Il carcere delle parole e delle assenze
di Vincenzo Andraous
Nuova edilizia penitenziaria, otto per mille per ristrutturare gli istituti di pena, porte girevoli da arginare, condanne residue da scontare agli arresti domiciliari-penitenziari, nessun indulto né amnistia per tentare di consolidare un senso di giustizia equa a una disumana ingiustizia.
Rimangono ancora tanti problemi e non di poco conto sul carcere italiano, i troppi extracomunitari da riconsegnare ai propri paesi, la miriade di tossicodipendenti abbandonati dentro le celle in attesa della prossima tirata, del prossimo buco, l’esercito di persone miserevoli con le tasche vuote, tanti rumori nella testa, la sofferenza nel cuore da curare, da accompagnare fuori da un carcere che non si piega a nessuna utilità, scopo e prevenzione sociale.
Questo carcere costringe a torsioni innaturali quanto il reato commesso, su questa linea di confine che sembra non appartenere ad alcuno, è fin troppo facile affermare con una verità comprata al supermercato delle parole che in galera non ci finisce più nessuno.
Eppure chi scrive vi è ristretto da quarant’anni, senza dubbio c’è chi muore strozzato e disperato in una cella, c’è persino chi ci entra come cittadino adulto e ne esce come un adulto bambino, pronto alla detonazione che senz’altro avverrà.
In carcere ci si va e come, si resta in un angolo dimenticato, non per pensare al male fatto agli altri ed a se stessi, ma perché schiacciati nella violenza del nulla, spingendo la mente a mosse obbligate per contenere l’ingiustizia di una pena, che sortisce l’effetto ipnotico autoassolvente, che mette in scacco la propria colpevolezza, figuriamoci le eventuali responsabilità.
C’è in atto un nascondimento della follia individuale, dimenticando quella sociale in fase di implosione, peggio, di indifferente fatalità, al punto da accettare passivamente la tesi di un recinto dove ognuno è potenzialmente un morto che cammina.
Non si tratta di emanare un atto di clemenza, occorre ripensare davvero ai tetti spropositati delle condanne, alle celle anguste che devastano ciò che è già sufficientemente ammaccato, ai benefici carcerari ridotti al lumicino.
E’ necessario pensare ai programmi, ai progetti fattibili perchè chi esce non abbia a ritornarvi.
Ma quali investimenti sono approntati, per rendere inattuabile la pratica darwiniana dell’alzare il tiro onde assicurarsi un’impossibile impunibilità.
Cambiare è possibile, cambiare mentalità e atteggiamenti è un ‘opera di ricostruzione attuabile, ma nessuno si salva da solo.
Quel che è sotto gli occhi di tutti induce a richiedere subito questo balzo in avanti, perché nelle carceri le persone muoiono, esse non scontano soltanto una condanna, ma un sovrappiù che consiste nelle sofferenze fisiche e psicologiche, negli abbandoni e nelle rese di una sconfitta che non esprime alcuna pietà.
Ci sono situazioni devastanti, degradanti: alcune assolutamente non scelte, né mai totalmente descritte dalla cronaca o dalla romanzata fiction televisiva, permane il parassitismo strutturale che non consente responsabilizzazione nell’irresponsabile, ma altera e compromette ogni processo cognitivo, creando un arretramento culturale galoppante e una sorda commiserazione.
Allora è davvero urgente una riforma che sottenda un valore in sé e trascini con sé la volontà a progettare e organizzare percorsi alternativi al carcere, per evitare inutili effetti spostamento-trascinamento.
Posso assicurare che in carcere non si sta bene, è un luogo di afflizione, ma il sopravvivere abbruttendosi non ha alcun valore di interesse collettivo. Fino a quando non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa dicotomia spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. E’ una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere vita nè speranza, non rammentando che l’uomo privato della speranza è un uomo già morto.
Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro.
Quando il sentimento dell’amore è segregato, sei ancorato a una stanchezza che ti fa sentire perduto; hai in comune con il tuo simile solo un dolore sordo, che evita di guardare all’indietro nè di pensare al domani, e allora riconoscere i propri errori è un’impresa ardua.
Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere più umano l’inumano: sono più propenso a credere che dobbiamo convincerci noi, quelli dentro, della possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volerci un po’ bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica.
Finchè i ragionamenti saranno un’estensione degli atteggiamenti negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno in eventi negativi.
Spesso la voce sociale indica il carcere come extrema ratio sulla carta ma prima necessità nelle intenzioni di chi sta all’angolo della paura e della sofferenza. Un carcere-medico sprovvisto di lauree per intervenire sui sintomi, sulle malattie, le terapie da apportare, affinché sordi, muti e ciechi non abbiano a continuare a calpestare i diritti altrui.
Quando l’investimento (non mi riferisco esclusivamente a quello finanziario) copre quasi interamente il comparto della sicurezza, riservando poca attenzione-volontà, quella vera per la prevenzione-ricostruzione individuale, si produce una torsione che ammutolisce la coscienza.
La stessa richiesta di giustizia giusta, perché pronta, equa, corrispondente alla esigenza di riparazione, non riceve alcun conforto, così che la sensazione comune indossa la maschera e i denti affilati della solitudine, spingendo ad affidarci al carcere che ancora non c’è.
Sicurezza, rieducazione, risocializzazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può tenere insieme una società e farla crescere, politica e stili di vita si travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia fossero improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il benessere delle persone, eliminando la parte di interventi che riguardano un preciso interesse collettivo, quella ricomposizione della frattura sociale, da attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandano a una giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e stanno scontando la propria condanna, e intendono ritornare parte attiva del consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora delinquenti.
Le parole tentano di nascondere assenze e mancanze politiche, giungendo a fare di qualche certezza il terreno fertile della dubitosità, al punto da raccontare che sulla giustizia, sulla pena, sul carcere, le modalità da registrare sono quelle che vorrebbero la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività.
Quest’ultima pretende giustamente sanzioni efficaci a ripristinare l’ordine violato, ma deve evitare che l’esclusione del reo diventi una mera conseguenza di un sonno intellettivo, rimandando a tempo indeterminato la rielaborazione del reato, soprattutto dell’atteggiamento criminale, diventato nel frattempo uno status quo per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.
Istituzione carceraria bistrattata e umiliata nei suoi contenuti “tutti”, ma tirata per i gomiti senza tanti complimenti, allorché sale disperata la richiesta di assolvimento dei problemi sociali, una specie di strategia studiata a tavolino, affinché sul carcere scenda un silenzio auto-assolvente, che produce noncuranza indifferente sui doveri e pure su qualche diritto di chi sta in cella.
Forse la condicio sine qua non per una carcerazione meno brutale sta nel non indulgere in umanitarismi falsificanti le responsabilità, ritornando a consegnare al carcere la sua funzione, che non può essere basata su un versante prettamente retributivo, in quanto ciò non combatte efficacemente la recidiva, anzi la aumenta spaventosamente.