardo il dottor Gentili ha citato l’esperienza molto positiva dell’agenzia indipendente QAA (Quality Assurance Agency), creata nel 1997 nel Regno Unito, finanziata dalle università inglesi e dagli organi centrali. Ha anche espresso un vivo apprezzamento per il Processo di Bologna, che prevede uno Spazio europeo dell’educazione superiore in cui le università siano soggette a forme rigorose di accreditamento, che rendano pubbliche qualità, riconoscibilità e spendibilità dei titoli di studio. Ha anche menzionato positivamente a livello europeo la ENQA (European Association for Quality Assurance in Higher Education). Come esempio di organismi di accreditamento, ha citato l’Agenzia per l’accreditamento dei corsi di laurea in ingegneria, istituita quest’anno dalla CRUI (in collaborazione con Confindustria) sul modello di certificazione EUR ACE, che rilascerà un “bollino di qualità” agli atenei che ne faranno richiesta e che siano in possesso dei requisiti previsti dal regolamento internazionale.
In attesa dell’entrata in funzione di questi auspicati sistemi di certificazione e accreditamento Confindustria vede molto positivamente l’introduzione (recentemente operata dalla legge n. 240 del 2010) delle sistematiche valutazioni dell’ANVUR, unitamente alla rigorosa verifica del rispetto da parte delle università dei “requisiti minimi” definiti dal MIUR: un passo importante nella giusta direzione. Tuttavia, per poter svolgere appieno tale delicata funzione, l’ANVUR andrebbe adeguatamente potenziata.
In conclusione il dottor Gentili ha tenuto a sottolineare che l’istituto del valore legale del titolo di studio, mentre non interferisce affatto sulle imprese, che sono libere di scegliere i collaboratori ritenuti più idonei, influisce purtroppo ancora, in termini importanti, nell’ambito della pubblica amministrazione, dove continua a prevalere la cultura della legittimità della procedura, a scapito di quella dell’efficienza. Quanto alle famiglie e agli studenti, invece, è a suo avviso ormai diffusa la consapevolezza che quello che conta non è il valore legale del titolo di studio, ma il valore sostanziale. Contano cioè le conoscenze, le competenze, le abilità effettivamente acquisite nel corso di studi.
3.5 Audizione dei Rappresentanti delle sigle sindacali
L’audizione dei sindacati dei lavoratori operanti nelle università si è tenuta in due giorni distinti, il 7 e l’8 giugno 2011.
Il 7 giugno sono stati auditi in seduta comune i rappresentanti dei seguenti sindacati: FLC CGIL, CISL Università, UIL P.A.-UR, CISAL Università, SNALS CONFSAL, UGL, ANDU, CNU, ADU, APU, CNRU, ADI, RDB-CUB, SUN, Rete29aprile e CONPASS.
L’8 giugno sono stati auditi in seduta comune i rappresentanti dei sindacati CIPUR, SAUR e USPUR.
Gli interventi fatti nel corso dell’audizione del 7 giugno possono essere così riassunti.
All’inizio dell’audizione il professor Nunzio Miraglia, coordinatore nazionale dell’ANDU, ha letto un documento sottoscritto da gran parte dei sindacati presenti e anche da alcuni non presenti (vedi il resoconto stenografico), le cui considerazioni principali sono le seguenti:
– il valore legale della laurea rappresenta “un elemento di certezza indispensabile nel nostro Paese e una funzione di garanzia dello Stato” sui contenuti formativi forniti dalle università;
– l’abolizione del valore legale della laurea non risulterebbe coerente con le linee di riforma dell’università adottate nella recente legge 240/2010 (che affida all’ANVUR la verifica della qualità dei corsi di studio) e determinerebbe con tutta probabilità un incremento delle “diseguaglianze economiche e sociali”;
– l’abolizione del valore legale della laurea non rispetterebbe la raccomandazione del Consiglio Europeo del 16 maggio 2007, che sottolinea “la responsabilità pubblica nell’istruzione superiore” e che tassativamente esclude l’affidamento ai privati delle funzioni essenziali di tale istruzione, quali in particolare le attività di valutazione.
Sono poi seguiti gli interventi dei vari rappresentanti sindacali presenti, la maggior parte dei quali ha anche consegnato agli Uffici della Commissione documenti illustranti le proprie posizioni (vedi le Appendici da n. 4.5 a 4.15).
Il dottor Claudio Franchi, responsabile delle politiche per l’università della FLC CGIL, ha espresso seria preoccupazione per l’iniziativa dell’indagine conoscitiva, perché esamina un’ipotesi (l’abolizione del valore legale della laurea) assolutamente non praticabile nell’attuale contesto, caratterizzato dalla “difficilissima fase di attuazione” della riforma universitaria introdotta dalla legge 240 del 2010. Il dottor Franchi ha escluso inoltre nel modo più fermo che i sindacati possano avere un ruolo nell’ambito della struttura di accreditamento dei corsi di studio che dovrebbe intervenire nel caso di abolizione del valore legale della laurea.
Il professor Gaetano Dammacco, coordinatore nazionale docenti della CISL – Federazione università, ha innanzitutto tenuto a confermare la “forte contrarietà” nei confronti dell’ipotesi dell’abolizione del valore legale del diploma di laurea espressa nel documento comune sopra citato. “La nostra società, se vuole essere moderna, non può fare a meno del riconoscimento del valore legale del titolo di studio”, che certifica un “livello minimo di competenze, di professionalità, di capacità di acquisire e di impartire”. L’abolizione del valore legale della laurea non favorirebbe la competizione tra università, non renderebbe il mercato più agile; al contrario, produrrebbe anarchia, poiché verrebbero eliminati punti fermi essenziali per far funzionare il mercato. L’abolizione del valore legale si porrebbe anche in contrasto con il Processo di Bologna, in cui l’Italia ha assunto l’impegno formale di far circolare i titoli di studio riconosciuti come validi da tutti i Paesi europei. Il professor Dammacco ha poi osservato che l’accreditamento non si contrappone al valore legale della laurea, ma, al contrario, la rafforza, perché certifica l’effettiva capacità formativa dei corsi di studi.
Per la UIL Pubblica amministrazione – Università e Ricerca, è intervenuto il dottor Enrico Sestili, membro della segreteria nazionale. Il dottor Sestili ha prima di tutto ribadito la contrarietà della sua organizzazione nei riguardi dell’ipotesi di abolizione del valore legale della laurea. La tesi che a tale abolizione consegua un incremento della qualità degli studi a suo avviso non appare fondata. Occorrerebbe invece inquadrare in modo nuovo il rapporto tra valore legale del titolo di studio e qualità. Il valore legale dovrebbe garantire il possesso dei requisiti minimi di conoscenza e competenza, necessari per ricoprire una serie di ruoli professionali. Tali requisiti minimi andrebbero ben individuati e definiti, onde tutelare gli interessi generali della collettività in particolare per l’accesso alle professioni regolamentate e per il reclutamento del personale nella P.A.. Il mercato del lavoro, ha sottolineato il dottor Sestili, per funzionare bene ha bisogno di controlli, di verifiche e di informazioni. L’abolizione sic et simpliciter del valore legale della laurea sarebbe un intervento avventato, che rischierebbe di creare problemi, non di risolverli. Quanto agli organismi di accreditamento, il dottor Sestili ha tenuto a sottolineare l’esigenza che siano pubblici e effettivamente dotati di indipendenza e terzietà. L’esperienza di agenzie private di accreditamento, sviluppata in altri Paesi (ad esempio nei Paesi anglosassoni), non è replicabile in Italia in cui il contesto è completamente differente. Nell’attività di accreditamento i sindacati non devono ricoprire alcun ruolo, in quanto la loro funzione di tutela degli interessi dei lavoratori e dei cittadini è incompatibile con impegni gestionali. Il dottor Sestili ha concluso il suo intervento auspicando una regolamentazione più severa e orientata alla qualità in sede di prima autorizzazione delle istituzioni formative, un maggior investimento nella ricerca e un deciso contrasto al fenomeno della precarizzazione nelle università.
Per la CISAL Università è intervenuto il dottor Massimo Blasi, segretario confederale per il pubblico impiego. In premessa il dottor Blasi ha dichiarato di aderire pienamente al documento letto dal professor Miraglia all’inizio dell’audizione. Ha poi osservato che la visione dello Stato propria della sua organizzazione prevede che l’offerta dei servizi in settori strategici per la società (come appunto l’alta formazione) deve rimanere in mano pubblica, per garantire sia la parità di accesso, sia i livelli minimi della qualità. Non è con l’abolizione del valore legale della laurea che si combatte il peggioramento della qualità media del sistema universitario, ma con altri interventi, quali la limitazione di un’eccessiva proliferazione degli atenei e dei corsi di laurea, un ripensamento del cosiddetto sistema “3 + 2”, che non sta dando i risultati sperati, un deciso freno ai “diplomifici” (tutti privati) sempre più presenti nella scuola media superiore. Servono anche esami di Stato più rigidi, più seri e più selettivi per l’abilitazione all’esercizio delle professioni regolamentate, criteri più severi per l’iscrizione agli ordini professionali e concorsi più meritocratici per l’accesso alla Pubblica Amministrazione. Questi concorsi andrebbero reintrodotti anche per le società a partecipazione pubblica. Ai nostri giovani va dato un messaggio meritocratico: chi sceglie il percorso universitario deve studiare ed impegnarsi per avere un futuro davanti a sé.
Per lo SNALS CONFSAL è intervenuto il dottor Santo Crisafi, coordinatore nazionale del settore universitario. Il dottor Crisafi ha tenuto subito a precisare che la posizione comune del Coordinamento organizzazioni e sindacati autonomi dell’università (COSAU, a cui appartiene lo SNALS CONFSAL) verrà poi riferita dal professor Indiveri, presidente del Comitato nazionale universitario (CNU). Comunque l‘opinione del COSAU è che l’abolizione del valore legale della laurea non sia di facile attuazione e non abbia alcuna urgenza. Ciò che risulta urgentemente necessario è invece migliorare la qualità degli studi; occorre per questo una procedura che consenta l’accreditamento del singolo corso di laurea (non l’accreditamento dell’università). Più in dettaglio, tale accreditamento dovrebbe comprendere una valutazione della proposta didattica (per fare in modo che la laurea abbia un contenuto davvero all’altezza di quello che richiedono i tempi) e una valutazione delle risorse disponibili, valutazioni da effettuarsi da parte dell’ANVUR.
Occorre, inoltre, che le soluzioni adottate per il miglioramento del sistema formativo non entrino in contrasto con i processi di reciproco riconoscimento dei titoli a livello europeo.
Per l’UGL è intervenuta la dottoressa Ivette Cagliari, segretario confederale. Dopo aver apprezzato l’opportunità offerta ai sindacati di esprimere al Parlamento i propri punti di vista, la dottoressa Cagliari ha osservato che i tempi attuali non sono maturi per accogliere tout court l’ipotesi di abolizione del valore legale del titolo di studio universitario. Tale riforma, in particolare, aggraverebbe lo squilibrio Nord – Sud, mentre, al contrario c’è bisogno di una maggiore uniformità territoriale nell’alta formazione del nostro Paese. A suo avviso un modo utile per pervenire ad un miglioramento del sistema universitario sarebbe quello dell’introduzione sperimentale di buone prassi, da effettuarsi con modalità partecipative, coinvolgendo il sindacato e tutte le parti sociali, comprese le forze studentesche, muovendosi con una prudente azione di cambiamento verso il sistema anglosassone, la cui eventuale adozione oggi tuttavia determinerebbe un danno enorme al sistema scolastico.
Per l’USB pubblico impiego – scuola è intervenuta la .professoressa Barbara Battista, membro dell’esecutivo nazionale. Anch’essa si è dichiarata contraria all’ipotesi di abolizione del valore legale della laurea. Oltre alle considerazioni svolte dai colleghi che l’hanno preceduta, la professorssa Battista è preoccupata per la possibile estensione che l’abolizione in questione potrebbe avere nei confronti del valore legale dell’esame di terza media e dell’esame di maturità. Al riguardo ha segnalato che nelle scuole secondarie private paritarie (in notevole sviluppo in Italia a partire dal 2000), scuole secondarie responsabili secondo l’OCSE di una formazione di mediocre livello, è proprio il vincolo del riconoscimento legale del titolo di studio, attuato tramite esami sostenuti di fronte a docenti della scuola pubblica, che ha esercitato (finché ha potuto) una funzione di argine nei confronti della tendenza ad una formazione scadente. Un’altra osservazione della professoressa Battista ha riguardato la formazione professionale, che rientra, come sappiamo, nelle competenze delle Regioni e che lascia piuttosto a desiderare quanto a qualità formativa. Qui i sindacati, che giustamente, secondo la professoressa Battista, non intendono inserirsi nelle eventuali strutture di accreditamento delle università, sono invece presenti in modo diretto. La professoressa Battista ha concluso il suo intervento esprimendo la più viva preoccupazione per le modalità di reclutamento del personale docente nella scuola, che presenta a suo avviso deleterie caratteristiche di regionalizzazione, precarizzazione ed eccessiva privatizzazione, a grave danno della qualità dell’azione formativa e contro lo spirito e la lettera della Costituzione secondo cui la formazione e l’istruzione sono un diritto e una funzione dello Stato.
Per l’Associazione docenti universitari (ADU) è intervenuto il professor Leo Peppe, segretario nazionale. Il professor Peppe si è per prima cosa dichiarato sorpreso di essere stato convocato al Senato in audizione sul tema dell’abolizione del valore legale della laurea, che considera irrilevante. A suo avviso, infatti, il valore legale della laurea è un istituto consolidato e non messo in discussione in tutti gli altri Paesi Europei (ad eccezione del Regno Unito). In aggiunta a quanto hanno già rilevato i colleghi che l’hanno preceduto, ha osservato che, come i documenti europei ribadiscono, l’alta formazione non deve guardare solo al mercato, ma anche “in modo altrettanto rilevante, alla formazione democratica e personale del cittadino”. Il professor Peppe ha inoltre tenuto a sottolineare l’altissimo valore non solo simbolico della laurea nel nostro Paese, dove i laureandi sono ancora prevalentemente di prima generazione e dove il valore legale della laurea continua a svolgere le funzioni sociali di conferimento di pari opportunità e di mobilità sociale.
Per l’Associazione nazionale docenti universitari (ANDU) è intervenuto il professor Nunzio Miraglia, coordinatore nazionale. Al contrario del professor Peppe, il professor Miraglia non si è detto sorpreso dal tema dell’audizione: l’abolizione del valore legale della laurea è infatti a suo avviso un’azione in linea con la legge di riforma dell’università (la 240 del 2010), come evidenzia il fatto che sia vista con favore da Confindustria, partiti politici e professori economisti, cioè dagli stessi soggetti che hanno voluto la suddetta legge. Invece di pensare ad abolire il valore legale della laurea sarebbe stato più opportuno a suo avviso occuparsi di “come difendere e valorizzare il valore del titolo di studio”. Ci si sarebbe cioè dovuti occupare del sistema 3+2, della didattica, della ricerca, dell’autonomia universitaria, dello smantellamento del potere baronale, delle tasse universitarie (che purtroppo vengono aumentate, con pregiudizio del diritto allo studio). Il professor Miraglia ha concluso il suo intervento rammaricandosi che il Ministro dell’Istruzione abbia finora dato ai sindacati pochissime opportunità di confronto.
Per il Coordinamento nazionale ricercatori universitari (CNRU) è intervenuto il professor Marco Merafina, coordinatore nazionale. Anche per il professor Merafina sembra inopportuno parlare dell’eventuale abolizione del valore legale della laurea oggi, quando l’università è nel pieno delle difficoltà connesse all’applicazione della legge 240/2010, permangono gravi i problemi del precariato e dell’inserimento dei giovani ed è in atto un pesante definanziamento del settore. Comunque, per il professor Merafina il valore legale della laurea, pur fondamentale, non è da considerare qualcosa di assolutamente inamovibile, a meno che la sua abolizione non significhi una totale “deregulation” (a cui sarebbero inevitabilmente associate conseguenze quali un indiscriminato aumento delle tasse universitarie e una diminuzione dei diritti all’interno dell’università). Il discorso sarebbe diverso se si passasse ad un sistema di accreditamento condotto da un soggetto terzo e pubblico (l’alta formazione deve rimanere prerogativa pubblica). Tale sistema di accreditamento non dovrebbe limitarsi a garantire il possesso dei requisiti minimi di conoscenza del laureato, ma dovrebbe assicurare i requisiti minimi dei corsi di laurea, al contrario di quanto avviene a suo avviso oggi, ad esempio in alcune università telematiche. Vi dovrebbe cioè essere una certificazione di qualità dei corsi di laurea, che tenesse conto dei requisiti quali aule, biblioteche, laboratori, alloggi, mense, livello dei corsi, svolgimento in prima persona delle lezioni da parte dei docenti, valutazione ex post dei laureati. Solo a queste condizioni si potrebbe cominciare a parlare di abolizione del valore legale della laurea. Diversamente, il professor Merafina ribadisce la sua totale contrarietà all’abolizione in questione.
Per il Comitato nazionale universitario (CNU) è intervenuto, anche a nome del Coordinamento organizzazioni e sindacati autonomi dell’università (COSAU), il professor Francesco Indiveri, presidente del CNU. Il professor Indiveri ha espresso subito la propria contrarietà all’ipotesi di abolizione del valore legale della laurea, in particolare perché l’università è attualmente molto impegnata nel difficile transitorio di riordino determinato dalla legge 240 del 2010 (che prevede l’emanazione di ben 47 decreti attuativi, di cui al momento non si ha notizia) e perché non crede affatto che abolendo il valore legale del titolo di studio si possa migliorare l’efficienza dell’università. Il valore legale della laurea andrebbe anzi sostenuto attraverso, ad esempio, l’accreditamento dei corsi di laurea (come ha sostenuto il professor Merafina). Ma non basta: occorrerebbe anche una valutazione ex post. Ad avviso del professor Indiveri, inoltre, è fondamentale che alle università siano forniti i mezzi per effettuare ricerca, senza cui non si può fare una buona didattica universitaria. Purtroppo oggi “la ricerca nelle università statali è praticamente abolita”. A questo proposito, il professor Indiveri ha segnalato di aver espresso due mesi fa, in qualità di referente di progetti di ricerca del bando PRIN 2009, il proprio parere su ricerche proposte quattro o cinque anni fa! Un assurdo. Il professor Indiveri ha osservato inoltre che le università italiane sono a parole autonome, ma molto irregimentate nei fatti, ad esempio, per i piani didattici. Perché quindi abolire il valore legale di titoli di studio conseguiti in corsi di laurea caratterizzati dagli stessi piani didattici?
Per il Coordinamento nazionale dei professori associati (CoNPAss) è intervenuto il professor Calogero Massimo Cammalleri, responsabile del Coordinamento nazionale. Il professor Cammalleri ha iniziato contestando la correttezza delle domande poste nella lettera di invito all’audizione del Presidente della Commissione. E’ improprio, a suo avviso, parlare di confronto della nostra condizione con il mondo anglosassone, perché tale mondo anglosassone (a riguardo del valore del titolo di studio) non esiste; esistono invece, e sono cospicuamente diversi tra loro, i mondi anglosassoni di Regno Unito, di una parte del Canada, degli Stati Uniti e dell’Australia. Inoltre anche nel Regno Unito, nonostante sia un Paese di common law, è riconosciuto un valore legale del titolo di studio. Il confronto con il mondo anglosassone è improprio anche per vari altri aspetti. Da noi, osserva il professor Cammalleri, il titolo di studio universitario da un lato nel mercato del lavoro privato non ha alcun valore legale (a parte rare eccezioni), perché non esistono norme che possano limitare l’autonomia contrattuale dell’imprenditore, dall’altro serve a garantire “l’omogeneità, la libertà e l’equo accesso dei cittadini a tutta la pubblica amministrazione”. Nel mondo anglosassone invece la Pubblica Amministrazione viene interpretata in modo assai differente ed è completamente diverso rispetto all’Italia anche il settore delle professioni. Nei Paesi anglosassoni i soggetti che conferiscono l’abilitazione partecipano all’accreditamento dei corsi di laurea, gestiscono le professioni e si assumono la responsabilità della loro qualità. Invece il nostro “sistema ordinistico” e il nostro sistema di abilitazione, ad esso legato, costituiscono “terribili barriere” “esiziali per la concorrenza e il mercato”. Il valore legale della laurea, conclude il professor Cammalleri, è essenziale al mantenimento di due valori fondamentali presenti nella nostra Costituzione, espressi negli articoli 9 e 33, di cui in particolare rimarca la responsabilità pubblica non abdicabile da parte dello Stato per l’istruzione e la formazione, nonché la funzione inclusiva, non selettiva, né succube alle esigenze del mercato della formazione. Il titolo di studio deve quindi continuare ad avere valore legale e tale valore legale deve anzi divenire maggiormente incisivo attraverso l’introduzione di meccanismi di valutazione e opportuni perfezionamenti della normativa.
