Compiti sì, compiti no o compiti come?
L’importanza di recuperare il patto di collaborazione scuola-famiglie
di Domenico Sarracino
Nei giorni appena trascorsi la questione dei compiti a casa ha suscitato una vivace discussione che si è svolta su vari mezzi di informazione e particolarmente su Fb dove le caratteristiche del mezzo se da un lato conferiscono spontaneità e immediatezza, dall’altro non sempre consentono la necessaria riflessività e l’esplicitazione della complessità delle situazioni.
Credo, perciò, che essa dovrebbe continuare perché chiama in causa punti nevralgici del nostro sistema scolastico
Non ci vuole molto a rilevare che la questione riguarda non solo tutte le istituzioni scolastiche, gli alunni e loro famiglie ma anche la più vasta platea dell’opinione pubblica a cui non deve sfuggire quanto sia importante, in questo momento di disorientamento valoriale, ripensare la “questione educativa”, e dunque i diritti-doveri, la responsabilità , l’impegno, le regole di cittadinanza che messe insieme costituiranno il profilo qualitativo del nostro Paese.
E per entrare subito nel merito osservo innanzitutto che il discorso va articolato a seconda dei livelli scolastici e dell’età degli alunni, dei modelli orari ed anche dei contesti scolastici. Una cosa è l’impegno a casa che si deve chiedere ad uno studente delle Superiori, altra cosa è quello che riguarda un bambino della Primaria; una cosa è se siamo di fronte a modelli di scuola a “tempo pieno” o “prolungato” altra cosa sono gli orari ridotti all’osso e magari anche con l’ora di lezione contratta a 50 0 45 minuti.
Non mi appartiene l’idea di una scuola “leggera” tutta risolta all’interno degli orari e spazi scolastici e di una socializzazione non adeguatamente nutrita da conoscenze e saperi. Si può e si deve continuare a migliorare sempre di più il rapporto tra il soggetto che apprende, ciò che si deve apprendere (le materie – discipline ) e la capacità di mediazione esercitata dalla figura del docente, di modo che il ponte tra il soggetto e l’oggetto dell’apprendimento sia il più naturale possibile e fondato sulla più avanzata ricerca socio-psico-pedagogica.
A ciascuno la sua parte
Ma sono anche altrettanto convinto che l’apprendimento, affinché possa consolidarsi e diventare una padronanza, non possa sottrarsi ad uno sforzo che chiami in causa la volontà del soggetto e che implica capacità di disciplinarsi (o essere disciplinato) e anche una certa fatica e sacrificio. Il che significa impegno di riflessione e rielaborazione personale, se volete di rafforzamento e riorganizzazione in un dialogo con sé e dentro di sé, in cui rafforzando e rielaborando le conoscenze acquisite, si prende coscienza di ciò che si è appreso o che ancora non è chiaro, per poi riportarlo nella classe, per parlarne con l’insegnante e/o con i compagni. È esperienza di noi tutti che l’apprendere una cosa nuova, grande o piccola che sia, costituisce sempre una conquista, e come tale è sempre il frutto di impegno e volontà individuali che legano dialetticamente il dialogo con sé allo scambio collaborativo – cooperativo con gli altri, che siano i compagni di classe o, ad altri livelli, il gruppo di lavoro o di ricerca al quale partecipiamo.
Ma qui occorre ricordare che la discussione a cui ci riferiamo partiva dalla protesta , secondo me fondata, di una mamma che lamentava il fatto che la figlia, tornata dalla scuola alle 5 del pomeriggio, aveva ancora da svolgere compiti a casa per altre due – tre ore..
Ora situazioni del genere sono inaccettabili e direi inspiegabili, eppure accadono e perciò non possono non richiamare l’attenzione innanzitutto delle scuole e dei suoi responsabili. Il fatto è che nonostante tutto, tanti ammodernamenti restano di facciata e i vecchi modelli di insegnamento stanno sempre dietro l’angolo a rivelarci che da tempo ci siamo messi sulla triste strada che tende a dare quasi per scontato e come cosa normale la differenza che corre tra la scuola praticata e quella dichiarata. E’ evidente che una doppiezza di tale portata è alla base , insieme ad altre ataviche questioni irrisolte, di buona parte del malessere che si sta vivendo nelle scuole e tra le famiglie con punte di asprezze, talvolta sfociate in episodi davvero raccapriccianti. Sarebbe bene perciò se questa problematica, dopo i fuochi d’artificio di qualche giorno fa, non la si lasciasse cadere, e che le scuole , tutte, cogliessero l’occasione per una buona e seria riflessione sulla qualità delle relazioni che pratichiamo, sulla questione educativa nel nostro tempo, su un ripensamento e rilancio del rapporto scuola-famiglie.
I Pof o Ptof, le programmazioni, i vari piani di valutazione, i Pdm, etc., da soli non possono bastare a cambiare le vecchie pratiche didattiche perché poi certe abitudini, certi modi di lavorare spesso ritornano, anche perché certi ostacoli sono reali: il tempo è poco, le classi sono numerose e sempre più complesse, e gli adempimenti burocratici –firme, giustificazioni, comunicazioni, controlli- sono tanti ed implicano responsabilità non trascurabili. E buona cosa sarebbe quella di elaborare documenti meno ampollosi, più stringati, più realistici e per questo più veri ed attuabili, meno per l’apparire e più per l’agire.
