Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per l’Istruzione
Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e la Comunicazione
Ai Direttori Generali Regionali
Loro Sedi
Ai Dirigenti degli Uffici scolastici provinciali
Loro Sedi
Al Sovrintendente Scolastico per la Provincia di Bolzano
Bolzano
Al Sovrintendente Scolastico per la Provincia di Trento
Trento
Al Sovrintendente degli studi per la Regione Valle D’Aosta
All’ Intendente Scolastico per la Scuola in lingua tedesca
Bolzano
All’ Intendente Scolastico per la Scuola Località Ladine
Bolzano
Oggetto: Concorso “Un Ospedale con più sollievo”
La Fondazione Gigi Ghirotti indice la V edizione del concorso “Un ospedale con più sollievo” rivolto esclusivamente agli alunni della V classe della scuola primaria, della III classe della scuola secondaria di primo grado, delle classi del primo biennio della scuola secondaria di II grado e alle classi delle sezioni ospedaliere di ogni ordine e grado nonché agli studenti dei corsi di laurea in materie umanistiche.
L’obiettivo del concorso è sensibilizzare gli studenti, i docenti e le famiglie sul tema del “sollievo” inteso non come la negazione del dolore fisico ma come sostegno amorevole, psicologico e spirituale al malato.
Tutte le informazioni riguardanti le modalità di partecipazione, le caratteristiche degli elaborati e i premi previsti si trovano nel bando di concorso allegato alla presente. Data la rilevanza dell’iniziativa si pregano le SS.LL. di darne la massima diffusione.
Per ulteriori informazioni potete contattare il numero 06/58493997
Il Direttore Generale
F.to Massimo Zennaro
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Concorso Nazionale
“Un ospedale con più Sollievo”
V edizione
organizzano
Fondazione Gigi Ghirotti
UCIIM
Associazione Professionale Cattolica Italiana di Docenti, Dirigenti e Formatori
Fondazione Alessandra Bisceglia – W ALE
In collaborazione con
Università Cattolica del Sacro Cuore
Associazione Culturale Attilio Romanini
A.I.I.R.O.
Associazione Italiana Infermieri di Radioterapia Oncologica
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Presentazione
È opinione diffusa che la Sanità nel nostro Paese, mentre risulta in continua crescita nei suoi aspetti tecnologici, sembra al contrario ridurre la sua dimensione umana nel difficile rapporto fra operatori sanitari e pazienti.
Mentre la moderna Medicina, sempre più basata su metodi scientifici rigorosi (medicina delle evidenze) sta registrando risultati molto positivi in tutte le sue specializzazioni, più che mai si avverte una insoddisfazione diffusa e crescente da parte di coloro che sono destinati a beneficiare di tali risultati: i pazienti ed i loro familiari. I vari episodi di malasanità, puntualmente oggetto di ampia diffusione da parte dei media, sono almeno in parte espressione di questi sentimenti. La superspecializzazione e soprattutto la crescita tumultuosa delle applicazioni tecnologiche se, da un lato, interessano quasi morbosamente i pazienti ed i loro familiari sempre più “informati” ed esigenti, dall’altro facilitano questa sensazione di abbandono ad opera degli operatori sanitari.
Per esaltare e far crescere nella coscienza collettiva, nell’ambito di questa relazione di aiuto, il valore insostituibile del “sollievo” inteso non come negazione definitiva del dolore fisico ma piuttosto come sostegno sollecito ed amorevole, psicologico e spirituale al malato, specie se cronico in evoluzione di malattia, da anni si celebra, sia pure in maniera alquanto disomogenea, una lodevole iniziativa nel nostro Paese. Si tratta della GIORNATA NAZIONALE DEL SOLLIEVO, promossa dalla Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti insieme al Ministero della Sanità ed alla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, istituita con decreto del presidente del Consiglio nel 2001, celebrata l’ultima domenica di Maggio.
Vista la tendenza ad applicare anche nel nostro Paese modelli di assistenza che privilegiano competenza, appropriatezza ed economicità delle cure sui sentimenti di condivisione del disagio altrui, è urgente trasferire tale consapevolezza al mondo dei “provvisoriamente sani”, cominciando dalla scuola, fin dal livello primario, affinché siano sensibilizzati a tale tema: gli alunni, le loro famiglie e gli stessi insegnanti.
Di seguito ci piace riportare il testo della “Lettera al Malato” che Nicasia Teresi, Direttore generale della Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti, ha composto in occasione della 1a Giornata:
Caro paziente, eroe sconosciuto dai mille volti che si sovrappongono nella memoria, vorrei sentire la tua voce in questa Giornata dedicata a te. Caro amico, grazie per la pazienza che mi hai insegnato quando ascoltavi le ruote di quel carrello spinto lungo un corridoio infinito, quando si fermava nelle stanze vicine, contando quanto avrebbe impiegato a raggiungere la tua stanza con la soluzione a quel dolore. A volte hai aspettato con silenziosa dignità il tuo turno, altre volte hai urlato il tuo bisogno impellente suonando insistentemente quel gracchiante campanello che disturbava l’udito, ma non scuoteva le coscienze. “Non si agiti, stia calmo, un po’ di pazienza, di educazione….” Parole facili, scontate, a volte taglienti… é un “sano” che parla.
Quante notti insonni trascorri in cui la luce dell’alba sembra non arrivare mai, lunghe notti in cui ricordi, angosce, paure si intrecciano in ragnatele inestricabili! Grazie per il grato sorriso che mi hai regalato, in una calda giornata estiva, per un
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
po’ di acqua fresca. Grazie per avermi onorato dalla tua amicizia e confidenza raccontandomi frammenti della tua vita. Ho pianto con te, abbiamo riso insieme su storie buffe a volte inventate solo per evadere da quell’angoscia; ho stretto la tua mano, tu hai stretto la mia. Grazie per avere arrestato le mie stressate e insensate corse del quotidiano ed avermi insegnato a fermarmi per assaporare la gioia di ogni attimo del tempo che scorre. Nonostante il tempo trascorso insieme, io sono “sana” e scopro di non poter capire fino in fondo i tuoi bisogni, le tue angosce, il tuo dolore.
La tua intimità e il tuo corpo violato da tante mani sconosciute. In palazzi, in stanze colme di sapienza si parla di te, del tuo dolore, dei tuoi bisogni. Si decide, si giudica e a volte… ci si “commuove”. Si scrive la tua storia a volte solo per potere o per interessi personali. Caro amico, forse non posso comprenderti fino in fondo, ma se vuoi ecco la mia mano, stringila, ti aiuterò a salire sul palco, chiederò ai dotti di tacere. Oggi vogliamo ascoltare solo la tua voce. Tu hai diritto di essere ascoltato.
Perché solo tu sai e puoi dirci di che cosa hai bisogno.
Per sensibilizzare allo spirito originario della Giornata del Sollievo, una delle iniziative a livello nazionale coinvolge il settore dell’istruzione primaria e secondaria attraverso un concorso che sollecita la creatività di bambini e adolescenti.
Il concorso è rivolto anche a bambini e ragazzi che, vivendo una situazione di ospedalizzazione, frequentano le scuole di ogni ordine e grado operanti presso strutture ospedaliere. Ciò nella consapevolezza che, se è urgente sensibilizzare il mondo dei “provvisoriamente sani”, ancora più pregnante è dar voce a chi, bambino o ragazzo, vive in prima persona la situazione di disagio e può, a maggior ragione, indicare con la creatività, strategie per il sollievo da tale disagio.
www.laretedelsollievo.net
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Regolamento
Art.1
Lo scopo del concorso è quello di sensibilizzare alunni, docenti e famiglie sul tema del Sollievo, inteso non come la negazione definitiva del dolore fisico, ma piuttosto come sostegno sollecito ed amorevole nel dolore fisico, psicologico e spirituale al malato specie se cronico in evoluzione di malattia.
Art.2
Il concorso è riservato esclusivamente agli alunni/studenti di:
V classe della scuola primaria.
III classe della scuola secondaria di primo grado.
Classi del primo biennio della scuola superiore.
Classi delle sezioni ospedaliere di ogni ordine e grado.
Corsi di laurea universitari in materie umanistiche.