Per la Rete 29aprile sono intervenuti i portavoce nazionali professor Giovanni Piazza e professor Massimiliano Tabusi. Anch’essi si sono espressi contro l’abolizione del valore legale della laurea e contro organismi di accreditamento privati, essendo profondamente convinti della difesa del carattere pubblico dell’università. Ritengono che l’abolizione in questione “acuirebbe maggiormente le sperequazioni sociali e territoriali già in atto” nel nostro Paese, “significherebbe dare maggiori opportunità a che le ha già per nascita e per classe sociale di appartenenza”, “acuirebbe le tensioni sociali che già esistono”. Colgono l’occasione per manifestare la loro contrarietà anche alla legge di riordino dell’università recentemente approvata (n. 240 del 2010), di cui sottolineano gli attuali gravi problemi di applicazione. Comunque, sono dell’avviso che, se si volesse davvero abolire il valore legale della laurea, l’indispensabile organismo sostitutivo di accreditamento dei corsi di laurea potrebbe essere costituito dall’ANVUR, un organismo pubblico. Sarebbe impensabile che questa funzione venisse delegata ad un soggetto privato: è lo Stato il tutore e il garante dell’interesse pubblico.
Gli interventi fatti nel corso dell’audizione del 8 giugno possono essere così riassunti.
Per il CIPUR sono intervenuti il professor Vittorio Mangione, presidente nazionale, ed il professor Alberto Incoronato, responsabile dell’ufficio studi. Il Presidente Mangione ha iniziato segnalando che il CIPUR aderisce al COSAU, di cui ieri è stato illustrato da parte del professor Indiveri un documento, che condivide. Ricorda poi che non esiste nel nostro ordinamento giuridico una definizione di valore legale del titolo di studio. Si tratta di un concetto strutturatosi a seguito di una sovrapposizione normativa (di cui cita ad esempio il DM 509 del 1999 e il DM 270 del 2004). L’architettura introdotta da questi interventi normativi è a suo avviso di “una rigidità estrema” e restringe “lo spettro dei titoli riconoscibili in Italia”. Intervenire in tale situazione irrigidita con un provvedimento di piena liberalizzazione (quale sarebbe l’abolizione del valore legale della laurea) potrebbe essere pericoloso nell’ambito del settore pubblico, ad esempio, nell’organizzazione della ricerca scientifica di base (compito primario dell’università). Nel mondo del lavoro privato invece i problemi dovuti alla rigidità del sistema universitario italiano sono stati superati o aggirati. Il professor Mangione ha auspicato poi un intervento ministeriale per l’abolizione dell’obbligo, imposto alle università, dell’istituzione della laurea triennale per tutte le classi, salvo quelle protette in ambito europeo. Considera “nefasta” questa laurea triennale, che peraltro il mercato non apprezza affatto (il mercato, ad esempio, non sa che farsene di matematici o di laureati in scienze politiche triennalisti). Ha segnalato infine che manca nel nostro ordinamento un riconoscimento formale e un obbligo di consultazione dei sindacati che rappresentano il personale docente delle università (mentre questo riconoscimento è pienamente presente per i sindacati che rappresentano il personale contrattualizzato) e ha auspicato che il Ministero e il Parlamento formulino indicazioni per superare tale carenza (particolarmente grave per la medicina universitaria). La presentazione dell’opinione del CIPUR è stata completata dal professor Incoronato, che, in particolare, ha tenuto a sottolineare la necessità di una netta separazione delle due funzioni di accreditamento e di valutazione, per le quali andrebbero previste norme di incompatibilità. Il professor Incoronato ha altresì raccomandato che nell’eventualità dell’introduzione di riforme importanti nel sistema universitario, come quella dell’abolizione del valore legale della laurea, non si perda mai di vista né il contesto europeo, sempre più imprescindibile, né la finalità fondamentale dell’università, quella di formare persone capaci non solo di fare ma anche di pensare (“thinker“) e perciò capaci di adattarsi con successo alle mutevoli esigenze del mercato.
Per il SAUR è intervenuto il professor Dario Sacchi, segretario generale. Il professor Sacchi ha espresso “un giudizio non particolarmente favorevole” sull’ipotesi di abolizione del valore legale della laurea, che considera “una fuga in avanti”, indotta da una serie di errori compiuti nelle scelte di politica universitaria negli ultimi 15 anni. Tra questi errori cita il proliferare di piccole sedi universitarie in tutta Italia e il privilegiare, nei finanziamenti, le università che riescono a laureare il numero più elevato di studenti che si immatricolano (la qual cosa ha determinato una concorrenza al ribasso e la penalizzazione delle sedi più severe e selettive). Si constata ora che l’eguaglianza del valore dei titoli conseguiti nelle varie sedi è soltanto nominale. Ma l’abolizione indiscriminata del valore legale del titolo di studio “sarebbe un salto nel buio”. Occorrerebbero strutture di accreditamento capaci di valutare i laureati. Non vi sono però sul tappeto proposte concrete in tal senso. Il SAUR si vede perciò costretto a non esprimere un giudizio sull’ipotesi in esame dell’abolizione del valore legale della laurea. Il professor Sacchi ha osservato inoltre che, anche se nel mercato del lavoro privato si è già verificata da tempo una sorta di abolizione del valore legale della laurea, tuttavia non si è registrato alcun effetto di una competizione virtuosa tra atenei (uno dei motivi principali per cui si sostiene tale scelta abolizionista) e nemmeno si sono stipulati accordi tra università e rappresentanze del mondo del lavoro (commercio, industria) per realizzare corsi di laurea specifici. In sostanza, non ci sono prove di effetti positivi determinati dall’abolizione del valore legale della laurea. C’è anzi da paventare che tale riforma produrrebbe “una differenziazione netta tra università per ricchi e università per poveri”. Ad avviso del professor Sacchi sarebbero opportuni, se non necessari, per arginare lo scadimento della qualità della formazione universitaria, provvedimenti quali: la rivisitazione del meccanismo del 3+2, una graduale riduzione del numero delle università, l’uso dei conseguenti risparmi per rifinanziare sia le carriere sia i fondi di ricerca, lo sviluppo di forme di integrazione università/mondo del lavoro, lo sviluppo della formazione permanente per l’aggiornamento e la qualificazione dei laureati; la promozione della qualità dei diplomati della scuola media superiore che accedono alle università.
Per l’USPUR è intervenuto il professor Rosario Nicoletti, membro della giunta nazionale. Il professor Nicoletti ha iniziato osservando che nel tempo vi è stata una continua erosione del valore legale del titolo di studio, attualmente richiesto unicamente per l’accesso a buona parte dei concorsi per assunzione nella P.A. e per l’accesso agli esami di abilitazione alle professioni regolamentate. Tra le cause di tale erosione vi è “un continuo slittamento verso una disomogeneità ed una disuniformità” dei corsi di laurea, dovuto sia all’autonomia delle università, sia anche alla proliferazione delle materie e all’aumento del sapere complessivo. Il valore legale permane, ma gli insegnamenti sottostanti si sono diversificati e spesso polverizzati. Per rimediare a questa situazione, tuttavia, l’abolizione del valore legale della laurea senza varare misure di contorno produrrebbe più danni che vantaggi. L’USPUR si dichiara assolutamente favorevole all’accreditamento dei corsi di laurea, ad un accreditamento, però, che riguardi la qualità dell’insegnamento. Al riguardo le associazioni sindacali potrebbero svolgere un ruolo importante, contribuendo all’individuazione delle procedure e degli strumenti più adatti per l’accreditamento. Il professor Nicoletti ha sottolineato inoltre la necessità di rivedere le leggi che determinano i controlli per l’accesso agli esami per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, nonché i criteri di accesso agli ordini professionali (“che si preoccupano molto di prevenire la concorrenza, ma scarsamente del livello di competenza dei propri iscritti”). In conclusione, il professor Nicoletti ha osservato che il nostro sistema universitario, con oltre 90 università operanti nel territorio del Paese, può elevare la qualità solo nella direzione di una rilevante differenziazione relativamente all’offerta formativa proposta. Per pervenire a questo risultato l’abolizione del valore legale della laurea può dare un importante impulso, a condizione tuttavia che sia accompagnata dalla sistematica valutazione delle conoscenze e delle capacità acquisite dai laureati che escono dalle università.
3.6 AUDIZIONE DEL CONSIGLIO UNIVERSITARIO NAZIONALE
Per l’audizione del Consiglio universitario nazionale, svoltasi il 15 giugno 2011, è intervenuto il Presidente, professor Andrea Lenzi, accompagnato dal professor Fabio Naro, segretario generale e consigliere.
In apertura il professor Lenzi ha consegnato agli uffici della Commissione un documento di sintesi del dibattito svoltosi all’interno del CUN in previsione dell’audizione (vedi Appendice n. 4.16)
La comunicazione del professor Lenzi ha riguardato i seguenti punti principali:
– il fondamento giuridico del valore legale della laurea nel nostro ordinamento;
– le conseguenze negative dell’eguaglianza dei titoli di studio, qualsiasi sia la qualità del corso di studi seguito;
– le condizioni per rendere praticabile l’ipotesi di abolizione del valore legale del titolo di studio.
Circa il primo punto, il professor Lenzi ha ricordato le autorevoli considerazioni del professor Sabino Cassese: in Italia non esiste una legge specifica che conferisca direttamente valore legale ai titoli di studio. Tuttavia tale valore legale è stato introdotto nel nostro ordinamento in modo indiretto a favore dei titoli conseguiti negli atenei statali o autorizzati dallo Stato. Ad esempio nel DM n. 270 del 2004 si stabilisce che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno “identico valore legale”. Il valore legale del titolo di studio si esplica nel rendere possibile ai suoi possessori la partecipazione a determinate importanti procedure concorsuali, in particolare a quelle dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni regolamentate e a quelle dei concorsi per assunzione nella Pubblica Amministrazione.
Quanto al secondo punto, ad avviso del CUN nel dibattito sull’argomento dell’abolizione del valore legale della laurea non è chiaro se si vuole passare ad una concezione totalmente privatistica del titolo di studio, oppure all’assegnazione di un ranking al titolo di studio in base alla sua qualità. Comunque sia, le diverse opinioni concordano nel ritenere che il sistema universitario italiano ha bisogno di una maggiore competitività tra gli atenei e che l’attuale attribuzione di valore indifferenziato ai titoli di laurea ottenuti nelle varie università, spesso caratterizzati da percorsi di studio assai diversi, determina seri inconvenienti. Tra questi: una maggiore difficoltà nella selezione dei migliori laureati per la pubblica amministrazione (obbligata a valutare nello stesso modo ogni titolo di studio), la deresponsabilizzazione delle università nella scelta dei docenti e dei ricercatori (dato l’identico valore formale del titolo rilasciato) e le erronee valutazioni degli studenti (e delle loro famiglie), indotti a credere che qualunque sia l’università che rilascia il titolo le possibilità di impiego saranno le medesime, e portati così a scegliere le università più comode o più facili.
Quanto al terzo punto, secondo il CUN oggi non è pensabile un’abolizione tout court del valore legale del titolo di studio, ma è solo possibile l’introduzione di un sistema di accreditamento dei corsi di laurea da parte di un soggetto terzo. In qualche modo la legge 240 del 2010, che affida all’ANVUR compiti di valutazione e accreditamento delle università e dei corsi di laurea, si è avviata su questa strada. Solo dopo che il funzionamento di tale sistema di accreditamento sarà stato messo a punto e ben verificato, il ché richiederà certamente un congruo periodo di tempo, si potrà eventualmente pensare ad abolire il valore legale della laurea. Va comunque evitato che, relativamente alle professioni regolamentate, siano gli ordini professionali ad assumere il ruolo di ente accreditatore. In ogni caso le università, a differenza di quanto comunemente si pensa, non temono una verifica esterna, ma la auspicano, per dimostrare la loro competenza. Il professor Lenzi, anche a seguito dei contatti avuti con colleghi di altri Paesi europei, ha prospettato con favore l’idea di un sistema di accreditamento a livello europeo. Si tratterrebbe di una certificazione riconosciuta e “spendibile” in tutta l’Unione europea, una sorta di patente o di “bollino blu” che, oltre a presentare le massime garanzie di terzietà e modernità nella valutazione, consentirebbe all’occorrenza ai nostri laureati di potersi collocare senza difficoltà sul mercato del lavoro europeo.
Il professor Lenzi ha tenuto infine a sottolineare che l’abolizione del valore legale della laurea comporterebbe necessariamente anche la liberalizzazione delle rette studentesche, perché un’università per competere deve disporre di maggiori fondi onde riuscire a reclutare sul mercato le migliori risorse didattiche e di ricerca. Ma la liberalizzazione della tassazione universitaria sarebbe consentibile solo se esistesse un ottimo sistema di diritto allo studio, che con adeguate borse di studio e simili provvidenze garantisse anche agli studenti meritevoli meno abbienti di poter frequentare i corsi di laurea di più elevata qualità. Accanto all’introduzione di un buon meccanismo di accreditamento (auspicabilmente di natura europea) va quindi previsto anche un efficace sistema di tutela del diritto allo studio.
3.7 AUDIZIONE DELLA FEDERAZIONE NAZIONALE DEGLI ORDINI DEI MEDICI CHIRURGHI E DEGLI ODONTOIATRI
Il giorno 22 giugno 2011 si è svolta l’audizione della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, rappresentata dal dottor Marco Cavallo, direttore generale, dal dottor Ezio Casale, consigliere del comitato centrale e dal dottor Marcello Fontana, funzionario dell’ufficio legislativo.
Dopo una breve introduzione del dottor Cavallo, a presentare l’opinione della Federazione sul tema dell’indagine conoscitiva è stato il dottor Casale, che ha seguito e commentato un documento elaborato per l’occasione dalla Federazione (allegato Appendice n. 4.17). In particolare i punti esaminati nell’audizione sono stati i seguenti:
– parere della Federazione circa l’abolizione del valore legale della laurea;
– fondamento legislativo del valore legale della laurea;
– valutazione dell’attuale formazione universitaria dei medici e degli odontoiatri;
– i problemi dell’accesso alle facoltà di medicina e odontoiatria dovuti alla determinazione del numero programmato di studenti e alle loro modalità di selezione;
– possibili miglioramenti del processo formativo universitario, tra cui in particolare la revisione dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di medico e odontoiatra;
– gli effetti dell’abolizione del valore legale della laurea in medicina e odontoiatria sulla libera circolazione professionale nell’Unione europea dei medici e degli odontoiatri italiani.
L’opinione dei rappresentanti della Federazione su questi punti può essere così riassunta.
La Federazione ha manifestato forti dubbi circa l’opportunità dell’abolizione del valore legale della laurea e dell’adozione nel nostro Paese del modello “abolizionista” vigente nel mondo anglosassone. Si temono le conseguenze del venir meno, dal punto di vista giuridico, della certezza di un titolo che certifica la conclusione di un percorso formativo compiuto secondo la normativa vigente, condizione necessaria per l’accesso all’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione, nonché per la partecipazione a concorsi banditi nella pubblica amministrazione e per l’inquadramento in precisi profili funzionali lavorativi.
La Federazione ha tenuto a sottolineare che nel nostro Paese il valore legale del titolo di studio non è “normato” da una specifica legge o regolamento, ma risulta affermato in alcune disposizioni legislative, tra cui in particolare le seguenti:
– “Le denominazioni di università, ateneo, politecnico, istituto di istruzione universitaria, possono essere usate soltanto dalle università statali e da quelle non statali riconosciute per rilasciare titoli aventi valore legale a norma delle disposizioni di legge” (articolo 10 della legge 30 novembre 1973, n. 766)
– “I titoli di studio universitari conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale ai fini dell’ammissione agli esami di Stato” (articolo 7, comma 1, del DPR 5 giugno 2001, n. 328)
– “I titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale” (articolo 4, comma 3, del DM 22 ottobre 2004, n. 270).
– Infine la Federazione ha menzionato l’obbligo derivante dal diritto comunitario (vedi in particolare la direttiva 7 settembre 2005, n. 2005/36/CE, recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206) del previo conseguimento di un determinato titolo di studio per l’accesso ad alcune professioni, tra cui quelle qui considerate.
Quanto al sistema formativo universitario, la Federazione ha rilevato per prima cosa l’attuale fase di progressiva difficoltà, attribuita ai seguenti principali fattori:
– una significativa riduzione dei docenti universitari del settore (da 13.319 nel 2006-2007 a 12.107 nel 2010-2011);
– la mancata applicazione delle norme di cui al decreto legislativo 517/1999, riguardanti la strutturazione del sistema formativo medico nel tessuto sanitario, e in particolare il lento sviluppo dell’istituzione delle Aziende Ospedaliere – Universitarie (che in numerosi casi non hanno nemmeno redatto l’Atto aziendale esplicitante la loro missione formativa);
– la scarsa applicazione delle reti formative degli Ospedali per l’operatività dei Corsi delle Scuole di Specializzazione (previste dai Protocolli di intesa tra Regioni e Università);
– la mancanza di accordi strutturati per assicurare ai Corsi di laurea e alle Scuole di Specializzazione un collegamento con la Medicina territoriale;
– il troppo modesto investimento pubblico (e privato) italiano in ricerca scientifica nel settore biomedico, essenziale per lo sviluppo di un’alta qualità nelle attività diagnostiche e terapeutiche.
Comunque, a parere della Federazione, la formazione universitaria per le lauree magistrali in medicina e odontoiatria offre ancora sufficienti garanzie di una preparazione professionale conforme agli standard di alta qualità previsti dall’ordinamento didattico nazionale. Attualmente nelle diverse sedi universitarie sono tenuti 46 corsi di laurea in medicina e 35 in odontoiatria. I contenuti del programma di studio attengono a tre grandi aree di conoscenze: le scienze di base, la pratica medica e la metodologia, le scienze umane. Vi è grande attenzione all’integrazione di scienze di base e discipline cliniche, con precoce coinvolgimento clinico degli studenti, subito orientati ad un corretto approccio con il paziente. Particolare importanza viene data alla conoscenza della metodologia medico-scientifica. All’acquisizione di tale conoscenza è affiancata la formazione umanistica indispensabile per l’intero processo formativo scientifico-professionale, onde sviluppare la sensibilità necessaria per interagire con l’uomo malato. Alla luce di tale complessa e ricca realtà, la Federazione non ritiene che l’abolizione del valore legale della laurea in medicina e odontoiatria garantirebbe un miglioramento del percorso formativo. L’assenza di controllo prodotta da tale abolizione rischierebbe, viceversa, di determinare un declino della qualità formativa, fatto grave in una materia tutelata dalla Costituzione relativa al grande valore da salvaguardare della salute dei cittadini.
Un altro punto su cui è intervenuta la Federazione è quello dell’accesso alle facoltà di medicina e odontoiatria. Per tale accesso la legge n. 264 del 1999 prevede un numero di posti programmato, definito ogni anno dal MIUR. La Federazione ritiene che il vigente metodo di selezione degli studenti presenti gravi difetti, quali l’assenza di valutazione delle attitudini e delle motivazioni dei candidati, la mancata valorizzazione del voto del diploma di scuola media superiore (comunque da normalizzare sui valori dell’area di riferimento) e la discutibile scelta delle prove di selezione effettuata dal Ministero, prove consistenti in 80 quiz a risposta multipla, spesso relativi ad ambiti nozionistici e di cultura generale non pertinenti alla specifica selezione. La Federazione ha anche criticato l’attuale modalità di determinazione del numero di medici e odontoiatri annualmente necessari: per l’anno accademico 2011-2012 il numero dei posti richiesti dalle Regioni è di 10.586 posti per la professione medica e di 850 posti per la professione odontoiatrica. Tali numeri non tengono in adeguato conto, secondo la Federazione, né dell’elevato numero di pensionamenti di medici e odontoiatri previsto nei prossimi anni, né delle prevedibili future trasformazioni dei modelli di assistenza sanitaria.
Ad avviso della Federazione esistono comunque ampi spazi di miglioramento del sistema formativo nelle discipline sanitarie di propria competenza. In primo luogo potrebbero essere apportate opportune modifiche ai criteri per la valutazione delle università, onde sviluppare una competizione virtuosa tra atenei e un miglior impiego dei finanziamenti pubblici per l’attività di ricerca. Ma una sostanziale possibilità di miglioramento dell’intero sistema formativo universitario sarebbe rappresentata da una profonda revisione dell’esame di Stato per l’abilitazione professionale. Tale esame è attualmente regolamentato dal DM 19 ottobre 2001, n. 445, e consiste in un tirocinio di tre mesi, avente carattere esclusivamente valutativo e non formativo, nonché in una prova scritta consistente nella risposta a 180 quiz, estratti a sorte da un monte di circa 5.000 quiz incrementati ogni anno di circa 400 quiz. Secondo la Federazione l’esame andrebbe totalmente riformato e configurato in una prova da cui effettivamente emergano le capacità del candidato di diagnosi e terapia in situazioni concrete. Inoltre la valutazione dovrebbe essere affidata a commissioni prive di conflitto di interesse, in cui le professioni, e non l’università, valutino i risultati della formazione universitaria e rilascino l’abilitazione.
Infine, l’abolizione del valore legale della laurea in riferimento alla libera circolazione dei professionisti medici all’interno dell’Unione europea, (regolata dal decreto legislativo n. 368 del 1999, che recepisce le direttive 93/16/CEE, 97/50/CE, 98/63/CE e 99/46/CE, nonché dal decreto legislativo n. 206 del 2007, che recepisce la direttiva 2005/36/CE e la direttiva 2006/100/CE), secondo la Federazione, andrebbe a stravolgere lo stato attuale del riconoscimento dei titoli italiani a livello europeo nel settore, nonché andrebbe a scontrasi con le norme (sempre riconosciute a livello europeo) in tema di organizzazione, deontologia, controllo e responsabilità in ordine ad un bene tutelato dalla Costituzione quale è quello della salute della collettività.
3.8 AUDIZIONE DEL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA
L’audizione del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca pro tempore, onorevole avvocato Mariastella Gelmini, si è tenuta il 5 luglio 2011. Si è ritenuto di riportare integralmente, qui di seguito, il contenuto del resoconto stenografico della seduta per la parte relativa alle dichiarazioni del Ministro sul tema.