Ed è in questo quadro che spesso il passato vince sul presente-futuro finendo con il rimandare alla famiglia – all’alunno da solo o aiutato dalla mamma -papà, quando possono- pezzi importanti degli apprendimenti, che non sono quelli circoscritti e fattibili del ripasso-rinforzo e della rielaborazione personale, ma sono veri compiti di comprensione e apprendimento che dovrebbero aprirsi e chiudersi anzitutto a scuola, sotto la guida e l’aiuto dell’insegnante. Insomma si tratta di rimettere a fuoco in modo più chiaro il che cosa si debba fare a scuola e che cosa a casa, in rapporto anche al tempo scuola che si è scelto.
Quando si demanda all’alunno ed alla mamma-papà pezzi di apprendimento, su cui non si è già lavorato e non ci si è esercitati prima in classe, vuol dire che siamo di fronte ad una scuola che non risponde adeguatamente al suo compito, che la sua azione è incompleta ed ingiusta, che dichiara di essere scuola di tutti e di ciascuno, operativa e laboratoriale, ma poi nei fatti è ancora appesa alla vecchia triade dei tempi passati, statica e rigida: verifica-interrogazione sui compiti fatti a casa e, nel poco tempo che rimane, spiegazione frontale e , in fretta, l’”assegno” dei nuovi compiti da fare a casa …
Appare chiaro, in situazioni siffatte, quanto risultino declamatorie e fuorvianti le suggestive auto-dichiarazioni di scuola flessibile e attiva, che intende mettere al centro degli apprendimenti gli alunni e le loro diversità, peculiarità e bisogni. Né ci può mettere in pace più di tanto il fatto che il quadro delle situazioni è differenziato e che accanto a sacche di arretratezza esistono realtà educative pregevoli, e che il modello vecchio stile, pur senza generalizzare, è meno presente nella scuola di base.
Anzi sarebbe tempo che i decisori politici del sistema scuola si impegnassero ad intercettare e contrastare : i segnali di crescente differenziazione nei “modus operandi” prodotti da variabili “casuali” che rendono incerti i diritti-doveri; la divaricazione tra le scuole anch’essa crescente, inerente la qualità dei servizi scolastici e che rispecchia passivamente gli squilibri territoriali, sociali e culturali esistenti: divaricazione che si subisce troppo passivamente e verso cui bisognerebbe intervenire con supporti e rafforzamenti tali da invertire la rotta, stimolare processi di riqualificazione, accorciare le distanze e rendere più omogeneo il sistema scolastico e con esso il sistema-Paese.
Ripensare “la questione educativa” e il patto di collaborazione scuola-famiglie
A questa situazione difficile in sé si aggiunge il clima generale, e in esso le trasformazioni che stanno riguardando le famiglie e i genitori, spesso accompagnate da disorientamento ed eccessi di lassismo, a cui da parte delle scuole si finisce con il rispondere talvolta con facili cedimenti, talvolta con chiusure ingiustificate o con nette ed improduttive contrapposizioni.
Per tutto questo urge veramente che la “questione educativa” venga posta all’attenzione dell’intera società, di tutti noi e non solo delle scuole e delle famiglie per ripensare insieme i diritti e i doveri, la responsabilità, gli impegni piccoli o grandi in rapporto all’età entro cui debba svolgersi la vita delle nuove generazioni.
Ricostruire un nuovo tessuto educativo non è impresa da poco e richiede necessariamente tempo e “ritrovamento” di noi stessi in una società che corre tanto, ma non sa bene in che direzione…
Ciò che è certo , comunque, è che non si può rimanere a lungo con le mani in mano. Qualcosa si può cominciare a fare, ora e subito.
Nelle scuole esiste da tempo uno strumento che viene elaborato dai Consigli di Istituto con la componente genitori ed è “Il Patto di corresponsabilità educativa” – richiamato opportunamente in qualche intervento sulla discussione in corso. Ma quanto esso è veramente divulgato, rivisitato e reso vivo nella pratica quotidiana? Eppure la querelle dei compiti sì, dei compiti no o, meglio, dei “compiti come” dovrebbe trovare un momento di chiarificazione, accordo e condivisione proprio in esso. Certo i casi estremi, quelli deprecabilissimi riportati tristemente dalle cronache , non finiranno ma per essi ci sono le leggi che vanno richiamate ed applicate. Insomma il patto di collaborazione con le famiglie è davvero uno strumento irrinunciabile, a lla cui stesura coinvolgere non solo i genitori del C.I., ma anche i rappresentanti di classe, gli studenti, le associazioni dei genitori laddove presenti e le stesse comunità locali. Ma la condizione indispensabile è che in esso si creda davvero, investendo il tempo e le energie necessarie. Le scuole e le famiglie ne otterrebbero certamente un ritorno positivo, recuperando fiducia reciproca, riducendo incomprensioni e contrasti e l’aria sarebbe per tutti più respirabile. Non risolveremmo tutto, ma qualche passo in avanti lo faremmo.