Art.3
Gli elaborati devono riguardare la tematica del sollievo e consistono in:
• V classe della scuola primaria: prodotto iconografico o testo.
• III classe della scuola secondaria di primo grado: un prodotto iconografico con didascalie esplicative oppure un fumetto.
• Primo biennio della scuola superiore: videoclip.
• Per la scuola ospedaliera: prodotto iconografico o testo o videoclip.
• Per la sezione universitaria, elaborato scritto e iconografico: una fiaba illustrata per bambini sulla tematica del sollievo e del sorriso.
Art.4
Caratteristiche degli elaborati che possono essere individuali o di gruppo:
• Il prodotto iconografico può essere un disegno o una composizione arricchita da ritagli di giornali, illustrazioni, fotografie, fumetti. Può essere accompagnato da una breve descrizione dell’elaborato.
• Il testo (poesia, prosa, filastrocca, altro) non deve superare i 600 caratteri (spazi esclusi).
• Il videoclip: deve essere in formato video-DVD (16/9 o 4/3) della durata massima di 1,5 minuti (compresi l’introduzione e i titoli di coda).
• Le scuole ospedaliere dovranno inviare, insieme all’elaborato, un elenco di materiale o attrezzature finalizzate al miglioramento dell’attività didattica.
• La fiaba illustrata non deve superare le otto cartelle.
Art.5
È obbligatorio partecipare al concorso con un solo elaborato per classe scolastica o per studente universitario.
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Art.6
Gli elaborati dovranno pervenire, entro e non oltre il 15 aprile 2011, a:
Fondazione Nazionale “Gigi Ghirotti”
Via Fratelli Ruspoli, 2
00198 Roma
Art.7
Il videoclip dovrà essere spedito per posta ordinaria, masterizzato su supporti ottici DVD o CD.
Art.8
Il plico degli elaborati, che non deve essere firmato, né deve evidenziare il nome dei concorrenti o della Scuola di provenienza, dovrà contenere, in busta chiusa non intestata: una scheda indicante i riferimenti della Scuola che partecipa al concorso (Denominazione, Via, Città, C.A.P., Telefono), del dirigente scolastico, dell’insegnante che ha guidato gli alunni nell’elaborazione dei lavori (Cognome e nome, Via, Città, C.A.P., telefono) e l’elenco degli alunni che hanno partecipato al lavoro (come scheda allegata in ultima pagina); nominativo dello studente universitario, corso ed anno di laurea frequentato, università d’appartenenza e recapito telefonico.
Art. 9
Il giudizio della giuria, che è composta da rappresentanti delle organizzazioni promotrici, è insindacabile.
Art.10
Sono posti in palio cinque premi, quattro offerti dalla Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti, uno dalla Fondazione Alessandra Bisceglia, da assegnare come segue:
1 premio di € 500,00 al miglior elaborato prodotto dagli alunni della V classe della scuola primaria;
1 premio di € 500,00 al miglior elaborato prodotto dagli alunni della III classe della scuola secondaria di primo grado;
1 premio di € 500,00, intitolato a “Anna Maria Verna”, al miglior elaborato prodotto dagli alunni del primo biennio della scuola superiore.
1 premio di € 500,00 massimo, destinato esclusivamente all’acquisto del materiale o delle attrezzature indicate nell’elenco di cui all’art.4, per il miglior elaborato iconografico o testuale o video prodotto dagli alunni della scuola ospedaliera.
1 premio di € 500,00, intitolato ad “Alessandra Bisceglia”, destinato alla migliore fiaba prodotta da uno o più studenti universitari.
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Alla scuola di appartenenza degli alunni vincitori verrà assegnata la targa della Giornata Nazionale del Sollievo. Agli insegnanti che hanno curato gli elaborati dei vincitori verrà attribuita una medaglia di riconoscimento. A tutti gli studenti che parteciperanno al concorso verrà rilasciato il diploma di partecipazione.
Alla scuola che avrà partecipato con più elaborati verrà consegnata una targa di riconoscimento. I premi e i diplomi si ritirano personalmente.
Art.11
Le buste contenenti le schede di partecipazione verranno aperte a premio assegnato e verrà data notizia dell’esito agli organi di informazione ed agli interessati con lettera personale.
Art.12
Gli elaborati pervenuti resteranno di proprietà della Fondazione Gigi Ghirotti, dell’U.C.I.I.M. e dell’Associazione Culturale Attilio Romanini, che si riservano la possibilità di pubblicarli successivamente.
Art.13
La cerimonia di premiazione avrà luogo al Policlinico “Agostino Gemelli” durante la celebrazione della X Giornata Nazionale del Sollievo (29 maggio 2011).
Art.14
La partecipazione al concorso comporta l’incondizionata accettazione di tutti gli articoli del presente regolamento. 5
Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Approfondimenti
Lungo viaggio nel tunnel della malattia
Nel 1972 il famoso giornalista Gigi Ghirotti si ammalò di una grave malattia del sangue, un tumore chiamato “linfoma di Hodgkin”, oggi di questa malattia si può anche guarire, ma negli anni in cui si ammalò Gigi Ghirotti non c’erano ancora farmaci e cure efficaci. Lui sapeva della gravità della malattia e anziché abbattersi e chiudersi in se stesso rinunciando alla vita, decise di impegnarsi e lottare fino in fondo. Era giornalista, e quindi il modo migliore di affrontare questo periodo difficile della sua vita, ritenne fosse quello di continuare a fare il proprio lavoro. Ghirotti in tanti anni di lavoro era stato inviato in varie città e regioni italiane per raccogliere direttamente informazioni sulle più svariate questioni o eventi e scrivere articoli e inchieste. Così gli italiani potevano essere informati e conoscere molte realtà della nostra Italia senza che si spostassero da casa, ma grazie all’occhio attento e la capacità narrativa di Gigi Ghirotti. Ebbene, ammalatosi, Ghirotti decise di continuare a fare l’inviato speciale, ad informare gli italiani, questa volta dai luoghi che, diceva Ghirotti, si incontrano attraversando “il lungo tunnel della malattia”. Da bravo giornalista e cronista fece conoscere agli italiani, attraverso i giornali e la televisione, ciò che accade a chi, suo malgrado, si ammala ed è costretto a farsi curare negli ospedali.
Ghirotti ha aperto all’Italia di quegli anni una finestra sul mondo del malato e della malattia e ha indicato tante questioni e problemi da conoscere, affrontare e risolvere. Ha indicato tanti ostacoli al sollievo dalla sofferenza; un sollievo che per essere vissuto, non ha solo bisogno della liberazione dal dolore fisico o da altri sintomi, ma anche di rispetto della persona malata, della vicinanza di persone care, di medici e infermieri che sanno relazionarsi con attenzione e cura, di speranza. Alcune frasi raccolte qua e là da quello che ha scritto e detto Ghirotti possono aiutarci a capire cosa vuole realmente la persona malata e come vive nella sua condizione di fragilità.
Quello che importa, sia durante la vita, sia di fronte alla morte, è non sentirsi abbandonati e soli.
Mi trovo impegnato in una partita difficile, su terreno fangoso, con un avversario che è furbo e anche sleale. Ma non sono solo. C’è mia moglie, Mariangela, che mi aiuta, mi dà fiducia, mi dà il braccio se vacillo. […], finché dura l’incontro, ogni possibilità è sospesa: non ho vinto io, ma nemmeno lui, siamo pari. E vero, il signor Hodgkin deve tirare il suo terribile calcio di rigore. È pauroso pensarci, ma in fin dei conti anche i più famosi campioni talvolta sbagliano il rigore. E in ogni caso è giusto che quel pallone mi trovi sulla porta, quando arriverà.
Non abbiate paura di disturbare. Una volta si usava girare in punta di piedi attorno all’ospedale. Ma è un’usanza sparita da un pezzo: adesso pare che gli indici più drammatici della rumorosità urbana si vadano registrando appunto in coincidenza
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
con gli ospedali. Non fatevi scrupoli, dunque, per il “disturbo”; l’importante è che il malato non sia lasciato solo.