“Signor Presidente, onorevoli senatori, per quanto riguarda l’abolizione del valore legale del titolo di studio vorrei precisare che stiamo lavorando a uno dei provvedimenti di attuazione della legge di riforma dell’università più importanti, quello che riguarda l’accreditamento. Pur essendo personalmente favorevole all’abolizione del valore legale del titolo di studio, credo che questo sia un punto di arrivo e non di partenza cui si giunge attraverso l’accreditamento, cioè spostando il concetto di laurea dal cosiddetto «pezzo di carta», ovvero dal provvedimento meramente amministrativo, alla verifica della qualità e dell’omogeneità della qualità dei corsi delle diverse università. Su questo il professor Schiesaro, unitamente al dottor Livon, il nuovo direttore generale per l’università, lo studente e il diritto allo studio universitario, sta lavorando in accordo con la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), i cui rappresentanti incontrerò domani nell’ambito del tavolo che sta conducendo una riflessione sulle modalità dell’accreditamento. La scelta che è stata compiuta per mettere mano a questo problema prevede quindi di istituire un sistema di accreditamento delle università e dei corsi. Conto di poter portare all’attenzione del Consiglio dei Ministri il relativo schema di decreto legislativo alla fine di luglio o al massimo all’inizio di settembre.
Nell’ambito di tale provvedimento vengono istituite rigorose modalità di valutazione e accreditamento periodico dei corsi e delle sedi, nonché un sistema che dovrebbe partire da subito per i nuovi corsi e le nuove sedi ed entrare a regime, una volta completata la valutazione di tutte le sedi e di tutti i corsi già esistenti, nell’arco di cinque anni.
Ritengo che anche il nostro Paese potrà pervenire all’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma allo stato non è questo il principale obiettivo che ci prefiggiamo. Oggi cerchiamo di innalzare la qualità della ricerca e della didattica all’interno delle nostre università, al Nord come al Sud, attraverso criteri di valutazione omogenei che capitalizzano il lavoro svolto precedentemente dal Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR) e dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (CNVSU), ma che devono diventare sistematici e stabili nel tempo; è proprio questo il processo che il Presidente dell’ANVUR, il professor Fantoni, e tutti i componenti dell’ANVUR stanno portando avanti”.
3.9 AUDIZIONE DEL MINISTRO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E L’INNOVAZIONE
L’audizione del Ministro pro tempore per la pubblica amministrazione e l’innovazione, professor Renato Brunetta, si è tenuta il 20 luglio 2011.
Il Ministro ha esordito osservando che le profonde trasformazioni della società italiana intervenute negli ultimi decenni (in particolare l’università non più di élite ma di massa, i cambiamenti del mercato del lavoro e delle modalità del suo accesso, la progressiva internazionalizzazione competitiva delle economie) hanno reso sempre meno valido ed utile il principio del valore legale del titolo di studio, principio basato su una copiosa normativa stratificatasi negli ultimi 80 anni e affermatosi in un contesto molto diverso da quello attuale. Le norme sono rimaste le stesse, mentre sono cambiate la società, la scuola, l’università e il mercato del lavoro. Tale disallineamento di regole e società va evidentemente superato. Ma si tratta di un cambiamento non da poco, ha sottolineato il Ministro. La modifica del principio del valore legale del titolo di studio infatti determinerà profonde conseguenze in ambiti di grande rilevanza, quali il sistema universitario, il mercato del lavoro e l’accesso per concorso ai pubblici uffici.
A questo riguardo, ha continuato il ministro Brunetta, la riforma universitaria introdotta dal ministro Gelmini con la legge 240/2010 definisce linee di intervento molto apprezzabili. L’obiettivo è di passare dal concetto di valore legale a quello di valore sostanziale del titolo di studio. Si tratta cioè di fare in modo che la laurea garantisca davvero il conseguimento di un certo livello di formazione culturale, certifichi cioè correttamente l’investimento in capitale umano che il titolo di studio fa credere. Per questo occorre che il titolo venga rilasciato da una istituzione riconosciuta, accreditata da organismi pubblici coordinati e vigilati da un soggetto terzo (in Italia il MIUR). La riforma dell’università realizzata mediante la legge Gelmini opera su queste linee. Il sistema di accreditamento delle università da essa introdotto qualifica i centri di insegnamento, tende a strutturare di fatto un ranking tra le università e afferma i principi di trasparenza e meritocrazia nell’accesso al finanziamento pubblico.
Per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione, per la partecipazione ai concorsi di assunzione la normativa vigente richiede che il candidato sia in possesso di determinati titoli accademici o di istruzione superiore, aventi valore legale. Abrogare tout court tale valore legale significherebbe consentire l’accesso ai concorsi pubblici a chiunque, indipendentemente dal curriculum formativo, cosa evidentemente priva di senso. Un accesso selettivo ai concorsi è indispensabile. Se si vuole abrogare il valore legale del titolo di studio, occorre quindi prevedere meccanismi sostitutivi che siano in grado di assicurare alla selezione preconcorsuale livelli qualitativi adeguati.
Il ministro Brunetta ha tenuto inoltre a sottolineare che il valore legale della laurea mostra i suoi limiti anche con riferimento alla sempre più importante dimensione globale internazionale del mercato del lavoro. In un numero crescente di casi i bandi di concorso per assunzioni nella Pubblica Amministrazione devono essere formulati in modo da consentire l’accesso anche a lavoratori provenienti dall’estero, che in genere sono dotati di titoli di studio non conferiti da università italiane, non aventi quindi valore legale.
Comunque, ha osservato il ministro Brunetta, il percorso delineato con la riforma dell’università promossa dal ministro Gelmini si muove nella direzione giusta: la legge 240/2010, con l’introduzione di un meccanismo di accreditamento delle università e di un sistema coerente di incentivi, appare in grado di predisporre un contesto di qualità e di spingere le università ad una competizione virtuosa. Ciò consentirà l’adozione di passi successivi in grado di affrontare anche il nodo dell’abolizione del valore legale della laurea, un obiettivo da perseguire, ma a lungo termine. Ma, per eliminare gradualmente la concrezione di norme esistente entro cui si colloca il valore legale della laurea (che il ministro Brunetta ha definito “sedimentazione preindustriale”), non basta l’intervento sulla normativa universitaria: occorre anche modificare le leggi che disciplinano l’organizzazione e l’accesso alle pubbliche amministrazioni, nonché le leggi e i regolamenti riguardanti l’accesso agli Ordini professionali.
Il ministro Brunetta ha concluso il suo intervento evidenziando l’esperienza molto positiva verificata nel suo Ministero con l’adozione di moderne tecniche informatiche di selezione del personale in recenti concorsi per assunzione di dipendenti pubblici. Le prove di selezione consistono in insiemi di domande a risposta multipla (tipicamente varie decine di domande) a cui rispondere per iscritto (con una crocetta) in tempi assai limitati (in cui è assai difficile copiare). L’esame delle risposte è effettuato automaticamente mediante computer (rendendo impossibile l’influenza delle raccomandazioni). Con tali tecniche si possono esaminare popolazioni di candidati assai numerose in poco tempo e a costi contenuti. Se le domande sono ben congegnate, le prove individuano molto bene i candidati meglio preparati. La selezione diviene così davvero basata su criteri di valutazione sostanziali, svincolandosi dalle poco meritocratiche logiche formali. In concorsi pubblici che adottino queste modalità di prova, dove non si tiene in alcun conto il voto di laurea, il valore legale della laurea ha unicamente la funzione di limitare il numero delle domande di partecipazione. La laurea svolge quindi solo il compito di individuare i soggetti potenzialmente idonei a ricoprire i profili ricercati.
CAPITOLO 4
L’ESPERIENZA NEGLI STATI UNITI E NEL REGNO UNITO IN CUI LA LAUREA NON HA VALORE LEGALE. I PROCESSI IN CORSO DI ARMONIZZAZIONE DEI SISTEMI DI ALTA FORMAZIONE DEI PAESI EUROPEI
Si è ritenuto opportuno completare l’indagine conoscitiva sull’eventuale abolizione in Italia del valore legale della laurea fornendo sintetiche informazioni:
– sui sistemi universitari di due importanti Paesi in cui il diploma di laurea non ha valore legale, gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito;
– sui processi di armonizzazione dei sistemi di alta formazione in atto nei Paesi europei.
4.1 STATI UNITI D’AMERICA
Il sistema universitario degli Stati Uniti d’America è uno dei meglio sviluppati nel mondo. I dati del suo successo sono incontrovertibili: una elevata quota di laureati nella popolazione, bassi tassi di abbandono dell’università, cospicua tutela del diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi, effettiva collocazione di lavoro ben allineata con gli studi fatti, apprezzamento della formazione universitaria da parte dei datori di lavoro, marcata correlazione positiva tra laurea, reddito di lavoro e prospettive occupazionali.
Il sistema universitario degli Stati Uniti è caratterizzato da un’ampia autonomia normativa, amministrativa e didattica, che consente incessanti adeguamenti e variazioni dell’offerta formativa a seconda della richiesta e dei bisogni delle comunità. Questa libertà in un Paese così vasto e multiculturale è fondamentale per dare pronta e adeguata risposta ai continui cambiamenti sociali ed economici. La libertà di diffusione della cultura (o meglio “delle culture”) è garantita dalla Costituzione, il cui primo emendamento tutela e promuove pienamente la libertà di parola e di opinione. Contrasterebbe a tale fondamentale principio l’imposizione da parte del governo federale di percorsi di studio o materie obbligatorie.
Le regole sono un po’ differenti nel settore dell’educazione scolastica. In questo settore, in base alla Costituzione, al governo federale spetta solo la definizione delle linee programmatiche e delle caratteristiche generali del sistema educativo (relative ad elementi importanti quali i fondi, i contratti degli insegnanti, la loro certificazione, i libri di testo e le biblioteche). Nel quadro di tali direttive generali ciascuno Stato decide poi con ampia autonomia le proprie linee programmatiche operative mediante uno specifico organismo decisionale denominato State Board of Education (comitato scolastico statale). I membri di questo comitato sono eletti dai cittadini e nominano il provveditore agli studi (Superintendent of Schools). Le decisioni prese dallo State Board of Education vengono applicate localmente dai comitati dei distretti scolastici (Local School Board), responsabili in materia di politica scolastica e di programmi di studio. I distretti scolastici sono negli USA 15.500.
Le università sono libere di fondarsi e libere di scegliersi una mission che individui il loro carattere distintivo, la cultura da rappresentare, i bisogni della comunità e degli studenti da servire. In virtù del loro inserimento nel piano generale dell’offerta formativa, esse ricevono in vari modi sovvenzioni da parte degli Stati e sono soggette a forme di controllo pubblico sull’attività esercitata e sulla rispondenza a standard tecnico-qualitativi. La sopravvivenza delle università statunitensi dipende dalla credibilità che esse si guadagnano attraverso il complesso sistema di accreditamento e attraverso il superamento dei controlli di qualità a livello statale necessari per ottenere finanziamenti pubblici.
Il sistema universitario americano, al contrario di quello italiano, è decentrato. In esso non prevale l’università privata (contrariamente a quello che molti ritengono), ma quella pubblica, almeno in termini di numero degli atenei (gli atenei privati sono 2.285 sul totale di 7.000 università e colleges presenti sul territorio statunitense). Le più prestigiose università statunitensi sono tuttavia private (Yale, Harvard, Princeton, MIT, Stanford, eccetera).
Le università, anche per via della rilevanza dei propri patrimoni e degli investimenti che riescono a calamitare, sono gestite in modo simile alle aziende con criteri manageriali e imprenditoriali. La struttura della governance è duale, basata sulla negoziazione tra la faculty (il corpo docente), che propone (con la mediazione del dean, il rettore), e il consiglio di amministrazione, che decide ed ha in generale un gran peso.
Lo stile “aziendale” di gestione delle università americane riguarda senza grandi differenze sia le università private sia le università statali, tutte ormai simili a medie o grandi imprese con un’amministrazione managerialmente competente e un’accurata gestione dei bilanci. Tra le università statali e le università private non vi sono importanti differenze nemmeno sotto altri aspetti, quali il reclutamento del personale docente, le regole burocratiche, le infrastrutture di base (aule e biblioteche), eccetera. Il “mercato” dei professori è unico, con facili transizioni da università statali a università private e viceversa, perché per lunga tradizione accademica la docenza in questi due tipi di università ha sempre presentato le stesse caratteristiche.
La maggiore differenza tra il mondo universitario statunitense e quello europeo è costituita dal fatto che negli USA la formazione superiore non è ritenuta una funzione di diretta responsabilità statale. A tale formazione partecipano in piena concorrenza sia le università statali sia le università private. Il valore dei titoli di studio rilasciati alla fine dei corsi di laurea dipende esclusivamente dalla loro qualità e, precisamente, da come essa viene apprezzata dagli studenti e dai sistemi di accreditamento (in genere operati da Organismi provenienti dal mercato del lavoro). Non vi è alcun riconoscimento di valore legale per i titoli di studio rilasciati al termine dei corsi.
Per comprendere meglio il funzionamento del sistema accademico statunitense (e le ragioni del prestigio mondiale di alcune sue università), è opportuno approfondire l’aspetto del finanziamento.
Il finanziamento delle università statunitensi dipende da diverse fonti, così raggruppabili:
– tasse d’iscrizione degli studenti (tuition e fees, esclusi i pagamenti di servizi tipo vitto e alloggio);
– contributi del governo statale (e degli enti locali nel caso dei community colleges);
– finanziamento di ricerche da parte di agenzie governative federali;
– donazioni e finanziamenti privati alla ricerca;
– rendite del patrimonio (endowment);
– utili da vendite, servizi, attività ausiliarie, ospedali (incluse le tariffe dei servizi di vitto e alloggio per studenti e docenti).
Nell’analisi della diversa importanza di questi finanziamenti nei bilanci delle università, è opportuno distinguere tra università pubbliche e private (la maggior parte delle quali sono formalmente istituzioni non-profit), come mostra il seguente grafico.
Grafico
Come si vede, il finanziamento delle università dovuto alle tasse studentesche raggiunge il 44 per cento nel caso delle università private, contro il 19 per cento nel caso delle università statali. Il finanziamento delle università dovuto ai contributi statali, pari ad appena il 2 per cento nelle università private, sale al 40 per cento per le università statali. Il finanziamento delle università dovuto ai contratti di ricerca non è molto diverso nei due tipi di università (11 per cento nelle università statali contro il 14 per cento nelle università private). Il finanziamento delle università dovuto alle donazioni dei privati e alle rendite del patrimonio è nettamente maggiore nelle università private (14 per cento, contro appena il 5 per cento nelle università statali).
Questi dati si riferiscono all’intero sistema universitario statunitense e sono perciò dati medi; ovviamente vi possono essere notevoli variazioni da una università all’altra. Ad esempio, le migliori research universities (le università USA si dividono in “research universities“, dove oltre all’insegnamento si fa ricerca, e le “teaching universities“, dove si fa soprattutto insegnamento) ottengono in genere rispetto alle teaching universities maggiori contributi per le ricerche e molto superiori flussi di donazioni e rendite da patrimonio (soprattutto nelle università private), il ché permette a questi atenei di ridurre l’incidenza complessiva delle tasse studentesche.
Per quanto riguarda le tasse d’iscrizione, va sottolineato che il 62 per cento circa del loro ammontare complessivo è in realtà a sua volta sostenuto “a monte” dai governi statali tramite borse di studio (per un 11 per cento circa) e prestiti a tassi agevolati a studenti e ai loro genitori (per il restante 51 per cento). Un ulteriore 24 per cento dell’ammontare delle tasse d’iscrizione è poi restituito immediatamente dalle università stesse agli studenti meritevoli e bisognosi in forma di borse di studio.
Le università statali ricevono dallo Stato di appartenenza contributi quasi interamente costituiti dal finanziamento delle spese generali (ovviamente a carico della fiscalità dello Stato). Una modesta frazione del finanziamento di provenienza statale (circa il 2 per cento) è invece diretto a sostenere specifici progetti di ricerca o a compensare attività di servizio svolte dall’università. Questo tipo di contributo è presente anche nel caso delle università private.
La ricerca è anche in parte finanziata da privati, tramite contratti e donazioni. I contratti di ricerca stipulati con le imprese riguardano tipicamente il finanziamento di particolari progetti di ricerca di cui le imprese sono interessate a sfruttare i risultati.
Le donazioni date “in cambio di nulla” sono una pratica molto diffusa negli Stati Uniti, anche perché incentivata fiscalmente. Oltre che alla ricerca, le donazioni possono essere fatte per altri obiettivi, quali il miglioramento delle strutture didattiche, la costruzione di edifici e il finanziamento di borse di studio e di cattedre. I donatori sono, tipicamente, fondazioni benefiche ed ex-studenti (noti come alumni) che hanno fatto fortuna e sono rimasti affezionati al loro college, riconoscendone l’importanza per il loro successo. Le donazioni sono una fonte di finanziamento assai praticata in tutte le università statali e private, grandi e piccole. Tuttavia le università più prestigiose fanno la parte del leone, anche perché i loro ex-studenti sono più frequentemente persone di successo.
Molte università hanno accumulato nel corso del tempo, per merito delle donazioni, un cospicuo patrimonio (detto endowment). Questo patrimonio viene oculatamente investito in modo da conservare (e possibilmente incrementare) il proprio valore e fornire anche rendite annue, che l’università poi utilizza come una forma di auto-finanziamento (tipicamente per borse di studio, fondi di ricerca e stipendi delle cattedre dette endowed).
Le università più prestigiose hanno patrimoni molto elevati. La più ricca è Harvard, dotata di un patrimonio complessivo di quasi 19 miliardi di dollari (senza eguali nel mondo). Seguono, piuttosto distanziate, Yale, con circa 10 miliardi di dollari, e poi Stanford e Princeton, con circa 8 miliardi.
Anche le università statali possono essere dotate di patrimonio (endowment), che però è mediamente più esiguo dei patrimoni delle università private. Ad esempio, l’università del Michigan ha un patrimonio di oltre 3 miliardi di dollari, l’università di Berkeley (California) di poco più di 2 miliardi di dollari.
I meccanismi di finanziamento sopra descritti sono per molti aspetti legati alla qualità della “prestazione” dell’università, determinando così un forte incentivo economico per il suo comportamento “virtuoso”, fatto di ovvia grande importanza per il funzionamento globale del sistema universitario nazionale statunitense.
Particolare nelle università statunitensi è anche il rapporto tra l’università e lo studente. Il fatto che le tasse d’iscrizione rappresentino una quota rilevante del finanziamento complessivo dell’università e siano elevate, comporta che negli USA più che altrove si stabilisca un rapporto università-studente molto simile a quello impresa-cliente. La soddisfazione dei propri studenti e laureati è un elemento considerato molto importante dagli atenei. Gli stessi studenti, dati gli ingenti costi della loro formazione, sono molto esigenti circa il buon funzionamento della didattica.
Un altro incentivo economico al buon funzionamento delle università è relativo alla ricerca e riguarda soprattutto le research universities. Poiché l’acquisizione di finanziamenti per progetti di ricerca costituisce una significativa fonte di finanziamento dell’università, vi è un forte incentivo per gli atenei ad assumere docenti che siano anche bravi ricercatori. Inoltre, una ricerca di alto livello costituisce per gli atenei un ottimo biglietto di presentazione per attrarre donazioni e finanziamenti privati.
Il sistema universitario statunitense è per gli studenti fortemente meritocratico. Rigorosamente meritocratico, specie nelle università prestigiose, è il vaglio all’ammissione. Per accedere all’università lo studente deve allegare alla domanda di ammissione una varietà di documenti, tra cui una lettera di presentazione, il programma di studi e l’indicazione di come il candidato intende finanziare il primo anno di studi, e deve inoltre superare con adeguato punteggio, 12 mesi prima dell’inizio dell’anno accademico, impegnativi test nazionali di valutazione. La lettera di presentazione contiene un giudizio dei professori della scuola secondaria sulle capacità dello studente negli studi prescelti, sulla sua maturità, sull’attitudine allo studio, sulle sue motivazioni. Nel caso in cui lo studente abbia già avuto delle esperienze di lavoro significative, potrà presentare anche una lettera del datore di lavoro. Nel programma di studi deve essere ben evidenziata la spinta motivazionale del candidato al percorso universitario che vuole intraprendere. Il merito viene poi premiato in vari modi in tutto il corso di studio.
Negli Stati Uniti, oltre all’assenza di riconoscimento del valore legale della laurea, non è previsto alcun sistema di controllo diretto sull’educazione universitaria. Conseguentemente, le caratteristiche e la qualità dei corsi offerti dai vari atenei possono essere sensibilmente diversi. Tuttavia, per assicurare all’offerta formativa un minimo livello comune accettabile, è stata introdotta la pratica dell’accreditamento, disciplinata dal Titolo 34, capo VI, paragrafo 602 del Code of federal Regulation (il Codice delle norme emanate dall’Esecutivo e dalle Agenzie federali statunitensi).
In base a tale disposizione il Dipartimento federale dell’educazione, pubblica periodicamente l’elenco delle Agenzie di accreditamento riconosciute. Tali Agenzie sono associazioni private che elaborano criteri di valutazione delle istituzioni educative e verificano che tali criteri siano rispettati. Esse vengono inserite nel suddetto elenco quando il Governo ritiene che esse siano autorità affidabili per valutare la qualità della formazione offerta dalle istituzioni educative che si accreditano. Oltre che al Dipartimento federale dell’educazione, il potere di autorizzare le Agenzie di accreditamento è riconosciuto anche ad un soggetto privato, il Council for Higher Education Accreditation (CHEA) che rappresenta circa 3.000 università degli Stati Uniti. Il sistema dell’accreditamento non consiste in un ranking; si limita ad assicurare che il corso di studi o l’istituzione che si vogliono accreditare rispondano a determinati standard di qualità.
