“Viva l’Umanesimo”
Uno spicchio di scuola: la classe come community di pensiero
Non è vero che bambine e bambini “non sanno parlare”.
Non è vero che “non sanno scrivere”.
Non è vero che “non sanno giocare”.
Non è vero che “non sanno star fermi”.
Non è vero che “amano soltanto i giochi virtuali”.
Non è vero che sono “diversi dai bambini di un tempo”.
Non è vero.
Quanti luoghi comuni della grande società dei media si scontrano con la classe come community del tempo pieno.
In essa bambine e bambini mostrano esattamente il contrario.
Amano esprimersi, ma chiedono prima di tutto ascolto, chiedono poi “un bello” che nella loro vita è scomparso. Chiedono favole, fiabe, poesie, racconti; adorano castelli, miti e artigianato, musica, grammatica e matematica, filosofia, storia, geografia…
Succhiano energia e la restituiscono purché sia data loro la possibilità della lentezza, la fiducia quando piangono, quando l’ansia e la paura di non essere all’altezza li consuma. Sono molto più complessi di quanto non fosse concesso esserlo a noi tanti anni fa. E’ vero, tuttavia hanno in sé il fascino di un’infanzia chiusa e misteriosa che essi vorrebbero far esplodere in una serie di ragionamenti e azioni che vengono costantemente represse, oppure fatte rientrare in schemi adulti.
Il linguaggio per loro è simile a quello che per noi era il gioco: affascinante, stimolante, attraente, eccitante come la visita a una caverna: è talmente attraente che sarebbero disposti a rinunciare a qualsiasi attività. I dizionari passano di mano in mano, corrono di banco in banco, si consumano, perdono fogli, vengono difesi a spada tratta come fossero gioielli di famiglia. L’atlante si apre e si chiude: così grande com’è, viene rigirato nelle manine con una curiosità simile a quella che noi proviamo nel momento in cui ci accingiamo a intraprendere il viaggio verso una terra esotica.
Egizi, Etruschi, Greci, Romani, Medio Evo, Rinascimento… pittori, scultori, architetti, scienziati… popolano i loro sogni non appena li incontrano sul loro cammino di conoscenza: maestre e bambini si spingono a vicenda come in un autoscontro dagli urti impossibili, potenti, funambolici, pirotecnici…Le grida di rabbia si fanno festose appena lo scontro si risolve in quello che è: prova tecnica di crescita, iniziazione.
E qui comincia l’avventura del parlato: il fuoco incrociato di parole che escono estratte così allo sbaraglio per poi trovare una sistemazione, un addomesticamento dell’intelletto che produce pensiero che via via si fa riflessivo, armonico, comunicativo nella ricerca dei sinonimi, delle metafore, delle figure retoriche che centrano le intenzionalità comunicative.
E poi succede qualcosa di miracoloso: i bambini cominciano a leggere e a leggere e a leggere per ritrovare ciò che già hanno intuito di se stessi e del mondo. Cercano risposte, ripropongono domande, scovano nuove risposte, non si accontentano più di quelle trovate la prima volta, e si concretizza una catena infinita di perché a cui non più soltanto l’adulto può dare risposta. Allora dal racconto, dalla lettura personale, dalla fruizione di immagini, film, documentari, dalla community classe, dai conflitti risolti e da quelli irrisolti, bambini e bambine crescono e parlano e scrivono e diventano protagonisti da oscar.
E qui sta il punto: sono gli adulti che non li vedono come sono quando pretendono di definirli tramite domande prive di esprit, banali, pregiudizievoli. La logica degli adulti ha superato ogni limite nel senso che non sta sottotraccia pronta ad ascoltare le timidezze e i tremiti della voce bambina, anzi si è fatta sempre più dominante nel suo voler tutto categorizzare, catalogare, risolvere, velocizzare, a volte perfino medicalizzare eventuali “fastidiose devianze” che turbano lo schema di un sapere fossilizzato, cristallizzato, troppo sapiente e pretenzioso, indisponibile al confronto.
Quante volte si legge che i ragazzi sono un problema: qualunque sia il modo in cui lo si dice, la sensazione che i bambini e i ragazzi avvertono è quella di essere un problema. Effettivamente tutto ruota intorno al “problema” giovani, dai più piccoli ai più grandi! E’, la nostra, una civiltà di vecchi che pensano sui e intorno ai giovani, anziché pensare con i giovani. Anziché lasciarli liberi di farsi male con i propri pensieri e di metterli alla prova. La nostra è una civiltà della sicurezza: le emozioni fanno male, le esperienze fanno male, il dolore vero fa male (meglio quello rappresentato in tv!), parlare della morte fa male, il sapere “difficile” fa male, la filosofia fa male, la storia fa male, perfino le fiabe fanno male, il compagno “difficile”fa male… la vita va tenuta in naftalina.
Fanno bene le medicine, le merendine, le visite ripetute dal medico, gli zaini ultimo grido, i diari firmati, il fantasy, Disneyland, il cellulare finto a tre anni, la motoretta a batteria a cinque anni, i quaderni zeppi di esercitazioni, le letture facili, gli hot dog, i voti, la competizione…tutto fa bene purché i bambini non si sporchino, non cadano, non si feriscano, non litighino, non siano gelosi del fratellino o della sorellina…purché siano politically correct.
Bambini di quarta elementare parlano tra loro durante un intervallo qualunque dopo giorni di indagini sul Rinascimento: “Leonardo da Vinci è un mito!”, “Lorenzo il Magnifico un grande caduto da ammirare senza imitare”, “Botticelli l’eleganza e la bellezza”, “Raffaello la tenerezza”…Una bambina ridendo grida: “W l’Umanesimo!” Gli altri la imitano: “Noi siamo umanisti!”…
Credo che un genitore, un professore, una maestra, un persona qualsiasi dovrebbe toccare il cielo con un dito o, come diceva la mia nonna, leccarsi i gomiti, e far sì che tanta voglia di sapere non si blocchi mai e poi mai sul ciglio dei giudizi affrettati, su quello della pigrizia che impedisce a volte di vedere la bellezza e mostrarla anche quando è vicina di casa.