Gli ospedali sono pieni di bambini infelici, la cui infelicità è accresciuta dalla mancanza di amicizie e di collegamenti con i coetanei in buona salute. […] Qualcosa anche uno scolaro può già fare: andando per esempio negli ospedali alla ricerca dei piccoli ricoverati. Per conoscerli, per sentire se, ad esempio, volessero praticare lo scambio delle figurine.
Il messaggio di Gigi Ghirotti continua ancora oggi anche senza di lui, grazie alla Fondazione Nazionale che porta il suo nome. La Fondazione Ghirotti è convinta che il sollievo è raggiungibile anche nelle malattie più gravi e invalidanti; anche quando non è possibile guarire. Lungo la strada che porta al sollievo si incontrano: terapie e cure del dolore e della sofferenza, il generoso e gratuito aiuto di volontari, l’ascolto di persone esperte come psicologi, il facile accesso ai servizi sociali e sanitari e soprattutto l’affettuosa presenza di persone care accanto al malato.
Alcuni malati hanno raccontato alla Fondazione Gigi Ghirotti come si sentono quando sperimentano il sollievo:
Sollievo è uno spiraglio di luce che si fa strada in mezzo a tanta sofferenza.
Dopo tanto buio, tanto dolore e paura ho incominciato a vedere il mondo in bianco e nero, ho iniziato a respirare. Oggi c’è colore, ci sono i profumi nel mio mondo e… ci sono io.
Il sollievo è la quiete dopo la tempesta.
Il sollievo è riprendere fiato.
Per me sollievo è essere compresa e coccolata e parlare con qualcuno che mi capisca.
È la voglia di vivere dopo il dolore è come una grossa nube che va via dopo il dolore.
Il sollievo per me è sentirmi libero e leggero da ogni dolore fisico e morale.
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Il CALORE DI UN SORRISO
Alessandra Bisceglia, nasce a Venosa (Potenza) il 30 ottobre 1980, giornalista, autrice televisiva. Affetta, fin dalla nascita, da una malformazione vascolare gravissima e rara, che in fase adolescenziale l’ha costretta su una sedia a rotelle, comincia la sua battaglia insieme alla sua famiglia con determinazione, dignità, coraggio e costanza superando problemi quotidiani e ostacoli di ogni genere. Come diceva Alessandra “sono le condizioni peggiori a rendere le situazioni straordinarie”. E lei era straordinaria per il suo modo di reagire alle negatività della vita. E’ proprio in uno dei suoi racconti che scrive: “Ho capito che c’è un tempo per tutto… per arrivare a queste conclusioni nella mia vita ho dovuto combattere per tutto il tempo…”.
Il 3 settembre a soli 28 anni, “ha lasciato le rotelle per mettere le ali” e ricordarla è il modo più bello che abbiamo oggi per ritrovarla accanto a noi, sentirla vicina e averla come guida silenziosa. La sua è una storia comune a molti giovani che scelgono di costruire la propria professionalità lontano dalla propria città di origine, scegliendo le università più prestigiose, perseguendo i propri obiettivi con tanta determinazione.
Quella di Alessandra è anche la storia speciale di una ragazza che ha trascorso molti momenti della sua vita in ospedale, che ha dovuto combattere ed abbattere barriere architettoniche e culturali, che ha dovuto organizzare la propria quotidianità anche in funzione della presenza di servizi e luoghi “accessibili”. Eppure è riuscita a frequentare la facoltà universitaria che aveva scelto (e che oggi grazie alle sue battaglie ha un servizio di trasporto per disabili), a trasferirsi a Roma, a realizzare il sogno di diventare giornalista.
Determinata nelle scelte, forte nelle difficoltà, serena nel suo guscio familiare Alessandra è un esempio di vitalità per tutti noi che spesso ci perdiamo dietro ad un naso storto o un brufolo di troppo.
L’aggettivo che viene in mente pensando ad Alessandra è…….Straordinaria. Straordinario era il suo sorriso, capace di sussistere nonostante tutto, tutte le sue sofferenze erano annullate, inesistenti, invisibili anche a chi ne conosceva mole e fattezze.
Chi ha avuto la fortuna di conoscerla e ancor di più essere “amica adorata” di Alessandra dice di lei: “aveva una grande capacità di ascoltare, di cogliere occasioni, di inserirsi in ogni circostanza con l’armonia e la consapevolezza del momento che viveva. Entrava in modo tranquillo in ogni situazione dando forza a chi lavorava con lei, aiutando a credere che di fronte ai problemi si può lottare e farcela. È il messaggio forte che ha distribuito insieme all’amore, alla familiarità tra le persone, un messaggio che non deve andare disperso” (Lorenza Lei).
Chi invece l’ha conosciuta attraverso i suoi scritti, i servizi, il progetto, le testimonianze di amici, dice di lei: ”mi ha arricchito, mi ha suggerito pazienza nell’affrontare situazioni e momenti delicati, mi ha insegnato a perseverare, a non lasciarmi abbattere, a cercare strade diverse da quelle solite, che non portano da nessuna parte. Mi ha fatto scoprire persone, tante, che hanno a cuore il bene di se stessi insieme a quello degli altri, che vogliono diffondere ed ampliare un pensiero, fare del bene a chi è stato meno fortunato, mettersi al servizio di chi chiede, a volte in silenzio, aiuto”( Lorena Fiorini).
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
È un esempio grande e semplice quello di Alessandra Bisceglia, giornalista, autrice televisiva, giovane donna dotata di grandi capacità professionali ed umane, oltre che di un talento e un coraggio fuori dal comune.
Alessandra ci ha fatto vivere un’esperienza meravigliosa e ci ha insegnato che ogni difficoltà è superabile, ma soprattutto ci insegna a vivere e a soffrire, a lottare e a riuscire, e che non bisogna essere grandi eroi per vincere le battaglie, ma basta apprezzare la vita e non smettere mai di sognare.
Ha dimostrato che con l’impegno, la determinazione, la tenacia è possibile “farcela nonostante tutto”.
Alessandra lascia un’eredità preziosa…. Continua a brillare e la sua luce trasmette calore ed energia per altre storie, altre vite….
Ha sempre guardato alla vita con gioia ed entusiasmo, sfidando il modo tradizionale di vivere la disabilità, combattendo i pregiudizi e superando tutti gli ostacoli, raggiungendo mete che le sembravano negate.
Numerose sono le testimonianze che parlano di lei: amici, colleghi, parenti, persone che hanno avuto la fortuna di essere accarezzati da quel sorriso che li aveva conquistati tutti!
Come la ricorda Lorena Bianchetti “ la sua vita è stata una carezza di Dio agli altri”. E il dono di quella carezza oggi può essere forza per tutti noi!
Grazie ad Alessandra, al suo sorriso, tutti noi ci carichiamo di energia per dare spazio al dono. È lei che ci invita a fare qualcosa per gli altri, lei che non ha mai fatto le cose solo per se stessa, e che qualsiasi cosa abbia fatto lo ha sempre fatto pensando che poteva essere utile anche agli altri.
Una fondazione oggi ricorda Alessandra.
Fortemente voluta dai suoi amici più cari, la Fondazione Alessandra Bisceglia W ALE Onlus si fa promotrice di attività di ricerca sulle anomalie vascolari in campo pediatrico per approfondire la comprensione della patologia ed elevare le possibilità terapeutiche, ma anche formando specialisti per conoscere e studiare malattie rare e più semplicemente per aiutare chi vive nella difficoltà e non sa a chi rivolgersi.
Il destino non è una catena
Ma un volo…
E da giornalista ho iniziato a volare…
In radio a 28 minuti,
poi ho iniziato a muovermi nell’aria
del Corriere della Sera,
Mi manda Rai Tre.
E ancora nel “cielo stellato” del TG2.
Nuove emozioni poi nel pianeta
Di “Ragazzi c’è Voyager”e “Domenica In”
E ora eccomi qua…Il volo continua….
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Una breve riflessione sulla sofferenza
Giovanni Villarossa
dirigente scolastico – presidente nazionale UCIIM
La sofferenza è legata alle caratteristiche psicofisiche di ogni singola persona, le reazioni al dolore dipendono della sua sensibilità, del suo carattere, della tipologia di lavoro che esercita o ha esercitato, dallo stile di vita che conduce e dai principi etico-religiosi a cui si ispira.