Il sistema di accreditamento è articolato su due livelli: uno, più generico, volto ad una certificazione dell’istituto formativo nel suo complesso, e un secondo, più settoriale, svolto da soggetti professionisti nelle discipline di interesse, mirante ad accreditare singoli corsi di studio. Quest’ultimo ha la funzione di consentire agli studenti possessori di diplomi di laurea in corsi accreditati di essere ammessi (soprattutto dagli Ordini professionali) a concorrere per il rilascio delle abilitazioni all’esercizio delle professioni.
A titolo di esempio degli enti accreditatori di settore negli Stati Uniti, si descrive, qui di seguito, una delle più importanti organizzazioni di accreditamento nelle discipline ingegneristiche/tecnologiche: l’ Accreditation Board for Engineering Tecnology (ABET).
L’ABET, fondata nel 1932, è un’Agenzia privata specializzata nell’accreditamento di programmi relativi a corsi di studio universitari nelle discipline ingegneristiche. La sua “certificazione” riguarda programmi universitari e post-universitari, ma non si estende ai dipartimenti e alle università. Formalmente è una società privata non profit. Conta tra i suoi membri 31 associazioni professionali, specializzate in vari settori dell’ingegneria.
L’ABET svolge la sua mission non solo sul territorio statunitense, ma anche nel mondo. Riceve frequenti richieste di accreditamento anche da parte di università straniere, disposte ad attendere diversi anni pur di ottenere l’esame di questa organizzazione.
La procedura di accreditamento dell’ABET su un determinato corso si articola in due fasi. La prima fase è di indagine e di esame ed è condotta da un team di valutazione. La seconda fase si svolge presso una delle 4 Commissioni operative e si conclude con il giudizio di accreditamento. Le 4 Commissioni, ciascuna competente nel proprio ambito, sono: “Applied Science Accreditation Commission”, “Computering Accreditation Commission”, “Engineering Accreditation Commission” e la “Tecnnology Accreditation Commission”. L’assegnazione del corso di studi a una delle Commissioni è determinata dall’ABET non sul “nome letterale” con cui ciascuna università presenta il proprio corso, ma in base ad una verifica sull’effettivo contenuto dei programmi e sulle competenze che si desiderano trasmettere agli studenti.
La prima valutazione della procedura di accreditamento dell’ABET consiste nella verifica dell’eligibility, ovvero dell’idoneità dell’istituto formativo ad essere oggetto di esame. Negli Stati Uniti l’eligibility è comunemente soddisfatta, se l’università è già stata esaminata dalle Agenzie nazionali o regionali di accreditamento riconosciute dal Dipartimento federale. Invece per gli istituti universitari fuori dal territorio degli USA occorre una apposita verifica di idoneità, che viene compiuta in base al documento “Request for Approval”, compilato dagli istituti.
L’istituto formativo che richiede l’accreditamento di un proprio corso di studio deve preparare un report dettagliato sul programma del corso, rispondendo alle domande del questionario “Self Study Questionnaire” elaborato dall’ABET (e disponibile sul suo sito).
L’ABET provvede poi a designare un team di indagine (a cui viene trasmessa tutta la documentazione di cui sopra), team che l’istituto formativo deve accettare (a meno di conflitti di interesse in uno o più membri). Il team di indagine conduce l’esame recandosi direttamente nella sede dell’istituto alle date concordate, in generale nel periodo da settembre a dicembre, quando i programmi sono “in sessione”. Questa fase del procedimento si conclude con un meeting con il rettore, in cui vengono comunicati i risultati dell’esame effettuato. Da questo momento decorrono 6 giorni in cui l’università può compiere contro-deduzioni sulle valutazioni espresse dal team nel suddetto meeting. Scaduto questo termine, il team riassume la sua valutazione in una bozza di comunicazione detta “Draft Statement“. L’istituto formativo ha a disposizione ulteriori 30 giorni per rispondere criticamente a quanto contenuto nel “Draft Statement”, dopodiché viene redatto il “Final Statement“. Questo documento viene sottoposto, unitamente ad altro materiale sui programmi fornito dal team e dall’università stessa, ad una delle 4 Commissioni di valutazione competente per settore. La Commissione, esaminata tutta la documentazione messa a disposizione, decide sul rilascio dell’accreditamento e comunica il risultato all’istituto.
Può essere infine utile un cenno circa l’articolazione dei titoli di studio universitari negli USA.
Il titolo di studio universitario più diffuso è il cosiddetto “bachelor’s degree“. Richiede 4 anni di studio a tempo pieno (con l’eccezione di architettura che richiede 5 anni) e viene perciò conseguito di norma a 21-22 anni. Il bachelor viene ottenuto nelle università e nei colleges.
In generale, gli insegnamenti da seguire per il bachelor possono essere raggruppati in tre categorie principali: general education (riguardanti cultura generale e abilità di base); field of concentration o major (relativi alla disciplina in cui lo studente ha deciso di specializzarsi o ad essa propedeutici); e electives, ossia insegnamenti a scelta libera.
Il corso di bachelor è diviso in due bienni, detti “lower division” (in cui i due anni sono denominati freshman e sophomore years) e “upper division” (junior e senior years). Durante la lower division, di norma si fanno studi più di base e ad ampio spettro. Durante la upper division, invece, ci si concentra sulla disciplina in cui lo studente vuole specializzarsi.
Alcune specificazioni sul tipo di studi fatti per conseguire il bachelor sono incluse nella denominazione completa del titolo: i bachelor più comuni sono il Bachelor of Arts, indicato con la sigla B.A. (o talvolta A.B.), e il Bachelor of Science, indicato con la sigla B.S. (o S.B.).
I major possibili in un B.A. includono tutte le discipline non professionali, come ad esempio letteratura, storia, economia (nel senso di studio della teoria economica, che non coincide quindi con la disciplina professionale del business administration), fisica, matematica, eccetera, o più raramente anche quelle professionali. Il titolo di B.S. di solito indica invece studi che hanno un maggior grado di specializzazione; è un titolo non comune per le discipline umanistiche, mentre è abbastanza frequente per le discipline scientifiche e per le scienze sociali (che quindi possono essere offerte sia come B.A. che come B.S.), soprattutto per tutte le discipline di tipo tecnico-professionale, come ad esempio l’ingegneria. Alcune università, soprattutto nel caso di studi a maggiore valenza professionale, inseriscono nel nome ulteriori specificazioni, come ad esempio Bachelor of Science in Engineering (B.S.E.), ma lo specifico major prescelto (per esempio, chemical engineering) solo di rado viene incluso nel nome del titolo.
Per alcune discipline professionali, in luogo di B.A. e B.S., vengono usate denominazioni più specifiche, come ad esempio Bachelor in Architecture (B.Arch., che è anche l’unico che richiede 5 anni) oppure Bachelor in Business Administration (B.B.A.).
Una percentuale minore ma comunque ampia di giovani si orienta per un titolo di studio più breve, noto come “associate degree“, che richiede solo due anni.
I titoli di Associate of Arts, indicato con A.A., e Associate of Science (A.S.) prevedono una quota prevalente (50-70 per cento) di general education, con lo spazio residuo destinato a insegnamenti a scelta e ad un modesto approfondimento di una disciplina. Questo titolo ha una sua validità di mercato autonoma, ma spesso è acquisito solo come passo intermedio per poi proseguire gli studi verso il bachelor presso un altro istituto. Infatti, il titolo di associate si consegue presso colleges “biennali” che di solito sono di facile accesso e a costo relativamente basso. Una volta conseguito il titolo biennale, lo studente potrà cercare di essere ammesso presso un college “quadriennale” e vedersi riconosciuto il primo biennio di studi compiuti. Oltre a questi diplomi a carattere culturale, esistono poi titoli come l’Associate of Applied Science, indicato come A.A.S., o altri titoli di associate denominati direttamente con la disciplina di specializzazione, che hanno per obiettivo una formazione che consenta l’occupazione immediata in un ambito tecnico o semi-professionale. I corsi di questo tipo contengono solo una quota ridotta (tipicamente intorno al 25 per cento) di general education, mentre il resto è focalizzato sulla disciplina prescelta, e quindi sono poco adatti a proseguire gli studi.
Gli studi per il bachelor o per l’associate degree sono detti di livello undergraduate, che vuol dire “prima della laurea”. Esistono poi diverse tipologie di titoli di studio di livello più avanzato del bachelor. La maggior parte di questi è di livello graduate (ossia “per laureati”: per accedervi bisogna aver conseguito prima il bachelor). Un aspetto interessante del passaggio dal livello undergraduate a quello graduate è la facile mobilità disciplinare, cioè l’ampia possibilità per gli studenti di iscriversi a corsi di livello graduate anche in una disciplina del tutto diversa da quella studiata per il bachelor.
Complessivamente, i titoli di livello più avanzato del bachelor possono essere raccolti in tre categorie principali: i master’s degrees, i first-professional advanced degrees e i doctor’s degrees.
Il master’s degree è il titolo di studio di livello graduate più diffuso, essendo conseguito da circa un terzo dei detentori di bachelor. La sua durata è tipicamente compresa tra 1 e 2 anni a tempo pieno dopo il bachelor (per essi è quindi richiesto un totale di 5-6 anni di studi universitari). Contrariamente ai bachelor, i master sono sempre focalizzati su un argomento specifico e spesso anche orientati ad uno sbocco professionale preciso. Nelle discipline scientifiche e umanistiche è spesso offerto il Master of Arts (M.A.) o il Master of Science (M.S.) che corrispondono ad un corso di perfezionamento di tipo accademico,che a volte prevede anche una limitata attività di ricerca.
In ambito professionale i master sono spesso dei titoli dal notevole valore di mercato. Tra questi, uno dei più diffusi, con ben retribuiti sbocchi occupazionali, è il Master in Business Administration (M.B.A.), solitamente biennale, che forma quadri e manager aziendali. Un altro master importante per diffusione è il Master of Education (M.Ed.) relativo all’insegnamento scolastico. Nell’ingegneria, sono diffusi sia il M.S., con un taglio più scientifico, sia il Master of Engineering (M.Eng.), più orientato all’attività professionale. Tra i master “professionali” sono da citare, inoltre, il Master of Architecture (M.Arch.) (che dura fino a 3-4 anni, se si entra con un bachelor completamente scorrelato) e che apre la strada alla professione di architetto (per chi non possiede già il B.Arch.), il Master of Music (M.M.)e in Musical Arts (M.M.A.), che sono titoli professionali in esecuzione o composizione musicale, il Master of Fine Arts (M.F.A.), che è un titolo professionale in una delle “belle arti”, il Master of Journalism (M.J.), che apre alla carriera di giornalista, il Master of Social Work (M.S.W.), relativo all’assistenza sociale, e i Master of Public Administration (M.P.A.)e Public Policy (M.P.P.), relativi alla pubblica amministrazione.
I titoli della categoria first-professional advanced degrees corrispondono al primo livello di studi necessario per accedere ad alcune importanti professioni di alto livello, tra cui quelle mediche e quelle legali, per le quali non esiste un bachelor professionale. Essi sono offerti nelle cosiddette professional schools, che spesso sono delle facoltà all’interno di università, ma che possono anche essere istituti specialistici autonomi. Un corso first-professional, in generale, prevede almeno 2 anni di studi undergraduate prima dell’ammissione e almeno 6 anni di studi universitari complessivi (compresi i 2 anni undergraduate), ma queste specifiche cambiano da un titolo all’altro. L’esame di ammissione è spesso molto selettivo, soprattutto per le professioni mediche e legali.
Dopo il first-professional degree, molte scuole professionali offrono corsi “post-graduate”, spesso detti anch’essi “master“, pur trattandosi in realtà di corsi molto più avanzati dei master già discussi. Questi titoli sono per lo più di natura accademica. Le specializzazioni cliniche professionali caratteristiche delle discipline mediche sono invece dette residencies (che hanno una durata compresa da 3 a 7 anni e portano ad una prima specializzazione) e fellowship (che possono durare altri 1-3 anni e portano ad una specializzazione ancora più spinta). Si tratta in effetti di periodi di tirocinio retribuito, non collegati ad un titolo accademico (ma accreditati formalmente), da svolgersi in ospedali anche non universitari. Anche per le altre libere professioni (avvocato, architetto, ingegnere, farmacista, ecc.), l’abilitazione tipicamente richiede, oltre all’acquisizione di un titolo universitario adeguato, lo svolgimento di un tirocinio professionale e a volte il superamento di un esame di Stato.
Al livello accademico più elevato, infine, si trovano i titoli di dottorato, detti doctor’s degrees oppure doctorates, che prevedono la conduzione di studi avanzati e di ricerca originale nella disciplina di specializzazione dello studente. Nella maggioranza delle discipline, il titolo di dottorato è denominato Doctor of Philosophy, ed è indicato con la sigla Ph.D. In alcune discipline professionali è usata invece una dizione specifica, come ad esempio il titolo di Doctor of Juridical Science (J.S.D.), il titolo di Doctor of Education (Ed.D.), il titolo di Doctor of Musical Arts (D.M.A.), il titolo di Doctor of Business Administration (D.B.A.) e il titolo di Doctor of Engineering (D.Eng. oppure D.E.S.) (ma per indicare studi di tipo scientifico anche in ingegneria è usato il Ph.D.). Ciò nonostante, nella maggioranza dei casi non vi sono differenze sostanziali nelle caratteristiche di questi titoli rispetto al Ph.D. L’accesso ad un corso di Ph.D. prevede il possesso del bachelor e, talvolta, anche di un master o un titolo professionale nella stessa disciplina in cui ci si intende specializzare o in una disciplina affine.
Durante il Ph.D., lo studente segue corsi avanzati, sostiene esami generali e conduce ricerca autonoma con la supervisione di un professore. Al termine del Ph.D., il candidato deve scrivere e discutere una tesi sui risultati della propria ricerca (nota come dissertation). Il Ph.D. ha una durata che varia tipicamente tra i 4 e i 7 anni a seconda dell’università e della disciplina.
4.2 REGNO UNITO
Nel Regno Unito prima del 1988 la competenza in materia di istruzione e anche di alta istruzione era delegata per aspetti importanti alle autorità locali. Ciò ha reso i sistemi universitari presenti nelle varie Regioni (Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord) differenti tra loro in alcune parti. Tuttavia l’Education Act (emanato nel 1988) e alcune leggi successive, trasferendo in materia poteri al governo centrale, hanno prodotto nel Regno Unito una cospicua uniformizzazione sia del sistema scolastico, sia del sistema universitario. Alcuni esempi: si sono resi uniformi gli ordinamenti scolastici; è stato istituito il National Curriculum (che specifica il contenuto e i livelli di competenza richiesti a tutti gli scolari in una serie di materie obbligatorie e prevede la verifica da parte dello Stato dell’effettivo apprendimento mediante test nazionali); la riforma del sistema dei finanziamenti; l’istituzione dei meccanismi di valutazione e controllo delle istituzioni formative.
Gli atenei del Regno Unito (circa 200 strutture tra universities e higher education colleges) si configurano come istituzioni autonome e senza fini di lucro, assimilabili alle fondazioni private, e sono in prevalenza privati. Il loro finanziamento proviene in buona parte da fondi pubblici (dallo Stato). Lo Stato però non possiede gli asset delle università e i dipendenti delle università, siano essi docenti o personale tecnico e amministrativo, non fanno parte del settore pubblico. La qual cosa consente autonomia retributiva alle singole amministrazioni universitarie. Il finanziamento pubblico delle università britanniche avviene in larga parte attraverso gli HEFC (Higher Education Funding Councils). Con la riforma del sistema di finanziamento delle università, sempre più sotto il controllo del governo centrale, a partire dagli anni ’90 sono nati i primi sistemi di valutazione della didattica (qualità e contenuti). La valutazione è riferita a determinati standards. Più ci si avvicina agli standards, più è probabile ottenere maggiori fondi e una apprezzata immagine sociale (le classifiche vengono pubblicate sui principali quotidiani del Paese). Nel 1997 è stata istituita la QAA (Quality Assurance Agency, con un sistema di auditing esterno), che ha portato nel 2001 alla creazione del National Qualifications Framework. Alla base di questi programmi c’è la volontà di orientare l’offerta formativa verso le esigenze economiche della società. Le università, quindi, nonostante la loro autonomia, devono tener conto della corrispondenza dei loro programmi a tali standard: eventuali valutazioni negative (espresse con la formula ‘non confidence’), influirebbero negativamente sull’accesso ai funding councils. Va inoltre segnalato che al finanziamento delle università contribuiscono anche gli studenti, che a partire dal 1998 pagano non irrilevanti tasse universitarie (in proporzione al reddito familiare). Tali tasse, in base ad una decisione del Governo Cameron, subiranno un consistente aumento a partire dall’anno accademico 2012-2013 (a meno di improbabili dietrofront). Non poche università britanniche intendono diminuire la dipendenza dal Governo, diversificando i finanziamenti, in particolare promuovendo l’attività di ricerca per conto terzi. Si distinguono in questo le università più prestigiose (come quelle di Oxford, Cambridge e Warwick).
La condizione di discreta autonomia delle università britanniche è testimoniata da una certa libertà di fondare atenei, consentita grazie alla riforma sull’istruzione superiore del 1992, attuata mediante “The Further and Higher Education Act”. Secondo questa legge tutti gli istituti hanno la facoltà di richiedere l’autorizzazione necessaria a conferire autonomamente i propri “degrees”, cioè diplomi e certificati, e di aggiungere al loro nome la qualifica “university”, purché garantiscano nei loro corsi determinati standard educativi. Gli istituti, infatti, assumono direttamente il proprio personale, programmano i corsi, accettano gli studenti e conferiscono i titoli accademici in maniera autonoma, anche se esistono, come sopra anticipato, dei sistemi di controllo sulla qualità dei corsi e dell’insegnamento, mirati ad assicurare un certo grado di uniformità sul territorio nazionale. Questi controlli sono gestiti dalla Quality Assurance Agency for Higher Education (QAA) ed i risultati possono essere visionati sul sito di questo ente.
Una caratteristica del sistema universitario britannico è di essere improntato ad un modello fortemente meritocratico, soprattutto per quanto concerne l’accesso agli istituti universitari. In tutte le facoltà, infatti, non vi è ammissione automatica. Il numero degli studenti ammessi è limitato (con un sistema di numero chiuso abbastanza articolato) e inferiore al numero delle domande. Per essere ammessi occorre superare una selezione (severa per le università prestigiose), operata dagli “Admission Tutors“, sulla base dei risultati degli esami sostenuti al termine dell’istruzione secondaria superiore, di lettere di presentazione di professori, di colloqui e, in certi casi, di prove scritte. Per i Tutors è molto importante la lettera di motivazione scritta dallo studente, che deve convincere l’università della sua serietà e delle sue intenzioni. Le domande di ammissione ai corsi di laurea non vanno inoltrate alle singole università, ma ad un organismo centralizzato denominato UCAS(Universities and Colleges Admissions Service). L’ufficio UCAS provvede a fare da tramite fra le università scelte ed indicate nell’apposito modulo ed i richiedenti. L’UCAS ha una funzione puramente amministrativa: le decisioni sull’ammissione restano interamente a discrezione delle università. La selezione all’ammissione è piuttosto severa.
Il limitato numero di studenti in ciascuna università, conseguente a questa rigorosa selezione, determina un rapporto numerico docenti-studenti ottimale, consente al tutor di lavorare con profitto con i propri studenti, in sostanza fa ben funzionare le università, permettendo agli studenti di usufruire appieno delle ampie risorse messe a disposizione in ogni ateneo. L’adeguato ambiente di studio delle università e l’elevata motivazione degli studenti a seguire il corso scelto fanno in modo che vi sia un’alta percentuale di studenti che portano a termine con successo il proprio corso di studi (85 per cento).
Nel Regno Unito il diploma di laurea non ha alcun valore legale. Il conseguimento di un titolo di studio universitario non garantisce, di per sé, uno status particolare o l’accesso ad una professione. L’apprendimento formale costituisce soltanto la prima tappa del percorso di formazione professionale, in genere articolato in tre segmenti (“education, training and experience”). L’esperienza pratica ha una rilevanza decisiva; solo il suo completamento consente il riconoscimento dell’abilitazione all’esercizio della professione. Infatti, nonostante siano previsti esami di Stato presso gli Ordini o presso le università, a seconda delle professioni, l’esercizio di esse è soprattutto condizionato allo svolgimento (che deve essere certificato) di tirocini mediante contratti di formazione (vedi ad esempio il percorso formativo della professione legale, che richiede un contratto di formazione presso studi legali, di quella medica, che richiede un contratto di formazione presso aziende ospedaliere, di quella di ingegnere, che richiede un contratto di formazione presso studi o società del settore).
Una caratteristica del sistema inglese dell’alta formazione è la grande frammentazione e varietà dell’offerta formativa. L’istruzione superiore viene impartita non soltanto nelle università, ma anche nelle scuole tecniche post-secondarie (mentre i politecnici sono stati recentemente assimilati alle università). Ciò permette una risposta pronta e flessibile alla varietà della domanda di istruzione superiore proveniente dal mondo delle imprese (al contrario della rigidità dell’offerta formativa dei Paesi caratterizzati da monopolio accademico come l’Italia), ma crea non pochi problemi nel riconoscimento internazionale della grande varietà dei curricula formativi offerti.