La reattività al dolore è rapportata alla tipologia del dolore stesso che può essere fisico, psichico, della coscienza o dell’anima.
A seconda della persona si hanno risposte di diversa intensità sul piano etico, esistenziale ed ontologico.
La presenza del dolore crea un turbamento nell’equilibrio della persona.
Quando il dolore è fisico si hanno reazioni psico-fisiche tipiche del mondo animale; quando è psichico vengono coinvolti aspetti specifici dell’uomo e crea reazioni di tipo umorale e comportamentale; quando è della coscienza siamo ancor più nella specificità umana e le reazioni sono di tipo intellettuale ad una riflessione problematica del proprio agire etico e dei propri orientamenti esistenziali; quando è dell’anima coinvolge la spiritualità dell’uomo ed è frutto del peccato verso Dio e verso il prossimo.
La sofferenza fa scoprire all’uomo i propri limiti e la capacità di rifiutarla, sopportarla o accettarla.
Il rifiuto comporta abbattimento, isolamento o ribellione al proprio stato.
La sopportazione è frutto della presa d’atto di una condizione che va comunque vissuta.
L’accettazione è consapevolezza, valorizzazione del dolore e affinamento della propria sensibilità e spiritualità.
Le attuali terapie mediche del dolore si sono correlate alla psicologia medica, che studia le reazioni del singolo paziente, per contenere il suo dolore entro limiti sopportabili.
La conoscenza dei fattori che concorrono alla genesi del dolore consente alla medicina di ottenere livelli di miglioramento della qualità della vita anche in pazienti affetti da inguaribili malattie.
La persona consapevole della propria condizione sofferente riesce meglio a pervenire alla presa di coscienza della sua intima essenza, infatti la frattura che coglie tra ciò a cui ha aspirato e l’impossibilità della realizzazione creatagli dalla sofferenza gli dà la misura del limite della propria corporeità e la percezione della precarietà di una vita non necessariamente corrispondente alle attese in essa riposte.
Ma lo sperimentare direttamente la fragilità dell’esistenza, attraverso la sofferenza, se si accompagna alla difficoltà di riuscire a darle un senso, può diventare un dramma esistenziale, che aggiunge dolore a dolore.
Allora sorge il lamento sempre più intenso nei confronti di una Natura o di una condizione umana, che viene accusata di mancanza di logica e di giustizia.
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In alternativa la sofferenza è intesa come prova permessa da Dio per purificare e verificare la fedeltà dell’uomo. E diventa occasione di salvezza e di liberazione.
Nasce così la resa, la donazione di tutto se stesso a Dio, mistero insondabile.
La sofferenza va, allora, collocata nel piano di Dio, il cui agire nella storia è sempre imprevedibile ed inconoscibile.
L’esperienza della sofferenza può creare condizioni di apertura alla trascendenza, dove, forse, dopo tanto dolore, si può incontrare quel Dio, che a lungo si è cercato e dal quale ognuno è stato cercato.
Si attribuisce così una senso al vivere anche nelle situazioni più difficili, senza abdicare alla propria dignità di persona umana.
Soffrire davanti a Dio non va confuso con forme di ascetismo, con sopportazione stoica, con provvidenzialità del dolore, con rassegnazione.
Soffrire davanti a Dio è un chiedergli conto, è un consegnarli il proprio dolore o meglio un consegnarsi con il proprio dolore.
La presenza Dio accanto all’uomo, la sua compassione, è stata rivelata dalla passione di Cristo e dalla sua resurrezione che attestano la possibilità del superamento della sofferenza e della morte.
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Il rapporto con la sofferenza in prospettiva educativa e didattica: orientamenti per gli insegnanti
prof. Andrea Porcarelli
Consigliere Centrale UCIIM – Direttore Scientifico del Portale di Bioetica (www.portaledibioetica.it)
Un concorso come quello che ha a tema il “sollievo della sofferenza”, in rapporto al nostro modo di concepire anche il ruolo delle strutture ospedaliere e rapportarci con esse, può essere considerato come una significativa “occasione educativa” per mettere a tema alcune questioni di grandissima attualità, che – peraltro – sono state anche al centro di recenti e accesi dibattiti culturali.
Prima ancora di addentrarsi nel cuore della progettualità didattica un insegnante ha bisogno di mettere a fuoco alcune idee guida, la “posta in gioco” sul piano culturale, cercando – contestualmente – di farne emergere le potenzialità in prospettiva educativa. Scopo di queste brevi note è proprio quella di accompagnare quel momento di focalizzazione mentale che sta a monte della progettazione didattica e, in qualche misura, ne costituisce l’anima in senso profondo. Cercheremo dunque di tratteggiare – in prima battuta – una sintetica “mappa problematica” che possa offrire il senso della complessità delle questioni direttamente o indirettamente coinvolte (anche per non confondere realtà diverse, mediante sovrapposizioni indebite); ci soffermeremo poi sul tema della sofferenza, cercando di metterne in luce alcuni risvolti culturali più significativi in prospettiva educativa.
Una “mappa problematica” con diverse questioni che si intrecciano
La sofferenza come dimensione dell’esperienza umana
Dal punto di vista biologico la sofferenza rappresenta un “campanello d’allarme”, un indicatore mediante il quale gli organismi viventi e dotati di vita sensitiva reagiscono a situazioni che potrebbero essere nocive per loro e, pertanto, possono assumere comportamenti conseguenti per salvaguardare se stessi e la propria salute. Ovviamente la sofferenza non è solo di natura fisica, ma spesso si radica in problematiche di tipo psicologico e relazionale, che a loro volta retro-agiscono sulla stessa fisicità (somatizzazione), così come è possibile concepire dei dinamismi per cui alcune esperienze di privazione e di sofferenza sul piano fisico, si traducono in un irrobustimento del carattere e della personalità, portando benefici sul piano spirituale.
L’approccio medico, ma anche psicologico, alle diverse forme di sofferenza dipende pertanto da un’attenta considerazione delle condizioni complessive in cui si trova la persona con cui ci si rapporta e non può limitarsi a soluzioni affrettate e superficiali.
La terapia del dolore
L’approccio al problema del dolore, in medicina, ha avuto in tempi recenti una evoluzione, nel senso che – soprattutto nel caso dei malati cronici acuti – è stata sviluppata una vera e propria terapia del dolore, intesa non solo come una sorta di
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elemento “a latere” della terapia mirante alla cura della malattia, ma intesa come un complesso di interventi terapeutici che hanno la sintomatologia dolorosa come oggetto diretto. In realtà si tratta di una ripresa (in termini più moderni e con l’ausilio di conoscenze e tecniche più evolute) dell’antico detto della scuola salernitana: “divinum sedare dolorem”, che precisa uno degli elementi essenziali della medicina ippocratica.
Mettere a tema la morte senza banalizzarla
Dal punto di vista biologico la morte rappresenta la cessazione irreversibile delle funzioni vitali di un soggetto vivente, quindi sembrerebbe una nozione relativamente semplice. Ma nelle questioni complesse è bene non dare nulla per scontato, per cui quando parliamo – ad esempio – di eutanasia richiamiamo l’idea della morte come se fosse un concetto chiaro che ci aiuta a spiegarne uno più oscuro e pare che l’unico problema sia quello di stabilire se e a quali condizioni essa possa venir chiamata “buona”. In realtà parlare della morte non è così banale, essa non rappresenta un “dato immediato” dell’esperienza, ma un’interpretazione di alcuni segni visibili di una realtà che non si vede. Più ancora è complessa la questione dell’interpretazione “esistenziale” di ciò che abbiamo designato con il termine “morte”. Oggi si tende a banalizzare fortemente la morte, spesso “rimossa” dall’orizzonte delle nostre considerazioni, talora “spettacolarizzata” (con funzione probabilmente catartica), talaltra addirittura “ricercata” (si pensi ai “comportamenti a rischio” di alcuni adolescenti), ma in tutti questi casi destituita del suo profondo significato esistenziale, come “evento supremo”
In tema di accertamento di morte, al di là della problematicità stessa del termine, vi è stata un’evoluzione notevolissima delle metodiche, soprattutto in questi ultimi anni. Per secoli, per accertare l’avvenuta morte, si è utilizzato il criterio di constatare l’arresto dei battiti cardiaci e della respirazione; il che lasciava comunque aperto un certo margine di dubbio di cui gli stessi operatori erano consapevoli1. L’invenzione dei respiratori artificiali e l’approfondimento – da parte del personale curante – di pratiche come il massaggio cardiaco, hanno messo radicalmente in discussione tali criteri: grazie alle tecniche di rianimazione è possibile assicurare per settimane (o anche per mesi) la circolazione sanguigna, la respirazione, l’escrezione e il nutrimento di un organismo, ma si tratta di un essere umano ancora vivo o di tecniche che consentono il funzionamento di alcuni organi di un cadavere?
Negli anni 1955-1960 alcuni rianimatori si trovarono di fronte a casi particolarmente impressionanti di corpi umani che presentavano i segni evidenti della morte ma che, secondo i criteri allora ammessi, erano da considerare vivi: sussistevano respirazione e circolazione sanguigna. Apparve presto evidente che tali stati dipendevano da una distruzione irreversibile del cervello2, tanto che nel 1959,
1 Si pensi, ad esempio, al racconto evangelico circa le risurrezione di Lazzaro, in cui non solo si dice che l’amico era morto, ma che era sepolto da tre giorni e già “mandava cattivo odore” … in tal modo ogni possibile dubbio viene fugato.
2 Furono le autopsie effettuate su malati tenuti a lungo in vita artificialmente che consentirono di verificare che il cervello aveva già cessato da tempo le proprie funzioni. 13
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in occasione del XXIII Convegno neurologico internazionale3, fu resa la prima descrizione del coma dépassé o “morte cerebrale” (espressione decisamente più precisa e – per questo – preferibile). Infatti il termine “coma” indica una perdita prolungata dello stato di coscienza (il che si rileva soprattutto a livello di vita di relazione), ma non comporta l’abolizione della funzione di regolazione dell’organismo.
L’accompagnamento del morente
Il dolore fisico non è sempre l’elemento peggiore della condizione esistenziale del malato grave, spesso il problema è più profondo: parliamo di quel malessere dell’anima che caratterizza chi si avvicina al momento supremo della vita, soprattutto se ciò avviene sotto il segno della solitudine. La sofferenza e la morte vengono sempre affrontate “in prima persona”, nel senso che nel momento supremo ciascuno è fisiologicamente “solo”, ma questa esperienza (unica nella vita) diviene opprimente se viene affrontata in modo “solitario”, sentendosi abbandonati.
Diversi testi4 hanno preso in esame la condizione psicologica e relazionale del malato terminale, fino a tracciare una sorta di percorso in cui si collocano alcuni degli atteggiamenti più ricorrenti:
Il rifiuto. All’inizio la persona, pur essendo consapevole della gravità del suo male, tende a rifiutarlo, accusa i medici di essersi sbagliati, consulta altri sanitari, si impegna febbrilmente in nuove attività.
La collera. Non potendo negare la realtà alcuni malati reagiscono in modo aggressivo (“perché proprio a me?”), alcuni credenti sperimentano anche una fase di ribellione contro Dio.
La depressione. Può essere di due tipi: la depressione reattiva per cui non ci si rassegna alle menomazioni o limitazioni imposte dalla malattia, la depressione silenziosa, in cui il malato non vuole essere disturbato dagli amici o dai visitatori, ma desidera stare con una sola persona che si sieda al suo fianco e lo conforti.
L’accanimento terapeutico (medico)
Con il termine “accanimento terapeutico” si designò inizialmente il ricorso a terapie “sproporzionate” rispetto agli esiti possibili di guarigione o anche solo di recupero di funzionalità, ma tale indicazione risulta piuttosto vaga ed è oggi necessario precisare meglio. Anche lo stesso termine può essere messo in discussione: un’azione autenticamente “terapeutica” (cioè tale da rappresentare una cura efficace e proporzionata rispetto alle condizioni fisiche complessive di un determinato malato) può essere legittimamente “tenace” (non usiamo il termine “accanita”), mentre quando parliamo di “accanimento” è segno che l’azione che si sta compiendo – in quelle determinate condizioni – non è più autenticamente “terapeutica”, quindi si potrebbe addirittura preferire l’espressione accanimento medico, perché si allude ad
3 Cfr. Patrick VERSPIEREN, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985, p. 75 e sgg.
4 Cfr. E. KÜBLER – ROSS, La morte e il morire, Cittadella, Assisi 1976, ripresa anche da Patrick VERSPIEREN, Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985, p. 183 e sgg. 14
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un’azione di tipo medico, che non ha il rango di autentica terapia. Il rifiuto dell’accanimento medico trova concordi tanto coloro che si ispirano ad una concezione etica di tipo personalista (ivi incluso il Magistero della Chiesa cattolica), quanto coloro che fanno riferimento a concezioni materialiste o utilitariste: il vero problema è quello di stabilire la linea di confine tra una terapia legittima e doverosa (la cui mancata erogazione si configurerebbe come “abbandono terapeutico”) ed una terapia sproporzionata (accanimento medico).
La stessa questione si pone anche per le terapie rianimative, per cui si potrebbe parlare anche di “accanimento rianimativi”. Quando l’EEG è piatto si ammette la sconfitta, e si desiste da azioni di rianimazione che non farebbero altro che mantenere attiva la funzionalità di alcuni organi di un cadavere. Vi sono però dei casi (coma respiratorio o iperazotemico) in cui l’EEG non è piatto ed allora è necessario interrogarsi sulle possibilità reali di un recupero del paziente: se esiste uno scompenso funzionale di determinati organi, tale da rendere impossibile il recupero, allora le azioni terapeutiche ed anche le pratiche di rianimazione sono un semplice prolungamento di un’agonia già in corso.
L’eutanasia
Il termine, letteralmente, significa “bella morte” (dal greco eu = bene e thanatos = morte) o “buona morte” ed è stato utilizzato per secoli senza alcun riferimento alla pratica che oggi viene indicata con tale nome che, peraltro, era esplicitamente esclusa dal Giuramento di Ippocrate.
Solo alla fine del XIX secolo – in pieno clima culturale positivista – l’espressione eutanasia assume il nuovo significato di procurare una morte dolce … mettendo fine deliberatamente alla vita del malato. Il termine nel linguaggio bioetico contemporaneo ha assunto progressivamente due significati:
1.
(ormai in disuso) “l’intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talora con il rischio di sopprimere prematuramente una vita”,
2.
(prevalente) “un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni di chi la compie, procura la morte, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime sofferenze o di evitare il prolungarsi di una vita infelice, segnata da gravi handicap fisici o mentali”, sia che il soggetto risulti consenziente (se è capace di intendere e di volere al momento della richiesta), sia che egli non possa esprimere il proprio consenso (nel qual caso portatori della richiesta sono i parenti più stretti).
Spesso capita oggi di notare – nel dibattito bioetico – una sovrapposizione tra questioni di fatto diverse, come se la cosiddetta uccisione pietosa, potesse essere considerata una forma di “terapia del dolore” o peggio ancora un modo di “accompagnare” la persona gravemente ammalata verso la morte ormai imminente. La stessa confusione si realizza – a maggior ragione – nella comunicazione mediatica e più ancora nelle menti dei giovani che spesso trovano nei media la loro principale fonte non solo di informazione, ma anche di “formazione” di una
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mentalità e di un’opinione. In tale situazione si coglie con maggiore evidenza il ruolo chiarificatrice che può avere la scuola.
Il tema della sofferenza in prospettiva educativa
Brevi cenni su alcune linee di tendenza nella nostra cultura
Questi brevi cenni, data l’esiguità dello spazio che ad essi possiamo dedicare, hanno semplicemente la funzione di collocare le proposte di tipo didattico-formativo nel contesto di un’analisi culturale da cui non possiamo prescindere se vogliamo svolgere un’azione educativa efficace: i nostri ragazzi non sono dei marziani, provenienti da un altro mondo, ma sono persone che respirano a pieni polmoni la mentalità in cui sono immersi e la respirano proprio in quella stagione della vita in cui non hanno ancora quegli strumenti di discernimento critico che spetterebbe anche a noi aiutarli a formarsi.