La formazione universitaria viene offerta da due tipi di istituti:
– Colleges e Institutes of Higher Education: si tratta di Istituti di Istruzione Superiore (in Scozia chiamati Scottish centrally-funded Institutions) che abbinano una formazione di livello universitario a un’esperienza lavorativa;
– Universities: che, in quanto organismi autonomi, hanno facoltà di istituire e rilasciare titoli accademici.
Gli Institutes of Higher Education offrono un percorso formativo di 2 anni, che si conclude con il rilascio di un Foundation Degree. Al corso si può accedere anche in mancanza dei requisiti d’ammissione necessari per l’iscrizione alle Universities e al termine è possibile frequentare il 3° anno di un Honours Degree presso le università che riconoscono questa tipologia di certificato. Il Foundation Degree nasce dalla collaborazione tra le università, che garantiscono uno standard formativo elevato, e il mondo dell’impresa, che fornisce agli studenti gli strumenti più idonei per affrontare la vita professionale. Per questo motivo, la formazione offerta risulta essere immediatamente spendibile nel mercato del lavoro.
Le Universities offrono percorsi accademici di durata variabile strutturati in tre livelli (First o Undergraduate Degree; Higher Degree o Postgraduate Degree o Master; Doctorate of Philosophy – PhD/Dphil):
1) First o Undergraduate Degree (laurea di primo livello): sono corsi a tempo pieno della durata di 3 o 4 anni, al termine dei quali si ottiene il titolo di Bachelor. Alcune discipline, come architettura, odontoiatria, medicina o veterinaria, prevedono una durata dei corsi da 5 a 7 anni. Ogni percorso di studio si articola secondo diversi piani didattici, consentendo agli studenti di rendere compatibili le proprie esigenze con l’impegno previsto per gli studi. E’ possibile infatti specializzarsi in una o più materie di studio, scegliendo tra le seguenti opzioni:
– Honours Degree, per lo studio approfondito di una sola materia. Il corso dura solitamente 3 anni, a volte 4, soprattutto in Scozia. I corsi in architettura, medicina, odontoiatria e veterinaria durano 5/7 anni;
– Joint Honours Degree, per lo studio di due materie in maniera meno approfondita. La durata del corso è di 3/4 anni (4 in Scozia);
– Combined Honours Degrees, per lo studio di tre o più materie a livello meno avanzato. Il corso dura 3/4 anni (4 in Scozia);
– Ordinary o General Pass Degree, per lo studio non approfondito di una o più materie;
– Sandwich Course, corso accademico di 4/5 anni integrato con almeno un anno di esperienza lavorativa o all’estero.
Alcuni fra i più comuni First Degrees conseguibili sono: BA – Bachelor of Arts; BSc – Bachelor of Science; BEd – Bachelor of Education; BEng – Bachelor of Engineering; LLB – Bachelor of Laws; MB – Bachelor of Medicine.
2) Higher Degree o Postgraduate Degree o Master (laurea magistrale): si consegue, dopo il First Degree, al termine di un periodo di studio da concludersi con una tesi di ricerca. Tra i più comuni Master Degrees che si possono ottenere, segnaliamo: MA – Master of Arts; MSc – Master of Science; MBA – Master of Business Administration; LLM – Master of Laws; Mphil – Master of Philosophy; Mlit – Master of Literature.
3) Doctorate of Philosophy – PhD/Dphil: si può conseguire a completamento di un Higher Degree, dopo un minimo di 3 anni di ricerca e rappresenta il massimo livello di studio raggiungibile in una determinata materia.
Il sistema inglese dell’alta formazione ha per obiettivo una valutazione sostanziale di tale titolo, ottenuta mediante una “verifica della qualità” dell’offerta formativa e un meccanismo di “accreditamento” dei corsi universitari. Queste due funzioni, “verifica della qualità” e “accreditamento”, hanno precisi significati, ben diversi tra loro, radicati da una consolidata tradizione.
La “verifica della qualità” riguarda l’insieme delle procedure e dei provvedimenti atti ad accertare che la qualità dell’offerta formativa di una determinata istituzione è allineata agli standard individuati a livello nazionale ed europeo. Dal risultato di questa verifica dipende il riconoscimento di un corso, ossia la sua legittimazione ad esistere, poiché conforme ai livelli di qualità richiesti. La “verifica della qualità” è dal 1997 prerogativa della Quality Assurance Agency for Higher Education (QAA), un organo indipendente che è anche l’organo nazionale per la verifica della qualità riconosciuto a livello europeo.
L’”accreditamento” consiste nel riconoscimento dei corsi universitari da parte sia dei Professional Bodies edegli Statutory Bodies (associazioni di categoria delle varie professioni), sia da parte di istituzioni autorizzate al riconoscimento di corsi non universitari che rilasciano titoli equiparati a quelli accademici (quali l’Open University).
Il sistema dell’accreditamento offre agli studenti e alle loro famiglie le informazioni necessarie per conoscere esattamente il tipo di preparazione offerta da un dato istituto accademico in un determinato corso di studi e consente quindi di scegliere il corso di studi ritenuto più idoneo per i propri interessi e le proprie aspettative.
L’attività di accreditamento delle Associazioni professionali assume spesso un’importanza determinante per lo stesso accesso ad una data professione, poiché l’ammissione ad un esame di abilitazione può essere condizionata al possesso di un titolo accademico rilasciato da un istituto i cui corsi siano stati “accreditati”.
In questi casi, il titolo di laurea acquista valore solo se conforme agli standard fissati da tali Associazioni di carattere professionale, le quali, è bene sottolinearlo, non vanno ad accreditare l’istituto nel suo complesso o i suoi dipartimenti, ma esclusivamente i corsi relativi alla specifica materia.
Naturalmente tra l’Autorità indipendente QAA e queste Associazioni di carattere professionale (aventi la funzione di “Enti certificatori” di settore) vi sono continue interazioni, al fine di adottare comuni e condivisi parametri di valutazione.
È opportuno approfondire ora la funzione fondamentale di “verifica della qualità” svolta dalla QAA, nonché, a titolo esemplificativo, la funzione fondamentale dell’”accreditamento” svolta dall’ Engineering Council, uno dei più importanti enti di accreditamento di settore.
Quality Assurance Agency for Higher Education (QAA)
Nel Regno Unito solo il Privy Council (mediante un atto denominato Royal Charter) o il Parlamento (mediante apposita legge) possono autorizzare gli atenei a rilasciare titoli accademici comunque riconosciuti (Degree Awarding Power (DAP)). In questa fase di autorizzazione degli istituti di istruzione superiore la Quality Assurance Agency for Higher Education (QAA) ha un ruolo di natura sostanzialmente consultiva (che si esprime nella pronuncia di un parere).
La QAA, fondata nel 1997, ha per fini istituzionali la verifica della qualità e il mantenimento di determinati standard nel campo dell’istruzione superiore nel Regno Unito. L’ente conta 125 dipendenti, si avvale della collaborazione di circa 550 recensori ed è finanziato dalle università, dai colleges universitari e da Funding Bodies governativi.
La forma giuridica della QAA è quella di un’Autorità indipendente, come evidenzia anche la composizione del suo consiglio di amministrazione, formato da 15 membri di cui:
– 4 eletti dagli organismi rappresentativi degli istituti accademici,
– 4 nominati dagli enti pubblici che finanziano l’educazione superiore,
– 6 nominati dallo stesso Consiglio, provenienti dai settori industriale, commerciale, finanziario e dal mondo professionale,
– 1 studente in rappresentanza dei soggetti fruitori del servizio formativo.
La QAA, data la sua natura indipendente, è autonoma nella responsabilità della sua governance, nella strategia messa in atto e nella direzione del suo lavoro. E’ un ente a responsabilità limitata, regolarmente registrato. La sua sede legale è a Gloucester, con una sede operativa a Londra.
Nella sua policy la QAA ritiene importante, per il conseguimento di alti livelli nell’istruzione superiore, riconoscere alle università e ai colleges un certo grado di autonomia e di autodeterminazione. L’attività della QAA si concretizza nel verificare come università e colleges svolgano la loro funzione formativa, identificando best practices e formulando, quando necessario, raccomandazioni e suggerimenti, tesi al miglioramento del servizio. Le valutazioni della QAA sono regolarmente pubblicate sul suo sito, sia per ragioni di trasparenza istituzionale, sia per rispondere alle esigenze informative del mercato del lavoro e degli studenti, che possono perciò avere indicazioni chiare riguardanti gli standard di apprendimento e delle capacità che vengono acquisiti al termine di un dato percorso accademico (standard denominati nel loro complesso Academic Infrastructure), percorso relativamente al quale viene anche espressa una valutazione (una “graduatoria”) dell’eccellenza.
Nel dettaglio, il lavoro della QAA si esplica nelle seguenti attività:
– conduzione di esami o controlli di qualità o check delle università e dei colleges;
– pubblicazione di reports relativi agli esami di cui sopra (utilizzabili dagli istituti come spunti per elevare gli standard formativi);
– consulenza, su richiesta delle università e dei colleges, per il mantenimento o il miglioramento di determinati standard accademici;
– analisi delle “causes of concern“, ovvero delle criticità circa il mantenimento della qualità e di determinati standard accademici;
– supervisione della governance dei Consigli universitari, anche in materia di assegnazione dei diplomi e del titoli universitari;
– collaborazione con le altre Agenzie europee ed organismi internazionali.
Al riguardo di quest’ultima attività segnaliamo che la QAA è pienamente riconosciuta come membro dell’European Association for Quality Assurance in Higher Education (ENQA), istituita in una delle fasi del “Processo di Bologna”, organismo finalizzato ad incoraggiare e promuovere lo scambio di informazioni sul controllo di qualità nel settore in tutta l’Europa.
I controlli di qualità o check – una delle principali prerogative della QAA – sono, assieme alla pubblicazione dei report, lo strumento più immediato e diretto per la verifica dell’offerta formativa degli istituti. Le commissioni di verifica che svolgono materialmente il lavoro di valutazione, sono costituite prevalentemente da esperti provenienti sia dal mondo accademico sia da quello professionale. La scelta di impiegare nelle Commissioni queste due componenti costituisce una particolarità del sistema anglosassone: l’operato degli atenei viene esaminato sia dal punto di vista dell’adeguatezza della didattica, sia dal punto di vista dell’effettivo apprendimento degli studenti.
L’azione di monitoraggio o di “verifica della qualità” della QAA avviene prevalentemente tramite due tipi di revisione, l’Institutional audit el’Integrated Quality and Enhancement Review (IQER).
Il primo tipo di revisione, l’Institutional audit, esamina la qualità dell’offerta formativa e dei titoli di studio rilasciati dagli atenei, prima di tutto sulla base delle valutazioni compiute dagli stessi atenei rispetto alle proprie strutture (nel corso del processo di Internal Audit). L‘Institutional Audit viene effettuato ogni sei anni con una visita intermedia dopo tre anni e può durare un anno o più, secondo le dimensioni dell’istituzione. L’audit team è composto da tre o quattro revisori e da un segretario che ne coordina il lavoro. Una figura molto importante nella fase di preparazione della visita è l’assistente del direttore (assistant of director). L’esame vero e proprio richiede in genere una visita di almeno cinque giorni lavorativi. Durante la visita i membri del team hanno modo di analizzare da vicino le dinamiche individuate nei meeting preliminari, avendo incontri mirati con il personale docente e con gli studenti. Nell’ultimo giorno della visita, il team si riunisce per confrontare i dati raccolti e per raggiungere un accordo sul giudizio finale da pronunciare nei riguardi dell’istituzione. I revisori si esprimono in merito alla solidità della gestione degli standard qualitativi sia per l’offerta formativa sia per il livello dei titoli di studio rilasciati.
L’esame si conclude con la pronuncia o di un giudizio di fiducia, “confidence”, o di fiducia limitata, “limited confidence”, o, infine di un giudizio di sfiducia, “no confidence”. Il “giudizio di fiducia” viene accordato quando l’istituzione ha dimostrato di agire in conformità agli standard di qualità stabiliti a livello nazionale ed europeo e ha saputo convincere il team circa la propria capacità di mantenimento degli standard di qualità fino al successivo ciclo di revisione. I giudizi di “fiducia limitata” o di “sfiducia” vengono invece pronunciati nel caso in cui alcuni aspetti esaminati risultino lacunosi o gravemente tali. Il giudizio finale è accompagnato da una serie di raccomandazioni portate all’attenzione dell’istituzione: raccomandazioni “essenziali” e urgenti (riguardanti aree che si sono dimostrate insufficienti e che potrebbero compromettere gli standard di qualità); raccomandazioni “consigliabili” (riguardanti aree che vanno corrette e migliorate preventivamente, al fine di evitare un peggioramento degli standard di qualità, sia pure meno urgenti delle prime); raccomandazioni “desiderabili” (riguardanti aree che potrebbero essere migliorate per soddisfare in maniera ottimale gli standard di qualità).
Il secondo metodo di revisione, l‘Integrated Quality and Enhancement Review (IQER)è una “verifica della qualità” applicata ai Further Education College (FEC), ossia ai colleges non statali, accreditati da istituzioni superiori o da enti quali Open University per il rilascio di titoli equivalenti a quelli delle istruzioni universitarie. Si tratta di un nuovo modello di revisione che nasce principalmente dall’esigenza di applicare ai Further Education Colleges metodi di valutazione che possano essere abbastanza flessibili da adattarsi alla loro complessità e alle numerose differenze che tra loro esistono. Lo scopo principale dell’IQER è di verificare in che modo i FEC rispettano gli standard generali dell’alta istruzione.
Questo metodo di verifica si basa su due cicli di revisione: il Developmental Engagements e la Summative Review, che avvengono a distanza di un anno l’uno dall’altro. Entrambi hanno lo scopo di esaminare e migliorare, ove necessario, l’offerta formativa di livello superiore dei FEC, promuovendo una stretta collaborazione con gli enti di accreditamento (awarding bodies).
La prima fase è il “Development engagement”, che valuta la propensione del college a migliorare l’istruzione che propone.
La seconda fase è la “Summative review”, che formula un giudizio sull’efficienza delle modalità dei colleges per valorizzare l’esperienza di apprendimento degli studenti.
La procedura di verifica si differenzia poco dalla revisione operata dall’Institutional audit, salvo che per una maggiore flessibilità.
Oltre ad effettuare le visite per la “verifica di affidabilità” di atenei e FEC, la QAA produce quattro fondamentali tipi di documenti: tre trattano soprattutto la determinazione degli standard mentre uno (il Code of practice) è centrato sui principi fondamentali per la “gestione” della qualità. I documenti in questione sono i seguenti:
– “Framework for Higher Education Qualification”.Si tratta di un quadro delle qualifiche di istruzione superiore presentante gli obiettivi d’apprendimento da raggiungere a conclusione dei tre principali cicli formativi (bachelor’s degree, master degree e doctorate of philosophy). Questi schemi: assicurano l’equivalenza dei livelli di istruzione ottenuti con quelli esistenti a livello nazionale ed europeo, in attuazione di quanto previsto nel “Processo di Bologna”, al fine di favorire la mobilità degli studenti e di incentivare la competitività; orientano gli studenti verso possibili percorsi di proseguimento degli studi; forniscono specifici standard di riferimento a cui gli esaminatori coinvolti nella revisione interna ed esterna delle istituzioni devono attenersi.
– “Subject Benchmark Statements”. Questi documenti illustrano la natura e le caratteristiche che i programmi di studio di una disciplina devono possedere, in termini di conoscenze specifiche e capacità del laureato. Riguardano sia il bachelor’s degree sia il master degree. Sono stati elaborati, in primo luogo, per mettere a disposizione delle istituzioni linee guida chiare sugli standard qualitativi attesi a livello nazionale, sia nella fase della creazione di nuovi corsi di studio, sia nel corso della valutazione interna di quelli esistenti. Una delle caratteristiche fondamentali dei Subject Benchmark Statements è quella di non imporre un programma di studi dettagliato, ma di stabilirne i criteri generali che possono essere applicati con flessibilità alle caratteristiche dei diversi corsi di studio. Questi documenti, inoltre, sono stati pensati come uno strumento per orientare la scelta degli studenti e per fornire informazioni al mondo del lavoro sulle competenze tipiche acquisite in un determinato corso di studi.
– “Programme specifications”. Si tratta di descrizioni dei programmi dei corsi di studio, redatte e pubblicate dalle singole istituzioni, che illustrano nel dettaglio le materie incluse nei corsi e l’insieme di conoscenze e competenze conseguite al loro termine. I Programme specifications rappresentano l’attuazione dei Subject Benchmark Statements a livello della didattica: sono documenti redatti dai docenti responsabili di un corso che sono invitati così a riflettere sui metodi d’insegnamento e di verifica più adatti a raggiungere gli obiettivi formativi individuati per quella disciplina. Il pubblico a cui tali documenti sono rivolti è quello degli studenti che devono affrontare la scelta del corso di studi.
– Code of Practice. È il codice di buona pratica per la gestione degli standard e della qualità accademica. E’ articolato in 10 principi generali che intendono rappresentare i punti di riferimento di ogni istituzione negli ambiti individuati. Le istituzioni dovranno dimostrare nella revisione istituzionale di aver tenuto tali principi in debita considerazione.
In aggiunta a questi quattro documenti è opportuno qui menzionare i “Progress Files”, documenti per la registrazione del processo formativo dei singoli studenti, al fine di orientare il loro percorso professionale e di fornire informazioni al mercato del lavoro sugli obiettivi da loro raggiunti in ambito accademico. I Progress files sono composti da una sorta di curriculum accademico redatto dall’istituzione e da un documento compilato dallo studente stesso in cui vengono indicati i propri obiettivi personali in relazione alla carriera desiderata.
L’accreditamento dei corsi universitari
L’accreditamento dei corsi universitari nel Regno Unito, attività assai differente rispetto alla “verifica della qualità” della QAA (come sopra precisato), viene svolto da associazioni corrispondenti agli ordini professionali italiani. Nel Regno Unito (in particolare in Inghilterra) esistono due tipi di associazioni professionali: i Professional Bodies e gli Statutory Bodies, che si distinguono per competenze e funzioni.
I Professional Bodies ricevono la loro autorità direttamente dalla Corona tramite il Privy Council.
Gli Statutory Bodies sono invece fondati dal Governo allo scopo di esercitare un controllo in un dato ambito professionale e non hanno la facoltà di revocare l’accreditamento di un’istituzione, ma possono solo informare il Privy Council del fatto che questa non è più conforme agli standard minimi di qualità.
Questi due tipi di associazioni professionali e di categoria possono accreditare i corsi di studi pertinenti alle professioni che rappresentano, al fine di verificare e garantire che questi trasmettano agli studenti tutte le conoscenze e le abilità necessarie a praticare la professione.
L’accreditamento da parte dei Professional Bodies e degli Statutory Bodies non riguarda, in ogni caso, il diritto di un’istituzione o di un corso di studi ad esistere; il giudizio emesso deve essere considerato semplicemente come il riconoscimento di un’università da parte del mondo del lavoro. Essere accreditati da tali Associazioni è sicuramente un motivo di vanto e costituisce un vero e proprio vantaggio competitivo sul mercato per gli studenti che ottengono un diploma di laurea dalle istituzioni che godono di un tale riconoscimento.
E’ importante sottolineare che nell’ambito delle libere professioni gli Ordini possono subordinare l’ammissione agli esami di Stato o alle procedure sottese al rilascio dell’abilitazione, al possesso di diplomi di laurea “accreditati”. Questo sistema consente di assicurare gli studenti che l’offerta formativa dell’università scelta è adeguata per intraprendere un determinato percorso professionale e che la loro preparazione sarà riconosciuta sul mercato del lavoro. Le università nello stesso tempo, oltre ad acquisire maggior prestigio dall’accreditamento con ovvi effetti sul numero degli iscritti, possono garantire una preparazione accademica aggiornata e all’avanguardia perché valutata da professionisti del settore.
L’accreditamento è, nel concreto, una procedura, attivata su richiesta dell’università presso gli Organismi sopra indicati, che, a seguito di un esame accurato dei programmi, del sistema degli esami e dello stesso rendimento dei studenti, emettono un giudizio di congruità. L’accredito consente all’università ritenuta idonea l’iscrizione negli elenchi degli istituti accademici accreditati, tenuti dagli Ordini e pubblicati sui loro siti.
L’Engineering Council
Un Professional Body molto influente in Inghilterra e attivo nell’ambito dell’accreditamento universitario è l’Engineering Council UK, un ente che riunisce le 38 Professional Institutions (le associazioni professionali nelle diverse specializzazioni ingegneristiche), a cui è demandato in buona sostanza il governo della professione. L‘Engineering Council nel 2004 ha pubblicato un vero e proprio manuale per le istituzioni che desiderano candidarsi per l’accreditamento da parte degli organi professionali riconosciuti. Dalla struttura e dal contenuto del manuale è evidente che anche le associazioni di categoria professionale s’ispirano alle linee guida generali dettate dalla QAA, menzionate esplicitamente nel documento stesso.
La candidatura all’accreditamento è aperta a tutte le facoltà di ingegneria interessate a ricevere questa certificazione, che siano in grado di dimostrare che i loro corsi soddisfano i requisiti individuati dall’Engineering Council.
L’accreditamento ha di norma una validità di cinque anni, a conclusione dei quali l’istituzione deve essere sottoposta a ri-accreditamento.
Nei casi in cui il corso accreditato sia da poco tempo istituito, la durata del riconoscimento può essere inferiore, dato che l’albo ha la necessità di monitorare l’esito della formazione in itinere.