L’incapacità di concepire la sofferenza
L’uomo d’oggi non è capace di concepire la sofferenza e cerca una sorta di raffinato equilibrio tra piaceri fisici e relazionali, “calcola” quali preferire in vista della propria utilità e fa di tutto per sfuggire la tristezza, la noia, il dolore: l’uomo ha paura del dolore, della sofferenza, della morte, ma come si difende da tutte queste cose che pure esistono? Per lo più si difende cercando di non pensarci, come suggeriva Epicuro: la morte non è nulla, il dolore si può sopportare …
Più ancora dobbiamo osservare come la nostra cultura dell’immagine ci presenti una sorta di mito dell’eterna giovinezza e per di più i nostri ritmi di vita sono sempre più assorbenti e fagocitano in modo impressionante le nostre energie e la nostra attenzione, tanto che per una persona mediamente attiva il livello di efficienza richiesto è notevolissimo: viviamo in una società in cui i ritmi di vita esigono un grado tale di efficienza che la malattia non è “prevista”, per cui chi si ammala (e mi riferisco soprattutto a chi si ammala in modo cronico e grave) si trova a dover fronteggiare una duplice sofferenza: 1) da un lato sperimenta la sofferenza fisica dovuta alla malattia (che, già di per sé, è qualcosa di fastidioso e seccante); 2) dall’altro lato poi sperimenta il senso di emarginazione sociale che la malattia oggi come oggi generalmente provoca e, visto che per lo più la nostra cultura tende a favorire una sorta di identificazione tra “identità personale” e ruolo sociale. La malattia porta anche a una progressiva perdita del senso del proprio ruolo sociale e, conseguentemente, sperimenta una crescente solitudine esistenziale.
La radice profonda dell’incapacità di soffrire va ricercata nella perdita della virtù della speranza: si vuole la ricetta sicura di un certo tipo di felicità; anche nell’età ellenistica si diffondeva tale sensibilità: si era perduta la capacità di gettare sull’universo uno sguardo meravigliato e attonito, perdeva terreno lo slancio speculativo del pensiero umano per ripiegare su problemi pratici, lo scibile veniva “incasellato” in sistemi rigidi e assoluti, l’agire affidato a poche semplici norme di facile attuazione e di sicura efficacia. Anche oggi si pretende qualcosa del genere: si esige che la scienza, la politica, la società creino presto un paradiso in terra e tale
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esigenza è tanto più urgente quanto più si è smesso di guardare con speranza verso il cielo.
Se poi ci spostiamo dalla percezione della sofferenza a quella della morte notiamo ancora di più le difficoltà della nostra cultura; è stato giustamente osservato come una visione secolarizzata della vita, prevalentemente orientata verso beni materiali di natura edonistica, riveli la propria incapacità di dare senso al dolore e alla morte e come tale incapacità si traduca in due atteggiamenti solo apparentemente opposti: “da una parte la si ignora e la si bandisce dalla coscienza, dalla cultura, dalla vita e, soprattutto, la si esclude come criterio veritativo e valutativo dell’esistenza quotidiana; d’altro canto la si anticipa per sfuggire al suo urto frontale con la coscienza”5. La morte si viene dunque a configurare come una sorta di tabù che dev’essere esorcizzato in vario modo (al limite “giocando” con la propria vita o con quella altrui).
Dall’incapacità all’intolleranza
Se è vero che l’uomo cerca di non pensare alla sofferenza è vero anche che, quando la incontra, non ha un atteggiamento positivo verso di essa: la sofferenza, in realtà fa più paura a chi la vede negli altri che a chi la sperimenta in se stesso. Chi vede qualcuno soffrire, mentre sta bene, viene subito turbato, viene colto dalla paura che qualcosa del genere potrebbe capitare anche a lui e questo “qualcosa” è particolarmente stridente rispetto alla situazione di relativo benessere in cui magari si trova. Chi invece sperimenta in se stesso il dolore e la sofferenza ha quanto meno la certezza “esistenziale” che ormai non la può evitare e allora tutti i suoi sforzi, pur con comprensibili momenti di sconforto, saranno volti a “reagire” contro le cause o gli effetti della propria sofferenza. La radice profonda dell’intolleranza verso chi soffre è proprio il fatto che vede in queste persone una sorta di attentato al proprio benessere, alla propria tranquillità, al proprio quieto vivere.
A questo punto è tragicamente facile capire come si arrivi a “sacrificare” ogni cosa sull’altare di questi idoli: un bambino sta per nascere segnato dal marchio della sofferenza? Meglio ucciderlo, non tanto per lui (che non ci guadagna granché), quanto per tutti gli altri, perché l’immagine della sua sofferenza non vada a disturbare il quadro patinato del loro benessere. Un vecchio sta avviandosi alla morte tra le sofferenze? Sarebbe meglio sopprimerlo, così il suo pianto di dolore non turberà la vita di chi ha estromesso il dolore dall’orizzonte della propria esperienza. Si noti che queste considerazioni hanno di mira solo il problema “culturale”, della precomprensione che la nostra civiltà da rivista patinata offre di fronte al dolore o alla sofferenza; non si vuole nemmeno prendere in considerazione il caso ancora più tragico, ma purtroppo non infrequente, in cui il motivo della scelta di sopprimere o emarginare chi soffre sia dovuto al puro e semplice egoismo di chi dovrebbe prendersene cura e non lo vuole fare.
5 Elio Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 1988, p. 466.
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Il valore della sofferenza
Abbiamo visto come i problemi più seri della nostra cultura siano, in fondo, quello di non sapere accettare la sofferenza e di aver perso la capacità di sperare; se dunque vogliamo accorrere in aiuto di questa cultura e di coloro che in essa maturano e crescono dovremo ridarle motivi di speranza ridarle motivo di capire il senso della sofferenza.
C’è un valore nella sofferenza dal punto di vista umano?
Non è facile, parlando in termini puramente umani, dar senso alla sofferenza, è difficile dire che essa sia un “valore”, qualcosa di bello in se stessa, ma possiamo tentare di intuire i motivi di una certa “ragionevolezza” in lei: durante un’alba in montagna, ad esempio, il nostro sguardo è attirato dal sole, dalle nubi che si tingono dei colori più svariati, ma non possiamo fare a meno di vedere i monti ancora parzialmente avvolti nell’oscurità perché anch’essi fanno parte allo stesso titolo dello stesso spettacolo; così di fronte al mistero della vita siamo attratti e affascinati dalla bellezza e dalla serenità, ma non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza, perché anche lei ci rivela qualcosa dell’esistenza umana. Per sommi capi cerchiamo di individuare (in funzione educativa) alcuni spunti per una “pedagogia della sofferenza”; ne elenco alcuni in modo schematico:
la sofferenza è parte dell’esperienza di vita, aiuta a crescere, rende “saggi”: chiunque ha affrontato delle difficoltà e delle prove si rende conto di esserne uscito “cresciuto”, similmente a quanto capita agli atleti, i cui allenamenti iniziano a diventare efficaci a partire dal momento in cui il loro fisico fa effettivamente fatica; la sofferenza è un “allenarsi a vivere” in modo attivo e reattivo, è un velato (anche se non sempre gradito) invito a trascendere se stessi ed i propri limiti;
la sofferenza è occasione d’amore, perché dà all’uomo la possibilità di “farsi prossimo” in modo concreto e tangibile del proprio fratello che soffre;
la morte pone di fronte al mistero della vita nella sua interezza: se non ci fosse questo appuntamento molti sarebbero tentati di “vivere alla giornata” senza vere motivi seri per mettere in dubbio quello che sia il modo migliore di vivere, senza fare “bilanci” e senza chiedersi come si sta spendendo la propria vita; la domanda è tanto più significativa quanto più prendiamo sul serio il fatto che di vita ne abbiamo una soltanto … e ad un certo punto finirà.
La sofferenza e la morte sono comunque sintomo che qualcosa non va, quasi un tacito richiamo all’altra realtà misteriosa che è quella del peccato ed al profondo bisogno di redenzione che bisognerebbe perlomeno riuscire a far intravvedere ai nostri ragazzi, in una cultura che tende ad ostracizzare il problema.
La sofferenza come “luogo d’incontro” dell’uomo con l’amore di Dio
Il mistero della Redenzione è un mistero di unione, dell’unione intima, amorosa e amichevole di Dio e degli uomini, che dopo il fatto del peccato deve avere una “modalità” tutta particolare, cioè quella della Redenzione. Prescindendo da una piena articolazione dei vari aspetti del mistero della Redenzione ci limitiamo a porre
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l’accento sul fatto che la sofferenza costituisce per più di un motivo il luogo d’incontro dell’uomo con l’amore di Dio:
1.
il Verbo di Dio assume fino in fondo la natura umana che vuole redimere, condivide “in tutto” fuorché nel peccato la condizione umana, e – per quanto concerne il peccato – ne assume il fardello accettando le conseguenze del peccato, cioè la sofferenza;
2.
la sofferenza di Cristo è anche l’aspetto attivo del suo amore per gli uomini (nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i nostri amici…);
Per sintetizzare tutto questo in un’immagine, possiamo paragonare la sofferenza al “luogo d’incontro” con l’amore di Dio, come una panchina, un parco in cui due innamorati si diedero appuntamento per la prima volta: il luogo in sé potrebbe non avere particolari attrattive, ma i due saranno ugualmente molto affezionati a quel luogo, perché è lì che è nato il loro amore ed in forza di questo amore ameranno anche quella povera panchina sbrecciata. Per questo possiamo dire che Cristo dà un nuovo significato al dolore e alla sofferenza: la via che porta al Padre passa attraverso Cristo, passa attraverso il suo insegnamento, attraverso il suo esempio, ma è una via che passa anche dalla cima del Calvario. Il mistero della sofferenza e della morte risulta dunque unito in modo ineffabile al cuore stesso del mistero d’amore che è Cristo: è dunque evidente quanto sia poco saggio disprezzare la sofferenza, emarginare chi soffre, uccidere chi si suppone che potrebbe soffrire: nel volto piangente di chi soffre sulla terra è impressa in modo indelebile l’impronta luminosa dell’amore di Dio e della Passione di Cristo.
In tale prospettiva acquista tutto il suo splendore quel “vangelo della vita” da cui la nostra cultura ha in qualche modo preso le distanze: riconoscendo il valore della vita come tale si coglie, all’interno di una considerazione analogica della gerarchia di perfezione delle diverse realtà viventi, il valore specifico della vita umana personale (in cui il credente non stenta a riconoscere impressa l’immagine del suo Creatore), tale valore però rischia di venire in parte offuscato dall’esperienza del dolore, della morte, dell’infelicità, del peccato: di fronte a tali realtà l’enigma dell’umana esistenza si fa più fitto, ma la nostra intelligenza si rifiuta di proclamarne irrevocabilmente il non-senso e, in qualche modo, ne “postula” un significato ad un livello superiore. Di fronte a questa aspirazione suprema dell’uomo la fede viene incontro all’umana ragione con la rivelazione del significato salvifico del dolore di Cristo che, liberando dal peccato, libera anche dalla sofferenza e dalla morte e conferisce un senso al nostro stesso soffrire terreno in attesa della promessa felicità futura.
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Umanizzazione ed organizzazione della cura ambulatoriale e domiciliare dell’ammalato oncologico
ATTI del Terzo Congresso Nazionale di Supportoterapia in Oncologia;
Roma 14 – 15 marzo 1984
Introduzione al congresso del Prof. Attilio Romanini (Ordinario di Radiologia e primo Direttore Sanitario del Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma)
Dieci anni fa, quando ci incontrammo nel primo corso convegno sulla Umanizzazione della Medicina, organizzato prima in Europa, dalla nostra Università, concentrammo la nostra attenzione sulle necessità di supporto, non sanitario, dell’ammalato ricoverato in ospedale. Quella riunione fu la scintilla da cui scaturì il volontariato clinico che tanto ha fatto tra noi ed ha portato qui a poco a poco al ricupero dei valori che sempre caratterizzavano il rapporto tra personale sanitario e ammalato. Rapporti che negli ultimi anni erano stati gravemente compromessi per l’avvento nei nostri ospedali della lotta politica e sindacale da un lato e della burocratizzazione dall’altro.
Questo riferimento ha uno scopo preciso, ci troviamo in presenza di una nuova crisi nella cura dell’ammalato, crisi che colpisce soprattutto l’ammalato inguaribile nella fase terminale della sua malattia.
I nostri ospedali infatti, progettati per l’assistenza all’ammalato acuto, sono poco adatti per la cura di questi ammalati che, in genere, non hanno bisogno tanto
di cure attive, quanto di una terapia di supporto e di tanto calore d’affetto umano.
Si tratta di assistenza sanitaria assai meno costosa di quella dell’ospedale per acuti e assai più gradita anche perché, l’esperienza ci insegna, che essa può esser data nella maggior parte dei casi, al domicilio dell’ammalato o in piccole strutture che per loro natura devono avere più affinità colla casa che coll’ospedale. si veda ad esempio l’esperienza degli “Hospice programs” in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Questo tipo di assistenza è stato incluso dal legislatore nella Riforma Sanitaria del 1978. si tratta però, come sappiamo, nel nostro caso, di una Riforma progettata da un architetto ardito ed antiveggente che peraltro, proprio per l’arditezza sua, ha messo non poco in difficoltà gli ingegneri che devono realizzarla. La difficoltà è particolarmente sentita perché non esistono in Italia sperimentazioni su cui potersi basare per l’attuazione su vasta scala.
Abbiamo ritenuto opportuno proporre questo argomento come oggetto del convegno di quest’anno, non solo per la sua urgenza ma anche e soprattutto perché il nostro gruppo raccoglie persone fortemente interessate ed impegnate nella realizzazione e proprio soltanto da professionisti autoresponsabilizzantisi come noi può nascere quella sperimentazione (atta a risolvere problemi magari parziali) che può fornire una conoscenza oggettiva a chi ha, per legge, il dovere di attuare, su tutto il territorio nazionale, quell’assistenza domiciliare e ambulatoriale strettamente integrata con quella ospedaliera, che forma uno dei concetti “fondamentali della Riforma Sanitaria in attuazione.
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Unità di Cura Continuativa (UCC)
Soluzione più umana ed economica per la cura dell’ammalato oncologico in fase terminale
Attilio Romanini; Rivista bimestrale: Progressi Clinici, 1988
L’indiscusso aumento di efficacia delle cure antiblastiche e di quelle di supporto consente oggi di guarire molti pazienti che quindici anni fa non avrebbero potuto esserlo ed inoltre di prolungare notevolmente la vita della maggior parte dei pazienti inguaribili.
La cura di questi ultimi si effettua nello spazio di parecchi mesi, quasi sempre di anni durante i quali si possono distinguere due fasi. La prima di relativo benessere durante la quale il paziente svolge una vita quasi normale, detta «fase di stato» e la seconda di più o meno rapido declino, durante la quale si assiste al più o meno rapido venir meno della possibilità di vita indipendente dapprima, e poi delle varie funzioni vitali dell’organismo.
Tutto ciò rende necessaria una impostazione terapeutica completamente differente da quella che deve essere tenuta nei pazienti in cui elevate sono le possibilità di ottenere una guarigione clinica durevole.
Da un lato infatti, è necessario attuare la terapia antiblastica con modalità tipicamente palliative, evitando cioè di determinare al paziente sofferenze, pur ottenendo una regressione della neoplasia, od almeno un rallentamento della sua evoluzione.
Dall’altro lato è ancora più necessario, se non addirittura indispensabile, attuare nel modo più completo le varie terapie di supporto così da assicurare al paziente una qualità di vita quanto migliore possibile.
Tra queste è indispensabile evitare all’ammalato un senso di solitudine; in particolare che egli abbia l’impressione di dover affrontare da solo la sua malattia, curato cioè or da questo or da quel gruppo di medici nessuno dei quali si sente responsabile di lui, di risolvere i suoi problemi.
Se questo è vero per ogni malattia ed anche nel campo oncologico per gli ammalati destinati a guarire, lo è in modo tragico per gli ammalati inguaribili.
In questi ammalati la necessità di integrare interventi specialistici differenti aggrava il problema che è reso ancor più attuale dall’illogica separazione oggi esistente anche da noi tra medicina domiciliare ed ospedaliera.