L’elenco dei corsi accreditati viene pubblicato su un registro chiamato Engineering Council Index of Accredited Programmes.
All’interno del manuale viene fatta una distinzione tra i vari tipi di corso che possono essere accreditati e per ognuno vengono elencati specifici obiettivi formativi.
Per il bachelor’s degree in Engineering, BEng (Hons), ad esempio, vengono individuati due gruppi principali di competenze fondamentali e complementari che i futuri ingegneri devono possedere: da un lato, capacità più generiche, applicabili a qualsiasi tipo di programma; dall’altro abilità proprie e essenziali del profilo di un ingegnere.
Tra le prime vengono annoverate:
Conoscenze e competenze:
– capacità di dimostrare la conoscenza di principi matematici e scientifici che sono alla base dell’ingegneria;
– capacità di applicare le suddette conoscenze in contesti multidisciplinari;
Abilità intellettuali:
– capacità di utilizzare i principi generali della scienza e dell’ingegneria per analizzare e risolvere problemi;
– capacità di capire il valore del proprio lavoro in un contesto ampio, ma di svolgerlo comunque in maniera accurata e precisa;
Abilità pratiche:
– applicazione delle esperienze pratiche acquisite in laboratorio, nel corso di stage formativi presso aziende e nel corso di lavori di gruppo;
– capacità di utilizzare i software rilevanti;
Abilità generiche e trasferibili:
– capacità di risolvere problemi complessi;
– capacità di comunicazione;
– capacità di lavorare come parte di un team.
Tra le abilità più specifiche rientrano invece:
Analisi tecnica:
– conoscenza dei principi alla base dell’ingegneria e applicazione pratica degli stessi per la soluzione di problemi o per la realizzazione di processi;
– capacità di classificare e descrivere processi, sistemi e i loro componenti attraverso l’uso di metodi analitici;
– design (abilità complessa che riguarda l’utilizzo di una serie di capacità, al fine di sviluppare prodotti, sistemi e processi);
– comprensione e definizione di un problema, individuando, ad esempio, i limiti ambientali e di sostenibilità di un progetto o possibili problemi derivanti da esigenze di sicurezza sul lavoro;
– identificazione e gestione dei fattori di costo;
– utilizzo del pensiero creativo per trovare soluzioni innovative.
Contesto socio-economico e ambientale:
– conoscenza delle tecniche di gestione e applicazione delle stesse per il raggiungimento di un obiettivo specifico;
– conoscenza del contesto legislativo, ad esempio quello riguardante la sicurezza sul lavoro;
– forte etica professionale.
Esercizio della professione: combinazione di conoscenze teoriche e pratiche:
– conoscenza di materiali, prodotti, attrezzature e processi;
– capacità di gestire situazioni di incertezza tecnica.
Le attività di esame che precedono l’accreditamento, sono programmate in un arco temporale di 6-12 mesi e hanno luogo solitamente in autunno ed in primavera.
L’acquisizione dei dati relativi al rendimento degli studenti, alla modalità degli esami di verifica e ai corsi offerti sono svolti da una Commissione che provvede al termine dell’indagine ad inoltrare il materiale al Council.
La Commissione intraprende un lavoro di indagine molto accurato, sia attraverso colloqui con gli studenti e con il corpo insegnanti relativamente ai contenuti dei programmi per cui è richiesto l’accredito, sia visitando direttamente i laboratori e le attrezzature messe a disposizione dall’università per l’esperienza formativa.
A seguito di tale indagine, la Commissione redige un rapporto che il Segretariato inoltrerà alla stessa università, al fine di mettere quest’ultima nella condizione di compiere una valutazione da cui dipenderà il rilascio dell’accreditamento.
L’università al termine del procedimento riceverà una lettera in cui è formulato il giudizio finale in merito appunto al rilascio dell’accreditamento.
4.3 LO SCENARIO EUROPEO
L’indagine conoscitiva sull’ipotesi dell’abolizione del valore legale della laurea nel nostro Paese non può assolutamente prescindere dall’esame dello scenario europeo nel settore.
Dopo la seconda guerra mondiale si è sviluppata in Europa una profonda spinta unitaria volta a superare la struttura degli Stati nazionali, fino ad allora esclusiva. Questo mega-trend, evidenziatosi in modo esplicito e importante sia a livello politico (con la creazione prima della Comunità Europea (1957) e poi dell’Unione Europea (2007)), sia a livello economico (con la creazione del mercato comune europeo e la liberalizzazione del mercato del lavoro), sia a vari altri livelli, non ha mancato di riguardare i sistemi di formazione universitaria. In questo caso tuttavia il doveroso rispetto dei valori culturali identitari nazionali in qualche modo sottesi ai suddetti sistemi formativi non ha consentito drastiche omogeneizzazioni. Sono stati tuttavia attivati in Europa vari processi miranti ad “armonizzare” i sistemi di formazione universitaria nazionali, processi tra loro formalmente distinti, ma ad elevato grado di sovrapposizione e sinergia, di cui i principali sono i seguenti:
– i processi facenti direttamente capo alla Comunità europea e all’Unione europea (attivi a partire dal Trattato di Roma, istitutivo della Comunità eEuropea, sottoscritto il 25 marzo 1957);
– il processo promosso dall’UNESCO e dal Consiglio d’Europa, culminato nella Convenzione di Lisbona (11 novembre 1997);
– il cosiddetto Processo di Bologna (iniziato il 18 e 19 giugno 1999).
La vicenda dello sviluppo della Comunità europea e poi dell’Unione europea si articola per oltre mezzo secolo in progressivi ampliamenti della competenza unitaria, sanciti da importanti Trattati: il Trattato istitutivo della Comunità Europea (Roma, 25 marzo 1957), il Trattato Unico Europeo (Maastricht, 7 febbraio 1992), il Trattato di Amsterdam (Amsterdam, 2 ottobre 1997), il Trattato di Nizza (Nizza, 26 febbraio 2001), il Trattato di Lisbona (Lisbona, 13 dicembre 2007; in effetti il Trattato di Lisbona è composto da due distinti Trattati: il Trattato di riforma del Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea).
In tale assai complessa dinamica vi sono stati, per quanto qui interessa, due punti fermi: da un lato la volontà dei Paesi membri di riconoscere ai cittadini europei la libertà di lavoro nell’intero territorio della Comunità o dell’Unione (libertà che si estrinseca nell’esercizio del diritto di stabilimento e nel diritto di prestazione di servizi), dall’altro il riconoscimento della competenza degli Stati membri in ordine ai sistemi di istruzione e formazione, in base all’applicazione del principio di sussidiarietà, per cui la Comunità o l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri. Si tratta di due punti fermi ben condivisi, ma in qualche modo confliggenti. L’irrinunciabilità del fondamentale obiettivo della libera circolazione dei lavoratori nei territori della Comunità Europea e dell’Unione ha portato gli organismi direttivi europei ad esercitare una progressiva, crescente pressione per l’armonizzazione dei sistemi di istruzione e formazione nei vari Paesi membri.
Possono essere al riguardo indicativi i seguenti articoli e commi di importanti Trattati:
– Trattato di Roma, articolo 47, comma 1: “Al fine di agevolare l’accesso alle attività non salariate e l’esercizio di queste, il Consiglio, deliberando in conformità della procedura di cui all’articolo 251, stabilisce direttive intese al reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli.”
– Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (secondo Trattato di Lisbona), articolo 39: al comma 1 così si stabilisce: “La libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata.” Inoltre, al comma 3 così si precisa: la libertà di circolazione dei lavoratori comporta “il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro…”
– Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (secondo Trattato di Lisbona), articolo 149, comma 1: “L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra gli Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche.” Nel comma 2 dello stesso articolo 149 si legge: “L’azione dell’Unione è intesa: a sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, segnatamente con l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri, a favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti, promuovendo fra l’altro il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio, a promuovere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento, a favorire lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi di istruzione degli Stati membri…”
Per eliminare gli ostacoli alla libera circolazione di persone e servizi tra gli Stati membri, a partire dagli anni ’70 il diritto comunitario si è occupato a più riprese delle qualifiche professionali . L’esistenza di una pluralità di discipline nazionali diverse in materia di accesso alle professioni rendeva infatti difficile tale libera circolazione.
In assenza di una disciplina europea al professionista già qualificato nel proprio Paese d’origine, per esercitare in un altro Stato membro poteva infatti essere richiesto di affrontare un nuovo percorso di qualificazione professionale.
Il panorama normativo è stato semplificato dalla direttiva 2005/36/CE , relativa appunto al riconoscimento delle qualifiche professionali, che ha consolidato in un unico atto legislativo quindici precedenti direttive di cui ha disposto l’abrogazione.
Tale direttiva fissa le regole in base alle quali uno Stato membro (c.d. Stato membro ospitante), che sul proprio territorio subordina l’esercizio di una professione regolamentata al possesso di determinate qualifiche professionali, riconosce le qualifiche professionali acquisite in altri Stati membri (c.d. Stati membri d’origine), permettendo così al titolare di tali qualifiche di esercitare sul proprio territorio la propria professione.
La direttiva si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro che intendono esercitare una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali, sia come lavoratori autonomi sia come lavoratori dipendenti.
Per quanto riguarda in particolare la libertà di stabilimento (il provvedimento in esame disciplina infatti anche la libera prestazione dei servizi), la direttiva individua alcuni distinti regimi.
Un primo regime si applica alle professioni di medico, infermiere, dentista, veterinario, ostetrica, farmacista e architetto.
In tali professioni, la direttiva prevede l’armonizzazione dei requisiti minimi di formazione e il c.d. “riconoscimento automatico” dei titoli che rispettano i requisiti minimi (questi titoli sono elencati nell’Allegato V della Direttiva). Ogni Stato membro riconosce ai titoli stranieri conformi alle condizioni minime di formazione gli stessi effetti sul suo territorio che hanno i titoli di formazione che esso rilascia (c.d. “sistema a riconoscimento automatico”).
Un esempio tipico degli effetti di questa direttiva è quello relativo alla professione di farmacista . I requisiti minimi per la formazione di un farmacista, prevedono:
a) almeno 4 anni d’insegnamento teorico e pratico a tempo pieno in un’università o in un istituto superiore di livello riconosciuto equivalente o sotto la sorveglianza di un’università,
b) almeno 6 mesi di tirocinio in una farmacia aperta al pubblico o in un ospedale sotto la sorveglianza del servizio farmaceutico dell’ospedale.
Il programma di studi deve comprendere le seguenti discipline: biologia vegetale e animale; fisica; chimica generale e inorganica; chimica organica; chimica analitica; chimica farmaceutica, compresa l’analisi dei medicinali; biochimica generale e applicata (medica); anatomia e fisiologia; terminologia medica; microbiologia; farmacologia e farmacoterapia; tecnologia farmaceutica; tossicologia; farmacognosia; legislazione e, se del caso, deontologia. La ripartizione tra insegnamento teorico e pratico deve lasciare spazio sufficiente alla teoria, per conservare all’insegnamento il suo carattere universitario.
La formazione di farmacista deve garantire l’acquisizione da parte dell’interessato delle seguenti conoscenze e competenze:
a) un’adeguata conoscenza dei medicinali e delle sostanze utilizzate per la loro fabbricazione;
b) un’adeguata conoscenza delle tecnologie farmaceutiche e del controllo fisico, chimico, biologico e microbiologico dei medicinali;
c) un’adeguata conoscenza del metabolismo e degli effetti dei medicinali, nonché dell’azione delle sostanze tossiche e dell’utilizzazione dei medicinali stessi;
d) un’adeguata conoscenza per valutare i dati scientifici concernenti i medicinali in modo da potere su tale base fornire le informazioni appropriate;
e) un’adeguata conoscenza dei requisiti legali e di altro tipo in materia di esercizio delle attività farmaceutiche.
In base alle prescrizioni della direttiva, gli Stati membri autorizzano i possessori di un titolo di formazione universitaria in farmacologia che soddisfi le condizioni sopra elencate ad esercitare almeno le seguenti attività, con l’eventuale riserva di un’esperienza professionale complementare:
a) preparazione della forma farmaceutica dei medicinali;
b) fabbricazione e controllo dei medicinali;
c) controllo dei medicinali in un laboratorio;
d) immagazzinamento, conservazione e distribuzione dei medicinali nella fase di commercio all’ingrosso;
e) preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali nelle farmacie aperte al pubblico;
f) preparazione, controllo, immagazzinamento e distribuzione dei medicinali negli ospedali;
g) diffusione di informazioni e consigli nel settore dei medicinali.
Se in uno Stato membro l’esercizio dell’attività di farmacista è subordinato,
oltre al possesso di un titolo di formazione, anche al requisito di un’esperienza professionale complementare, tale Stato membro riconosce al riguardo come prova sufficiente un attestato rilasciato dalle competenti autorità dello Stato membro d’origine che certifichi l’avvenuta adeguata esperienza professionale dell’interessato nello Stato membro d’origine.
Un analogo regime di riconoscimento automatico delle qualifiche basato sull’esperienza professionale è previsto dalla direttiva per alcune attività dei settori industriale, commerciale e artigianale. Al riguardo in essa sono individuati, professione per professione, requisiti minimi comuni in termini di formazione pregressa e tipo di esperienza professionale nello Stato membro d’origine (come lavoratore autonomo o dipendente). Anche in questo caso, chi dimostra di soddisfare i requisiti minimi di formazione previsti dalla direttiva gode del riconoscimento automatico.
Alle altre professioni, si applica invece un regime generale basato sul principio del mutuo riconoscimento e sulla valutazione caso per caso (per cui lo Stato membro ospitante decide in base all’esame dei titoli di formazione rilasciati dallo Stato membro d’origine e degli attestati di esperienza professionale).
Tali titoli di formazione e attestati devono soddisfare le seguenti condizioni:
a) essere stati rilasciati da un’autorità competente dello Stato membro di origine, designata ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di tale Stato;
b) attestare un livello di qualifica professionale almeno equivalente al livello immediatamente anteriore a quello richiesto nello Stato membro ospitante.
E’ comunque previsto che lo Stato membro ospitante richieda, ove gli attestati e i titoli di formazione non siano sufficienti, misure di compensazione, quali ad esempio, un tirocinio di adattamento o il superamento di una prova attitudinale.
La direttiva 2005/36/CE è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, che disciplina il riconoscimento per l’esercizio delle professioni regolamentate, con esclusione di quelle il cui svolgimento sia riservato dalla legge a professionisti partecipi sia pure occasionalmente dell’esercizio di pubblici poteri (come, ad esempio, i notai).
Un’importante innovazione introdotta dalla Commissione Europea è il sistema ECTS (European Credit Transfer and Accumulation System) . E’ il metodo principale per facilitare il riconoscimento dei titoli e la loro trasparenza e facilità di comprensione. Si basa: sulla valutazione che un impegno di 25 ore di studio o di lavoro in laboratorio da parte di uno studente consenta l’acquisizione di conoscenze e/o competenze pari a 1 credito formativo; sulla stima che in un anno uno studente a pieno tempo possa acquisire conoscenze e/o competenze pari complessivamente a 60 crediti formativi; sulla valutazione del carico di crediti formativi di ciascun insegnamento dei corsi di studi universitari, che in questo modo risultano tra loro quantitativamente paragonabili in termini di impegno di studio. Il metodo ECTS è stato sviluppato nell’ambito del Programma di mobilità europeo ERASMUS a partire dal 1989.
Fra le varie iniziative degli organismi di governance della Comunità europea è opportuno ricordare la raccomandazione del Consiglio dei 15 Primi Ministri dei Paesi membri che all’epoca componevano la Comunità, emanata il 24 settembre 1998 (n. 98/561/CE15). In tale documento si raccomandava agli Stati membri:
– di sostenere e, se del caso, di istituire sistemi trasparenti di valutazione della qualità dell’istruzione superiore;
– di incoraggiare, se necessario, gli istituti d’istruzione superiore, in cooperazione con le strutture competenti degli Stati membri, ad adottare le misure di controllo adeguate;
– di invitare le autorità competenti e gli istituti di istruzione superiore ad annettere particolare importanza allo scambio di esperienze e alla cooperazione in materia di valutazione della qualità con gli altri Stati membri, nonché con le organizzazioni e le associazioni internazionali che operano nel settore dell’istruzione superiore;
– di promuovere una cooperazione tra le autorità responsabili della valutazione o della garanzia della qualità nell’istruzione superiore e di favorire il loro inserimento in rete.
Facendo seguito ai suggerimenti di questa raccomandazione del Consiglio ed ai contenuti della Dichiarazione di Bologna, nel 2000 è stato costituito il Network europeo per la garanzia della qualità nell’educazione superiore, poi ribattezzato European Association for Quality Assurance in Higher Education (ENQA).
La finalità primaria dell’ENQA è di promuovere la cooperazione nel campo della garanzia della qualità delle università tra Agenzie europee, autorità pubbliche nazionali e istituzioni universitarie.
Attualmente, fanno parte dell’ENQA le Agenzie per la qualità dell’istruzione universitaria e l’accreditamento di Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Romania, Russia, Serbia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito.
L’Italia è stata rappresentata nell’ENQA in questi anni dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (CNVSU), ora sostituito dall’ANVUR; CNVSU ed ANVUR tuttavia non hanno figurato né ancora figurano tra i membri di pieno diritto, ma tra le Agenzie candidate.
Un forte impulso al riconoscimento di valore internazionale ai titoli dei sistemi formativi universitari nazionali è stato ottenuto mediante la Convenzione di Lisbona approvata l’11 aprile 1997 (“Convenzione sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella regione Europa”), ratificata dal Parlamento italiano con la legge n. 148 del 2002. La realizzazione di questo importante evento diplomatico è stata curata da due grandi Organizzazioni internazionali con competenze in materia di riconoscimento dei titoli, l’UNESCO e il Consiglio d’Europa.
Tra i principi ispiratori che hanno motivato la firma della Convenzione, ben precisati nel suo preambolo, vi sono in particolare i seguenti:
– la realizzazione del diritto allo studio (“il diritto all’istruzione è un diritto dell’uomo e l’insegnamento superiore, che è fondamentale per perseguire e migliorare il sapere, rappresenta un patrimonio culturale e scientifico eccezionalmente ricco tanto per i singoli che per la società”);
– il diritto allo studio è anche il diritto al riconoscimento dei titoli di studio (“un equo riconoscimento dei titoli di studio è un elemento chiave del diritto all’istruzione ed una responsabilità della società”);
– il riconoscimento dei titoli favorisce la mobilità (“il riconoscimento di studi, certificati, diplomi, lauree rilasciati da un altro Paese della regione europea rappresenta una misura importante per promuovere la mobilità accademica tra le Parti”).
La Convenzione di Lisbona si è proposta di raggiungere numerosi obiettivi. Tra questi:
– consentire ai diplomati della scuola secondaria superiore di un Paese europeo di poter accedere alle università ed agli altri istituti di istruzione superiore di tutti i Paesi;
– facilitare i programmi di scambi accademici studenteschi garantendo il riconoscimento dei periodi e dei cicli di studio effettuati all’estero;
– consentire l’utilizzazione dei titoli accademici nazionali finali per l’accesso in tutti i Paesi al mercato del lavoro, all’esercizio delle professioni regolate o agli studi a livello più avanzato;
– creare un sistema generale di riconoscimento dei titoli a finalità accademiche che si affianchi al parallelo sistema generale di riconoscimento dei titoli professionali in costruzione in Europa grazie alle Direttive in materia di libera circolazione dei professionisti e in prospettiva nel mondo grazie agli accordi WTO sulla liberalizzazione degli scambi dei servizi professionali.
La Convenzione promuove tra i Paesi l’uso del Supplemento del Diploma (“Diploma Supplement“). Tale Diploma, rilasciato dall’università all’atto del conferimento del titolo finale del corso di laurea, è in sostanza un certificato che riporta, secondo modelli uniformi nei vari Paesi europei, le principali indicazioni relative al curriculum seguito dallo studente per ottenere il titolo. Il Diploma Supplement si può dire conferisce valore legale al titolo conseguito dal cittadino europeo, perché certifica le sue conoscenze accademiche evitando alle autorità degli Stati membri di verificarne l’autenticità.
La Convenzione di Lisbona stabilisce il diritto di ciascuno a veder valutato il proprio titolo di studio con procedure e criteri “trasparenti, coerenti ed affidabili”. La decisione di riconoscimento di un titolo estero deve essere adottata entro un lasso di tempo “ragionevole” sulla base di adeguate informazioni fornite dal richiedente e dall’università che ha rilasciato il titolo.
La quarta sezione della Convenzione di Lisbona regola il riconoscimento dei titoli esteri di scuola secondaria per l’accesso alle diverse forme di istruzione superiore presenti in un Paese. La norma generale prevede che se un titolo consente in un Paese di accedere al sistema di istruzione superiore, esso sarà accettato anche dagli altri Stati come titolo valido per l’accesso ai rispettivi sistemi nazionali di istruzione superiore.
La quinta sezione della Convenzione di Lisbona è dedicata ai programmi di cooperazione universitaria internazionale e di mobilità studentesca (quali, ad esempio, Erasmus, Tempus, Nordplus, Ceepus) e stabilisce il principio che i cicli e i periodi di studio effettuati all’estero siano riconosciuti dall’ateneo di provenienza.
La sesta sezione della Convenzione di Lisbona impegna i Paesi firmatari a riconoscere reciprocamente i titoli accademici finali. L’analisi del titolo estero deve avvenire sotto due profili, dovendo mettere a fuoco sia le “conoscenze”, sia le “competenze” dichiarate acquisite con il titolo di studio. Questa distinzione tra l’accertamento del “sapere” (ossia delle conoscenze teoriche) e l’accertamento del “saper fare” (ossia delle conoscenze pratiche) è funzionale ad una valutazione attenta e non superficiale della capacità di svolgere una determinata professione.
Il riconoscimento del titolo accademico estero dovrà portare almeno ad una delle conseguenze seguenti:
– l’accesso a studi di livello più avanzato o al dottorato di ricerca alle stesse condizioni previste per i candidati in possesso di qualifiche nazionali;
– l’uso del titolo accademico autorizzato dal Paese di origine;
– l’accesso al mercato del lavoro.
Le linee guida della Convenzione presentano però delle eccezioni per il riconoscimento dei titoli accademici esteri:
– il riconoscimento può essere rifiutato qualora si riscontrino differenze sostanziali tra i contenuti formativi del titolo estero e quelli del corrispondente titolo nazionale;
– il riconoscimento del titolo estero ai fini dell’accesso a professioni regolamentate può essere legato alla richiesta di soddisfacimento di ulteriori requisiti di tipo generalmente non accademico, quali un tirocinio professionale di durata definita o un esame di Stato abilitante all’esercizio della professione.
Il Processo di Bologna è un processo di riforma internazionale dei sistemi di istruzione superiore, costituitosi nel 1999 presso l’università di Bologna, che si è proposto di realizzare entro il 2010 lo Spazio europeo dell’istruzione superiore. Il Processo di Bologna si è aperto con una apposita dichiarazione, dal titolo “Lo Spazio europeo dell’istruzione superiore”, sottoscritta dai 29 Ministri responsabili per l’istruzione superiore partecipanti. Il Processo di Bologna non è vincolante per i Governi dei Paesi che vi aderiscono. Ogni Stato, infatti, decide di volta in volta se e quale provvedimento adottare. Un passo determinante per l’avvio del Processo di Bologna è stata la dichiarazione della Sorbona del 1998, dal titolo “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa”, sottoscritta dai Ministri dell’istruzione di Francia (Claude Allegre), Italia (Luigi Berlinguer), Regno Unito (Tessa Blackstone) e Germania (Jurgen Ruetters). In questa dichiarazione i quattro Ministri hanno convenuto sulla necessità di una armonizzazione dei sistemi di istruzione e formazione europei e si sono impegnati per cooperare al riguardo onde realizzare un quadro comune per l’insegnamento europeo, anche per facilitare la mobilità degli studenti e poi dei lavoratori.
I principali obiettivi che caratterizzano il Processo di Bologna sono:
– armonizzazione dei titoli di studio, anche per consentire l’impiego dei laureati nell’intero mercato del lavoro europeo e per realizzare una maggiore competitività dell’Unione;
– adozione di un sistema universitario composto da due cicli principali, il primo denominato “bachelor” (durata tipica 3 anni), il secondo denominato “master” (durata tipica 2 anni) ; l’accesso al secondo ciclo è consentito solo dopo la conclusione del primo ciclo; il titolo rilasciato al termine del primo ciclo di studi sarà anche spendibile quale idonea qualificazione nel mercato del lavoro europeo;
– consolidamento sul modello dell’ECTS (European Credit Transfert System) del sistema dei crediti didattici, quale strumento atto ad assicurare la più ampia e diffusa mobilità degli studenti; viene ammessa la possibilità dell’acquisizione di tali crediti anche in contesti diversi (purché riconosciuti dalle università);
– promozione della mobilità di studenti e docenti mediante l’abbattimento degli ostacoli che ne impediscono la libera circolazione;
– promozione della dimensione europea dell’istruzione superiore, con particolare riguardo allo sviluppo dei curricula, alla cooperazione tra istituzioni, agli schemi di mobilità ed ai programmi integrati di studio, formazione e ricerca;
– valutazione della qualità dei sistemi di istruzione e formazione nazionale.
A Bologna i Ministri hanno deciso di ritrovarsi ogni due anni per valutare gli sviluppi del Processo. Le conferenze biennali del Processo di Bologna si sono tenute: a Praga nel 2001 (vedi il comunicato finale “Verso lo Spazio europeo dell’istruzione superiore”), a Berlino nel 2003 (“Realizzare lo Spazio europeo dell’istruzione superiore”), a Bergen nel 2005 (“L’Area europea dellistruzione superiore – Conseguire gli obiettivi”), a Londra nel 2007 (“Verso lo Spazio europeo dell’istruzione superiore: rispondere alle sfide di un mondo globalizzato”), a Lovanio nel 2009 (“Lo Spazio europeo dell’istruzione superiore nel prossimo decennio”), a Budapest e Vienna nel marzo 2010 (in cui si è finalmente varato lo Spazio europeo dell’istruzione superiore). Il prossimo incontro si terrà a Bucarest nel 2012. Attualmente i Paesi firmatari del Processo di Bologna sono 47 (l’ultimo Paese che si è aggiunto è il Kazakistan).
Importanti partecipazioni al Processo di Bologna sono quelli dell’Associazione europea delle università (EUA), dell’Associazione europea delle istituzioni di istruzione superiore (EURASHE), dell’Unione degli studenti europei (ESU), del Consiglio d’Europa e dall’UNESCO-CEPS (Centro Europeo per l’Istruzione Superiore).
Tra le principali decisioni adottate dal Processo di Bologna in queste varie conferenze biennali possono essere utilmente ricordate le seguenti. A Praga (2001) la Conferenza dei Ministri ha dato incarico alle Reti dei Centri nazionali di informazione ENIC (European Network of Information Centres) e NARIC (National Academic Recognition Information Centres) di promuovere l’armonizzazione dei titoli di studio. La stessa Conferenza ha richiesto all’Associazione europea per l’assicurazione della qualità dell’istruzione superiore (ENQA – European Association of Quality Assurance), che riunisce tutte le Agenzie nazionali di valutazione della qualità dell’istruzione e della formazione universitaria, di monitorare l’effettivo funzionamento delle Agenzie nazionali. A seguito di questa decisione l’ENQA ha adottato gli standard e le linee guida per l’assicurazione della qualità nello Spazio europeo per l’istruzione superiore (Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area). Gli standard prevedono: una valutazione interna delle università svolta dalle stesse università; una valutazione esterna delle università, compiuta dalle Agenzie per la garanzia della qualità, valutazione che si conclude con rapporti contenenti giudizi e raccomandazioni che devono essere resi pubblici; il rispetto di standard di qualità anche da parte delle Agenzie preposte alle valutazioni esterne.
La riunione di Berlino (2003) ha aggiunto un altro importante obiettivo al Processo di Bologna: il legame con la ricerca. La ricerca ha un ruolo fondamentale nell’istruzione superiore in Europa. Lo Spazio europeo dell’istruzione superiore e lo Spazio europeo della ricerca costituiscono i due pilastri di una società basata sulla conoscenza. È stata quindi riconosciuta la necessità di andare al di là dei due cicli ed includere nel processo di convergenza europea un terzo ciclo, il dottorato di ricerca. Nella conferenza di Bergen (2005) i Ministri hanno adottato il Quadro dei titoli per lo Spazio europeo dell’istruzione superiore (Qualifications Framework for the European Higher Education Area). Esso si articola in tre cicli e presenta tutti i titoli rilasciati per ciascun ciclo. Ogni ciclo è caratterizzato da descrittori generali (i c.d. “descrittori di Dublino”) che si basano sui risultati del processo di apprendimento di conoscenze e competenze. Ad ogni ciclo corrisponde un preciso numero di crediti. I crediti descrivono il carico di lavoro di uno studente per raggiungere gli obiettivi del corso di studio. Il sistema di trasferimento dei crediti (ECTS) rende comparabili i programmi di studio e facilita il riconoscimento accademico. Gli Stati si sono impegnati ad elaborare schemi nazionali di valutazione dei titoli (National Qualifications Framework) compatibili con il modello comunitario. A questo proposito può essere utile segnalare che l’Italia ha recentemente adottato il Quadro dei Titoli Italiani (QTI). Tra le decisione prese a Bergen vi sono inoltre la decisione di approvare gli standards dell’ENQA sopra indicati e la decisione di creare un Registro europeo degli organismi nazionali di valutazione (EQAR). Scopo del Registro è di consentire a tutti i portatori di interesse e al pubblico in generale il libero accesso ad informazioni obiettive sulle Agenzie di assicurazione della qualità che operino secondo gli standard e le linee guida europee. Si ritiene che ciò rafforzerà la fiducia nell’istruzione superiore europea sia all’interno dell’Europa, sia oltre i suoi confini, e faciliterà il reciproco riconoscimento delle decisioni in materia di assicurazione della qualità e di accreditamento. Il comunicato finale della conferenza di Bergen ha ribadito che l’istruzione universitaria è un bene pubblico e che lo Stato deve finanziarla in modo da mantenere l’autonomia degli atenei. Nella conferenza di Londra (2007) è stato approvato il principio che i quadri dei titoli nazionali debbano combaciare con i quadri dei titoli generali, per favorire la mobilità. Nel documento finale della conferenza di Lovanio (2009) si è ulteriormente sottolineato che l’istruzione superiore è responsabilità pubblica e si è inoltre deciso di estendere l’attività del Processo di Bologna fino al 2020.
Circa l’attuazione del Processo di Bologna in Italia possono essere utili i seguenti dati:
– il sistema universitario a due cicli e il sistema dei crediti sono stati introdotti nel nostro ordinamento mediante il DM del MIUR 3 novembre 1999, n. 509, recante “Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei”. Sono stati così introdotti la laurea triennale (180 crediti) e la laurea specialistica biennale (120 crediti, che aggiungendosi ai 180 crediti della laurea di primo livello portano il totale dei crediti a 300). Il D.M. prevede altresì la laurea a ciclo unico per i corsi che conducono alle professioni regolamentate dalla normativa europea (professioni sanitarie e architettura).
– Il DM del MIUR 25 novembre 2005 ha introdotto la laurea magistrale a ciclo unico (5 anni) anche per il corso di laurea in giurisprudenza.
– Nel 2007 sono stati adottati i decreti ministeriali del MIUR recanti l’individuazione delle classi delle lauree universitarie di primo livello (DM 16 marzo 2007), l’individuazione delle classi di laurea magistrale (DM 16 marzo 2007), le linee generali di indirizzo della programmazione delle università per il triennio 2007-2009 (DM 3 luglio 2007, n. 362), la definizione delle linee guida per l’istituzione e l’attivazione, da parte delle università, dei corsi di studio (DM 26 luglio 2007).
– Per quanto concerne la valutazione della qualità, l’articolo 2, comma 138, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, ha costituito l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), con i seguenti compiti:
a) valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca pubblici e privati destinatari di finanziamenti pubblici, sulla base di un programma annuale approvato dal Ministro dell’università e della ricerca;
b) indirizzo, coordinamento e vigilanza delle attività di valutazione demandate ai nuclei di valutazione interna degli atenei e degli enti di ricerca;
c) valutazione dell’efficienza e dell’efficacia dei programmi statali di finanziamento e di incentivazione delle attività di ricerca e di innovazione.
I risultati delle attività di valutazione dell’ANVUR costituiscono criterio di riferimento per l’allocazione dei finanziamenti statali alle università e agli enti di ricerca.
La struttura ed il funzionamento dell’ANVUR sono stati disciplinati prima con il DPR 21 febbraio 2008, n. 64 , e poi con il DPR 1 febbraio 2010, n. 76. Con DM 22 settembre 2010, n. 17, il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca ha individuato i requisiti necessari dei corsi di studio, suddivisi in requisiti di trasparenza, requisiti per l’assicurazione della qualità dei processi formativi, requisiti di strutture e di docenza di ruolo, regole dimensionali relative agli studenti e requisiti organizzativi.
Dopo il prescritto parere delle Commissioni parlamentari il Consiglio dei Ministri in data 18 febbraio 2011 ha definitivamente approvato la nomina a componenti del consiglio direttivo dell’ANVUR dei professori Sergio Benedetto, Andrea Bonaccorsi, Massimo Castagnaro, Stefano Fantoni, Giuseppe Novelli e delle professoresse Fiorella Kostoris e Luisa Ribolzi. L’ANVUR è così entrata in funzione. Dal momento dell’inizio della sua attività sono stati soppressi il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR), il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (CNVSU), il Comitato di valutazione del Consiglio nazionale delle ricerche, e il Comitato di valutazione dell’Agenzia spaziale italiana.
Ulteriori misure per la valutazione delle università e dei corsi di studio (didattica e ricerca) sono state disposte nel decreto-legge 10 novembre 2008, n. 180, e nella legge di riordino del sistema universitario 30 dicembre 2010, n. 240.
– Da ultimo, il Consiglio dei Ministri del 20 gennaio 2012 ha approvato in via definitiva il decreto legislativo previsto dall’articolo 5, comma 3, lettere a) e b) della legge 240 del 2010 sull’accreditamento degli atenei. Il sistema configurato dispone una verifica iniziale e poi periodica, non solo delle sedi universitarie, ma anche dei singoli corsi di laurea, sulla base di parametri ed indicatori definiti dall’ANVUR. Si tratta dunque di un ulteriore passo avanti rispetto all’attuale meccanismo dei “requisiti minimi” delle università, nella direzione di conferire un effettivo valore “sostanziale” al diploma di laurea, al di là del suo valore “legale”.
Per cercare di prevedere quale sarà la futura evoluzione dei processi di armonizzazione dei sistemi di istruzione e formazione nazionali europei sopra descritti, può essere utile la seguente considerazione. Nelle società industriali avanzate, come certamente è la società europea, che giustamente e orgogliosamente ritiene di “essere basata sulla conoscenza”, è in atto da decenni una forte tendenza a regolamentare e qualificare sempre più molte tipologie di lavoro. La guida di un TIR può essere affidata solo a chi ha l’apposita patente. Per essere abilitati al comando di un aereo di linea per trasporto di passeggeri è necessario aver seguito con profitto severi corsi di formazione, superato difficili esami attitudinali, volato come tirocinante per un certo numero di ore, eccetera. Solo un’infermiera diplomata è autorizzata a fare un’iniezione endovenosa. Il controllo ad ultrasuoni di una saldatura in un recipiente a pressione può essere fatto solo da chi è formalmente esperto di tali controlli, avendo seguito corsi di formazione, superato esami, fatto pratica per un tempo adeguato. La vendita di prodotti finanziari al pubblico può essere fatta solo da chi è in possesso di determinati requisiti. Si potrebbe continuare con migliaia di altri esempi. In sostanza nella nostra società i lavori che possono avere impatto diretto o indiretto sulla sicurezza e sulla salute dei cittadini vengono sempre più regolamentati. Le regolamentazioni, che vengono attuate mediante leggi o mediante disposizioni di rango inferiore, ma semprecogenti, prescrivono in generale: la frequenza con profitto di specifici corsi di formazione e il superamento degli esami finali, un adeguato tirocinio, caratteristiche sanitarie adeguate (vista, udito, eccetera). Là dove la regolamentazione relativa ad un determinato lavoro prevede il superamento dell’esame finale di un corso di studi, questo titolo di studio, in quanto condizione necessaria per poter svolgere quel lavoro, acquisisce in sostanza valore legale.
I processi in atto di armonizzazione dei sistemi d’istruzione universitaria europei sopra descritti, tra cui in particolare il Processo di Bologna che mira alla costituzione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore, sembrano orientati a raccogliere in opportuna sintesi sia l’esperienza del sistema di formazione universitaria del Regno Unito, sia l’esperienza dei sistemi di formazione universitaria marcatamente statalisti dei Paesi europei, tra cui l’Italia. In effetti gli impegni già assunti dagli Stati europei comprendono: la parificazione dei cicli formativi su un modello a tre cicli, mutuato dall’esperienza del Regno Unito; l’istituzione di Agenzie interne di valutazione della qualità dell’istruzione superiore (meccanismo mutuato dall’esperienza della QAA del Regno Unito); l’introduzione di un’associazione a livello centrale europeo finalizzata a promuovere la cooperazione tra le Agenzie europee nel campo della garanzia di qualità delle università (l’ENQA); l’adozione di un complesso sistema di regole (tra cui l’introduzione dei crediti formativi) per il reciproco riconoscimento tra i vari Paesi dei titoli di studio. Questo percorso, finalizzato a conseguire una profonda armonizzazione in Europa dei sistemi di istruzione superiore, sembra inevitabilmente condurre ad un riconoscimento legale a livello europeo dei titoli universitari conseguiti nei singoli Stati europei.
Tale prospettiva è supportata anche dalle direttive europee relative alle qualifiche professionali, che delineano il percorso formativo minimo per il riconoscimento a livello europeo delle qualifiche professionali e del loro esercizio entro il territorio dell’Unione Europea e non prevedono la possibilità della richiesta da parte dei Stati membri di ulteriori esami abilitativi.
CAPITOLO 5
CONCLUSIONI
5.1 QUADRO DELL’INDAGINE CONOSCITIVA SVOLTA
La 7a Commissione del Senato ha svolto sull’ipotesi di abolizione del valore legale della laurea un’ampia e accurata indagine conoscitiva. L’indagine si è basata principalmente sull’audizione degli esponenti maggiormente rappresentativi del settore, ma si è anche avvalsa del supporto del Servizio Studi del Senato, ha sviluppato in proprio alcuni approfondimenti e si è riferita con attenzione ai documenti più rilevanti reperibili sull’argomento in letteratura.
Gli elementi principali emersi nel corso dell’indagine possono essere così riassunti.
È stato presentato un sintetico quadro dell’attuale sistema universitario italiano, delineando gli aspetti principali della sua organizzazione, mettendo in evidenza l’enorme estensione delle discipline scientifiche e tecniche oggetto di insegnamento e sottolineando l’eccezionale importanza della sua azione formativa, che riguarda ormai una quota importante dei nostri giovani (vedi il paragrafo 1 del capitolo 2).
È stata brevemente delineata la storia della formazione del sistema universitario italiano. Negli ultimi 150 anni, che hanno registrato uno sviluppo straordinario di tale sistema, il ruolo di gran lunga principale è stato quello dello Stato, come in quasi tutti i Paesi europei (con l’eccezione del solo Regno Unito). E’ sullo Stato che hanno gravato gran parte delle spese di investimento per la creazione di nuove università e hanno gravato e tuttora gravano buona parte delle spese correnti per il funzionamento delle università. Ancor oggi la grande maggioranza delle università italiane sono statali e dipendono, pur con una loro autonomia, dalla vigilanza centrale del Ministero competente (il MIUR). Tale sviluppo storico del sistema universitario italiano ne ha determinato un predominante carattere centralista e statalista ancor oggi evidente (vedi il paragrafo 2 del capitolo 2).
Sono stati analizzati i fondamenti legislativi del valore legale del diploma di laurea. Questo valore non è menzionato nelle disposizioni costituzionali relative alle attività dell’alta formazione universitaria (in particolare espresse nell’articolo 33 della Costituzione) e nemmeno è esplicitamente fondato in qualche disposizione di legge, ma deriva indirettamente da un’architettura normativa di fonti primarie e secondarie. Formalmente i diplomi di laurea hanno solo valore accademico (vedi il regio decreto 31 agosto 1933, n. 1592, articolo 172), consistono cioè in riconoscimenti all’interno del sistema universitario basati su alcuni parametri di ponderazione (che fra l’altro sono utilizzati per il riconoscimento di titoli stranieri e delle equipollenze). Tuttavia è necessario avere un diploma di laurea sia per accedere a molti concorsi pubblici, sia per accedere a certe carriere negli uffici pubblici. Ad esempio, il decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, all’articolo 161 richiede il diploma di laurea per l’accesso alla carriera direttiva nell’amministrazione dello Stato. Il diploma di laurea è indispensabile (per legge) anche per accedere agli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni (vedi il paragrafo 3 del capitolo 2).
I principali ambiti in cui si estrinseca il valore legale della laurea sono stati così individuati (nel paragrafo 3 del capitolo 2):
– la laurea è necessaria per accedere ai livelli superiori dell’alta formazione (ad esempio, nelle discipline universitarie per cui vige lo schema 3 + 2, per accedere al corso di laurea magistrale è necessario un diploma di laurea triennale disciplinarmente affine al corso di laurea magistrale che si intende frequentare);
– la laurea è necessaria per accedere agli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni regolamentate (medicina, odontoiatria, ingegneria, avvocatura, eccetera); in tali professioni l’iscrizione all’albo degli Ordini e l’esercizio sono regolamentati da leggi che prescrivono tra i requisiti il possesso di specifici diplomi di laurea;
– la laurea è necessaria per accedere ai bandi – concorso per l’assunzione alle dipendenze della Pubblica Amministrazione di particolari figure professionali (magistrati, notai, diplomatici, Medici, veterinari, ingegneri, architetti, avvocati, eccetera);
– la laurea è richiesta per accedere a una grande varietà di bandi – concorso per assunzione nella Pubblica Amministrazione; spesso in questi bandi, nella determinazione del punteggio finale di valutazione complessiva del candidato, viene tenuto in conto il voto di laurea.
Sempre nel paragrafo 3 del capitolo 2 è stato delineato il quadro coerente di disposizioni legislative e ministeriali che consentono ad una università italiana di conferire un diploma di laurea. Per inserire una università nell’ordinamento universitario italiano, tra le varie caratteristiche ed oneri richiesti occorre:
– che l’università con le sue infrastrutture e con il suo funzionamento e in particolare i corsi di laurea da essa attivati soddisfino determinati requisiti minimi (stabiliti per decreto ministeriale, vedi il paragrafo 1 del capitolo 2);
– che i docenti siano reclutati secondo modalità stabilite per legge;
– che i programmi dei corsi di studio delle università riconosciute siano conformi alle prescrizioni ministeriali;
– che i corsi di studio siano inquadrati in ben definite classi di laurea (anch’esse definite per disposizione ministeriale);
– che vi sia l’emanazione di un apposito decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca per legittimare tale riconoscimento.
Nelle audizioni svolte al Senato nel quadro dell’indagine conoscitiva sono stati sentiti i pareri degli esponenti di una gamma rappresentativa dei portatori di interesse in questo settore. Tra questi: la CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), il CUN (il Consiglio Universitario Nazionale), i rappresentanti di tre importanti Ordini professionali (il Consiglio Nazionale Forense, il Consiglio Nazionale degli Ingegneri, il Consiglio Nazionale dei Medici e degli Odontoiatri), la Confindustria, i sindacati attivi nell’università, nonché i due Ministri competenti nei settori toccati dall’eventuale abolizione del valore legale della laurea, il Ministro MariaStella Gelmini (Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e il Ministro Renato Brunetta (Ministro della Funzione Pubblica e dell’Innovazione). Le sintesi degli interventi, spesso assai interessanti, sono riportati nel Capitolo 3, mentre i resoconti stenografici delle audizioni e i documenti rilasciati dagli auditi a supporto o complemento del parere espresso nel corso delle audizioni sono riportati in Appendice.
Nel paragrafo 4 del capitolo 2 sono presentate brevi analisi di alcuni importanti documenti riguardanti l’ipotesi dell’abolizione del valore legale della laurea: il Rapporto finale della Commissione ministeriale MIUR presieduta dal professor Guido Martinotti (1997), il programma elettorale del Popolo della Libertà alle elezioni politiche del 2008 e l’esame di tre recenti proposte di legge presentate al Parlamento contenenti esplicitamente disposizioni per l’abolizione del valore legale della laurea.
Nei paragrafi 1 e 2 del capitolo 4 sono stati brevemente esaminati i sistemi universitari esistenti in USA e nel Regno Unito, Paesi in cui il diploma di laurea non ha valore legale, evidenziando la complessa regolamentazione di tali sistemi. Nel paragrafo 3 del capitolo 4 è stata delineata l’attuale situazione esistente nell’Unione Europea, in cui per rendere davvero effettiva la piena libertà di lavoro dei prestatori d’opera in tutti i territori dei 27 Paesi è in corso, nell’ambito delle linee guida del Processo di Bologna, un’armonizzazione dei percorsi di formazione universitaria per realizzare il mutuo riconoscimento dei titoli di studio.
5.2 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Sulla base di questa ampia acquisizione di informazioni, dati, opinioni, pareri, eccetera, riguardanti direttamente o indirettamente la prospettata abolizione del valore legale della laurea possono trarsi le seguenti considerazioni conclusive.
1) Il valore legale della laurea in Italia è strettamente legato al carattere statale della moderna università nel nostro Paese. E’ una sorta di marchio di qualità che lo Stato riconosce ai titoli rilasciati dalle proprie università e dalle poche università private formalmente legittimate a rilasciare titoli validi sul territorio nazionale. Non è evidentemente pensabile che, ad esempio, i diplomi di laurea rilasciati dall’Università statale di Napoli abbiano diverso “valore formale” rispetto ai titoli rilasciati dall’Università statale di Bologna. Questo prevalente (o esclusivo) carattere statale dell’università è proprio di quasi tutti i Paesi europei (fa eccezione unicamente il Regno Unito) ed è dipeso, come evidenzia la storia di questi ultimi due secoli, sia dalla forte diffusione in questi Paesi di ideologie attribuenti allo Stato molte importanti funzioni, sia dal modesto grado di sviluppo del capitalismo privato. In Italia il conferimento allo Stato della funzione dello sviluppo e del sostegno dell’università nel Paese è stato condiviso (ed è tuttora condiviso) da quasi tutte le importanti forze politiche attive dalla creazione dello Stato italiano nel 1861 ad oggi. Finalità molto importanti che solo l’università statale si è ritenuto potesse far conseguire nel nostro Paese, sono in particolare: una adeguata diffusione nella popolazione dell’alta formazione, un elevato livello della ricerca scientifica e tecnologica, la promozione del riequilibrio territoriale nord–sud e la tutela del diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli.
2) Molti osservatori concordano nel ritenere che l’attuale qualità media della formazione universitaria italiana è insoddisfacente. Le cause di questo malfunzionamento sono varie e hanno radici profonde nel tempo: il periodo della contestazione studentesca negli anni ’70 del secolo scorso, la rapida trasformazione dell’università da università di élite a università di massa, un reclutamento del personale docente talora poco meritocratico, le troppo blande procedure di controllo e valutazione dell’attività didattica e dell’attività di ricerca, la scarsa concorrenza tra le varie università, la proliferazione eccessiva di corsi di laurea e di sedi universitarie distaccate, finanziamenti statali nettamente inferiori (in proporzione al PIL) rispetto a quelli degli altri grandi Paesi europei, una distribuzione dei finanziamenti statali tra le università fatta in base alle serie storiche o in base a indicatori, come il numero degli studenti immatricolati e il numero degli esami superati, tendenti a promuovere concorrenza al ribasso tra le università, la scarsa incisività dei “requisiti minimi”, la diffusione di università telematiche scadenti, eccetera. Questa situazione non è più tollerabile per varie importanti ragioni. In particolare è assolutamente indispensabile che la formazione del capitale umano, determinata in modo preminente dal sistema universitario, abbia la qualità necessaria perché il nostro Paese possa degnamente concorrere con gli altri Paesi nel sempre più impegnativo processo in atto di globalizzazione e confronto delle economie. Se la nostra università funziona male, inevitabilmente di qui a qualche tempo ne soffrirà tutto il sistema Paese. E’ questo il contesto in cui si collocano le iniziative per l’abolizione del valore legale della laurea. Il loro obiettivo finale è proprio l’innalzamento della qualità della formazione universitaria.
3) Per il suo carattere liberatorio l’abolizione del valore legale della laurea appare a tutta prima un provvedimento suggestivo e attraente: mediante esso verrebbero eliminate le barriere che hanno reso il settore dell’alta formazione universitaria un quasi-monopolio statale; ne risulterebbero molto facilitate nuove iniziative formative caratterizzate da innovazione disciplinare o tecnologica, meglio rispondenti ad esigenze del mercato; vi sarebbe piena via libera ai feed-back del mercato, sia a quelli premianti, sia a quelli sanzionanti; si attuerebbe appieno il principio costituzionale dell’autonomia universitaria; tra le università si svilupperebbe una competizione virtuosa, meritocratica, in cui le università migliori si crescerebbero ulteriormente, mentre le università peggiori verrebbero progressivamente emarginate; si verificherebbe una migliore gestione e ripartizione dei finanziamenti statali. A promuovere una concorrenza “virtuosa” tra le università sarebbero prima di tutto gli studenti e le famiglie, che una volta eliminata l’equiparazione dei diplomi di laurea, considererebbero come elemento fondamentale per la scelta della sede universitaria la qualità sostanziale della formazione impartita. Tuttavia, la valutazione della qualità sostanziale di un determinato corso di laurea è un’operazione piuttosto complessa, che richiede molte informazioni e la capacità di valutare queste informazioni. Al riguardo un ruolo essenziale dovrebbe essere svolto dall’ANVUR, che dovrebbe essere cospicuamente potenziata contestualmente all’abolizione del valore legale della laurea, in modo da aiutare la scelta di studenti e famiglie con la tempestiva valutazione (con l’accredito) dei nuovi corsi di laurea e, altresì, con la valutazione periodica del funzionamento dei corsi di laurea già esistenti. Le valutazioni dell’ANVUR dovrebbero essere espresse con un rating a più livelli (tipo AAA), che – pur non avendo carattere legale – consentirebbe un facile confronto competitivo tra i vari corsi della stessa classe di laurea. Per inciso, andrebbe evitato sia un rating descrittivo, non espresso in termini di livelli (che rischia di essere poco utilizzabile, perché verosimilmente non facile da comprendere), sia il rating a due livelli (“buono”, “non buono”) (perché troppo grossolano e sostanzialmente poco indicativo). Occorrerebbe inoltre che queste valutazioni fossero prontamente rese disponibili agli studenti e alle famiglie: un feed-back di mercato se non è pronto, non funziona.
4) Tuttavia, perché tale feed-back di mercato abbia la possibilità di realizzarsi compiutamente, sarebbero necessarie anche altre condizioni. Sarebbe molto importante che agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi fosse messo a disposizione un opportuno supporto economico, in grado di garantire davvero il diritto allo studio nell’università ritenuta migliore. Purtroppo la difficile attuale situazione della finanza pubblica e la scarsa disponibilità nelle varie sedi universitarie di alloggi per studenti non residenti, costituiscono oggettivi impedimenti per il soddisfacimento di questa condizione, almeno nel breve-medio periodo.
5) Per gli “abolizionisti” del valore legale della laurea un’altra conseguenza positiva di tale provvedimento sarebbe un assai più pronto adeguamento dell’insegnamento universitario alle sempre più rapidamente mutevoli esigenze del sistema produttivo e più in generale della società, nonché all’utilizzazione di nuove tecnologie di formazione. Ciò verosimilmente accadrebbe, ma la liberalizzazione incondizionata dei contenuti disciplinari dei corsi di studio rischierebbe anche di portare ad eccessi di vario tipo, di rendere difficili le valutazioni sopraddette dell’ANVUR e di generare confusione sia nelle scelte degli studenti sia nelle decisioni di assunzione dei datori di lavoro. La possibilità di rischi di questo genere è testimoniata, ad esempio, dalla disordinata proliferazione dei corsi di laurea già verificatasi nelle università italiane nell’ultimo decennio.
6) Va sottolineato che l’abolizione del valore legale della laurea sarebbe un’operazione giuridicamente complessa, anche perché, come abbiamo visto, non esiste nessuna precisa disposizione di legge da cui derivi tale valore. Le leggi da modificare sono molte: le leggi riguardanti l’accesso agli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni regolamentate; le leggi e i regolamenti riguardanti l’accesso agli ordini professionali per le professioni non regolamentate; le leggi, i regolamenti e i decreti ministeriali riguardanti le assunzioni e le carriere nella pubblica amministrazione; le leggi e i decreti ministeriali riguardanti l’ordinamento universitario (relative ai requisiti minimi per l’accreditamento delle università, ai programmi dei corsi di laurea, al reclutamento dei docenti, alla definizione delle classi di laurea, eccetera). Le suddette modifiche di leggi, regolamenti e decreti ministeriali in generale non sarebbero affatto modifiche banali, dovendo delineare con saggezza un nuovo complesso impianto normativo per l’alta formazione, di importanza vitale per il Paese.
7) Nel valutare l’opportunità di procedere all’abolizione del valore legale della laurea, non si può ovviamente prescindere dalla considerazione dell’attuale situazione del sistema universitario italiano. Tale situazione è dominata dalle complesse dinamiche di implementazione delle innovative disposizioni della legge 240, approvata dal Parlamento a fine 2010. I cambiamenti presenti e futuri introdotti da questa legge sono particolarmente rilevanti su molti fondamentali aspetti del modus operandi delle nostre università, quali la governance, i vincoli di bilancio, il reclutamento e lo stato giuridico dei docenti, la carriera dei ricercatori, eccetera. La finalità generale e principale della legge – il conseguimento di un deciso miglioramento della qualità della formazione universitaria – viene perseguita mediante la sistematica adozione di procedure di valutazione delle attività di didattiche e di ricerca. In particolare, all’articolo 5, comma 3, lettera a), tale legge introduce: “un sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio universitari fondato sull’utilizzazione di specifici indicatori definiti ex ante dall’ANVUR per la verifica del possesso da parte degli atenei di idonei requisiti didattici, strutturali, organizzativi, di qualificazione dei docenti e delle attività di ricerca e di sostenibilità economico finanziaria”; alla lettera b) “un sistema di valutazione periodica basato su criteri e indicatori stabiliti ex ante da parte dell’ANVUR dell’efficienza e dei risultati conseguiti nell’ambito della didattica e della ricerca dalle singole università e dalle loro articolazioni interne”. Tali compiti dell’ANVUR si aggiungono a quelli molto rilevanti previsti dal regolamento concernente il funzionamento dell’ANVUR (il DPR n. 76 del 2010). Come molti degli auditi hanno osservato, non c’è dubbio che l’introduzione di una nuova importante modifica dell’ordinamento universitario, quale quella necessaria per l’abolizione del valore legale della laurea, creerebbe un nuovo rilevante stress nel sistema universitario italiano, mentre è appena iniziato l’impegnativo processo di riordino determinato dalla legge 240. E va sottolineato che la struttura normativa della predetta legge 240, che si ispira ad una logica di controllo ministeriale centralizzato, è nettamente disallineata rispetto alla logica di forte promozione dell’autonomia universitaria a cui si ispirerebbe una legge per l’abolizione del valore legale della laurea si ispirerebbe.
8) Nell’Unione europea (e più in generale in Europa) è in atto da tempo, in particolare nell’ambito del cosiddetto Processo di Bologna, un processo di armonizzazione dei sistemi formativi universitari, anche per rendere più facile il mutuo riconoscimento dei titoli di studio. In particolare, come precisato in dettaglio nel paragrafo 4.3, i Paesi membri dell’Unione hanno assunto varie importanti decisioni, tra cui: l’adozione di un sistema formativo universitario a due o tre livelli di laurea, l’istituzione in ciascun Paese di un organismo di accreditamento e valutazione dei corsi di laurea (indipendente rispetto ai Ministeri competenti), il conferimento insieme al diploma di laurea di un “Diploma Supplement” (che presenti il percorso di studi del laureato, riassumendo ai possibili datori di lavoro le proprie conoscenze, competenze e abilità), il riconoscimento del ruolo nell’Unione Europea svolto dall’ENQA (l’Agenzia europea per la valutazione della qualità delle università) per il coordinamento degli organismi di accreditamento e valutazione attivi nei singoli Paesi, un sistematico confronto dei percorsi formativi universitari adottati nei vari Paesi in modo da realizzare, dove possibile, una loro progressiva convergenza. Tale processo di armonizzazione dei sistemi di istruzione, accompagnato peraltro da specifiche direttive di riconoscimento dei diplomi di laurea (vedi ad esempio, la direttiva 2005/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali), potrebbe portare in un futuro non lontano ad una sorta di formale riconoscimento europeo dei titoli di studio nazionali, ovviamente basato sugli accreditamenti e sulle valutazioni delle Agenzie nazionali di valutazione, coordinate dall’ENQA. Ciò faciliterebbe molto l’effettiva attuazione, all’interno della Comunità, del diritto di stabilimento e della libertà di circolazione dei lavoratori, compresi quei professionisti a cui, per il tipo di attività svolta, sono richiesti particolari percorsi formativi a tutela e garanzia della collettività.
9) Nelle sintetiche analisi (di cui ai paragrafi 4.1 e 4.2) relative ai sistemi universitari degli USA e del Regno Unito, caratterizzati dall’assenza di attribuzione di valore legale al diploma di laurea, risulta con evidenza che in quei Paesi la situazione non è affatto di piena anarchia: nei suddetti sistemi universitari sono previsti vari organismi e procedure a tutela della possibilità per gli studenti di una scelta consapevole del percorso di formazione universitaria, della qualità di tale formazione, del diritto allo studio, eccetera. In altri termini, i sistemi universitari di quei Paesi sono “sistemi” complessi strutturatisi progressivamente in decenni e decenni di esperienze (come d’altra parte sono i sistemi universitari di ogni Paese). Adottare nel nostro Paese un singolo segmento di questi sistemi USA e UK, come sarebbe la pura e semplice abolizione del valore legale della laurea, sia pure unita ovviamente ad un forte rafforzamento dell’ANVUR, per consentirle di svolgere tempestivamente la sua funzione di accreditamento e valutazione dei corsi di laurea, rischierebbe di non avere molto senso; si tratterebbe di importare uno degli aspetti di un modello liberale, dove l’autonomia universitaria ed il coinvolgimento del privato nell’istruzione hanno raggiunto piena realizzazione e maturità attraverso la delicata esperienza di decenni di sviluppo, in un Paese come l’Italia improntato invece ad una tradizione statalista che mal tollera intromissioni esterne, soprattutto del mercato, nell’ambito dell’attuazione del diritto allo studio e della promozione della cultura. Per garantire al sistema universitario italiano il suo corretto funzionamento, sarebbe indispensabile introdurre, contestualmente a tale abolizione, tutta un’opportuna serie di modifiche e riforme, anche radicali, che dovrebbero condurre al superamento della preminente competenza dello Stato in materia d’istruzione pubblica.
10) Queste considerazioni portano a ritenere che adottare oggi nel nostro Paese l’abolizione del valore legale della laurea presenterebbe, a fronte dei benefici conseguenti alla liberalizzazione del sistema universitario e alla piena autonomia delle università, vari cospicui aspetti negativi, complessivamente prevalenti: le indubbie difficoltà della realizzazione legislativa, una tempistica non congrua rispetto al recentissimo avvio dell’ANVUR, una non favorevole accettazione da parte di sindacati e ordini professionali, ma soprattutto da parte degli studenti e delle famiglie, una probabile penalizzazione delle università territorialmente svantaggiate, la probabile insorgenza di maggiori difficoltà in ordine alla fruizione di una formazione universitaria di alta qualità per i giovani residenti nelle regioni del Mezzogiorno, un probabile aumento dei costi universitari a carico degli studenti, una maggiore difficoltà di garantire il diritto allo studio degli studenti capaci e meritevoli ma sprovvisti di mezzi. A quest’ultimo riguardo si ribadisce la fondamentale importanza dell’obiettivo costituzionale di garantire a tutti nostri giovani pari opportunità nell’accesso anche ai più alti livelli della formazione: la qualità non può essere privilegio di pochi. Questo principio di uguaglianza ispira profondamente la nostra Costituzione ed è il presupposto di base del metodo meritocratico.
11) Se non con l’abolizione del valore legale della laurea, comunque, il problema del superamento delle attuali difficoltà della formazione universitaria nel nostro Paese e della promozione di una sua migliore qualità va affrontato con decisione. La soluzione delineata in recenti provvedimenti legislativi (l’istituzione dell’ANVUR, l’affidamento all’ANVUR di importanti compiti previsto nella legge 240, l’adozione di criteri premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche) punta sul forte stimolo al miglioramento della qualità determinato dalla sistematica adozione di prassi valutative relativamente alle attività delle università, in primo luogo didattica e ricerca, e dalle premialità collegate all’esito di tali valutazioni. Tale soluzione appare ben allineata con i processi di armonizzazione delle formazioni universitarie nazionali in corso in Europa. Non c’è dubbio tuttavia che il ruolo centrale affidato all’ANVUR in questa soluzione ne richiede un cospicuo rafforzamento. Il buon funzionamento dell’ANVUR è essenziale anche per tenere il passo con la rapida progressione in atto dell’armonizzazione delle formazioni universitarie dei vari Paesi europei. Nell’immediato, un provvedimento di semplice adozione da parte del Ministro per la funzione pubblica potrebbe essere quello di fare in modo che nella determinazione della graduatoria dei bandi di concorso per titoli ed esami per assunzione nella Pubblica Amministrazione non si dia eccessiva importanza al punteggio di laurea e si privilegi invece l’esito delle prove di valutazione.
12) Non è escluso affatto che in futuro, quando tramite l’ANVUR e l’ENQA sarà stato attivato un riconoscimento formale dei titoli di studio nazionali, quando anche tramite il “rating” dei corsi di laurea dell’ANVUR sarà stata effettivamente posta in essere una virtuosa competizione tra le nostre università, quando sperabilmente saranno state messe a disposizione maggiori risorse per la realizzazione piena del diritto allo studio, si possa procedere nel nostro Paese, senza eccessivo stress, all’abolizione del valore legale della laurea.
[1] La posizione di Confindustria, oltre che nel documento preparato per l’audizione, presentato in appendice, è stata delineata in vari documenti recenti, tra cui il “Rapporto Aurieri”, edito nel luglio 2009, e il documento “Priorità”. In quest’ultimo documento tra le priorità di interventi per il rilancio del Paese, si segnalava nell’ambito dei temi “Ricerca, Innovazione ed Istruzione” il superamento del valore legale del titolo di studio attraverso meccanismi europei di accreditamento delle Università.
La posizione di Confindustria nei riguardi del valore legale della laurea e di una sua eventuale abolizione, era già stata espressa il 21 gennaio 2010 in un’audizione svoltasi presso la 7a Commissione del Senato in merito all’allora disegno di legge di riordino dell’università (poi conclusosi nella legge n. 240 del 2010).
In quella occasione il dottor GianFelice Rocca, Vice Presidente di Confindustria per Education, dopo aver evidenziato l’importanza del ruolo delle università “nella creazione dei vantaggi competitivi di territori e settori industriali, ponendosi come pilastri della società in quanto concorrono alla preparazione accademica di risorse umane essenziali e sono motori della ricerca e dell’innovazione, contribuendo in modo decisivo alla costruzione del futuro dei nostri giovani e del loro benessere spirituale e materiale…”, sintetizzava in alcuni punti quali fossero le “leve” su cui la riforma universitaria avrebbe dovuto puntare per migliorare la qualità degli atenei ed inseriva, tra questi, “la sostituzione del valore legale dei titoli di studio con l’accreditamento delle sedi e dei corsi di laurea”.
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