È estremamente opportuno che tutti gli ammalati inguaribili, ed in modo particolare quelli oncologici, siano curati da un’unica equipe sanitaria che sia in grado di assisterli sino alla loro morte, e nel con tempo sia in grado:
1)
di consentire loro, nella « fase di stato» della malattia, una vita rimanente quanto più gradevole e, a questa condizione, lunga possibile. (Prolungare la vita di un paziente senza essere in grado di alleviarne le sofferenze sarebbe crudeltà). Da questo principio è possibile derogare solo su espressa richiesta fatta dal paziente per motivi personali suoi, che il medico può sindacare solo sino al punto da essere certo che quella è realmente la volontà del suo paziente;
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di assicurare loro, nella «fase terminale» della malattia, non solo la soppressione dei dolori e la minimizzazione delle sofferenze non sopprimibili, ma anche il determinante supporto psicologico di sapere che pur nell’aggravarsi del proprio stato l’equipe terapeutica (che l’ha curato per anni, e è diventata perciò stesso gruppo di amici cui lui ha affidato la sua vita) non lo abbandona ora che chiaramente è destinato a morire, ma anzi rimane accanto a lui, responsabile della sua cura sino alla fine, amici attivamente accanto all’amico, che muore;
3)
di essere disponibile ed attrezzata a curarlo anche a casa sua
Per la maggior parte degli ammalati (e dei loro familiari) morire in ospedale è estremamente traumatizzante sia sul piano fisico che su quello psicologico.
Essi vi si rassegnano solo in quanto non esistono concrete possibilità di agevole cura domiciliare.
Se ciò attualmente si verifica ancora su vasta scala, pur essendo più costoso dell’assistenza specialistica domiciliare, è solo per un residuo della separazione tra cura domiciliare ed ospedaliera realizzata, per motivi organizzativo-finaziari, durante gli ultimi lustri della gestione INAM.
L’attuale legge sul Servizio Sanitario Nazionale stabilisce infatti l’unicità strutturale della cura dell’ammalato (nell’ambito dell’Unità Sanitaria Locale) e pertanto, sul piano concettuale, viene pienamente incontro al desiderio degli ammalati di essere curati a casa loro nella « fase terminale » della loro vita, e non nell’igienico e freddo squallore di una stanza d’ospedale.
Esistendo le premesse giuridiche è ora necessario realizzare praticamente questa modalità terapeutica.
A questo scopo è possibile far tesoro dell’ampia esperienza della cura domiciliare di questi pazienti attuata oltre oceano dagli Hospice Programs (Kutscher 1985).
La loro esperienza però non è trasferibile come tale in Italia sia per la grande differenza socio-psicologica esistente tra il nostro ed il loro modo di vivere che per l’ancor maggiore differenza tra le legislazioni sanitarie delle due nazioni.
Essa però può essere ampiamente utilizzata nell’integrare funzionalmente le nostre strutture sanitarie così da curare in modo unitario gli ammalati che lo desiderano; integrazione realizzabile mediante l’adattamento delle nostre strutture che va sotto il nome Unità di Cura Continuativa (UCC) e ha le seguenti caratteristiche:
a)
L’UCC ha come oggetto delle sue cure l’intero gruppo familiare e non il solo ammalato. Malato + familiari sono considerati un tutt’uno che va aiutato.
b)
L’UCC è la continuazione domiciliare delle cure che l’ospedale normalmente fornisce nelle degenze e nei day-hospital e che il medico di famiglia, da solo non è in grado di attuare.Essa consente anzi di dimettere precocemente il paziente in cura domiciliare e ricoverarlo nuovamente in modo altrettanto agevole quando nuova sintomatologia faccia ritenere opportune cure che solo l’ospedale può consentire.
c)
L’UCC non è né un reparto né una nuova specializzazione terapeutica. Essa infatti è essenzialmente una organizzazione di assistenza infermieristica e volontariale generica, che utilizza le competenze specialistiche più varie, integrandole al fine di ottimizzare la cura del paziente.
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d)
A tale scopo l’UCC ha una struttura semplice e ad un tempo particolarmente funzionale. Diretta da un medico coadiuvato da un infermiere esperto dotato anche di capacità organizzative, essa è costituita da due distinti gruppi di persone:
un gruppo operativo costituito da infermieri e volontari, che effettuano l’assistenza domiciliare.
un gruppo di consulenza composto da medici delle diverse specialità e da psicologi preparati nel campo, assistenti sociali e spirituali.
e)
Operativamente infermieri e volontari, scelti tra persone motivate e particolarmente equilibrate dal punto di vista psicologico, si recano due o più volte la settimana a casa dei pazienti assistiti per svolgervi l’assistenza e la terapia prescritta dai medici dell’UCC cui riferiscono le notizie cliniche dei pazienti assistiti, per averne eventuali variazioni terapeutiche. Queste discussioni avvengono, quando possibile, in incontri di gruppo in presenza dei componenti il Gruppo di Consulenza più interessati (medici specialisti, psicologi, assistenti sociali e spirituali). A questi gli infermieri espongono non solo l’evolversi della malattia del paziente ma anche i problemi familiari che colla sua assistenza si interconnettono onde poterne avere i consigli opportuni. Compito loro è infatti non solo il guidare i parenti nella cura del malato, ma anche l’assistenza ai parenti stessi, che in questa fase possono presentare scompensi sul piano psico-affettivo anche gravi. I medici e gli altri componenti del gruppo di consulenza intervengono raramente a domicilio del paziente, sebbene ciò sia tutt’altro che escluso. Tutt’altro che raro è invece l’intervento domiciliare dell’assistente spirituale.
f)
L’UCC, sul piano organizzativo, può assumere fisionomia differente. Può essere parte del presidio ospedaliero così come gli ambulatori ed il Day Hospital, od essere struttura differente da quella ospedaliera (Gruppo di Volontariato, Cooperativa terapeutica, ecc.). Essenziale è la stretta collaborazione tra medici curanti in ospedale e componenti dell’UCC affinché il malato ed i suoi familiari si sentano sempre rispettivamente curato e guidati dallo stesso gruppo di sanitari. Questo fa in genere preferire le soluzioni direttamente parte dell’ospedale o di cui facciano parte integrante sanitari, infermieri e personale dei vari livelli di competenza dell’ospedale. Il carattere determinante della sua funzione sul piano del supporto psicologico dell’unità paziente-famiglia fa ritenere preferibile la realizzazione della UCC come parte integrata nella divisione ospedaliera. Meglio si realizza infatti così la continuità della cura dell’ammalato, usque ad finem, da parte della stessa equipe.
Oggi quando l’ammalato non è più abbisognevole di cure ospedaliere, viene dimesso e avverte un troncarsi del legame con i sanitari dell’ospedale; legame che gli apporta quel senso di sicurezza, di sostegno psicologico proprio del rapporto di fiducia.
Nel caso di malattia prolungata od a prognosi infausta questo legame è di solito sostituito in modo altrettanto efficiente da quello con il medico di famiglia. Cio è dovuto in parte al fatto che in genere quest’ultimo ha difficoltà organizzative
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concrete ad attuare stretta collaborazione con i metodi dell’ospedale ove pure ha indirizzato il paziente. Quasi sempre è privo di collaborazione infermieristica e, pertanto, gli risulta piuttosto difficile proseguire a domicilio dell’ammalato l’assistenza specialistica di cui questi ha bisogno. Pure difficile gli è spesso ottenerne nuovamente, se necessario, il ricovero in ospedale.
Tutto ciò fa sì che la dimissione dall’ospedale possa essere sentita da questi ammalati come un abbandono da parte dei curanti e che i parenti si sentano improvvisamente «responsabili» delle cure ulteriori di cui l’ammalato ha bisogno; situazione psicologica tutt’altro trascurabile in presenza di una prognosi infausta a non lunga scadenza.
L’UCC sopprime tutto questo dando un valore permanente al legame terapeutico e al rapporto di fiducia tra sanitari, ammalato e parenti.
L’ammalato non si sente più «dimesso» ma sa che va a casa senza interrompere le cure, sa che sarà seguito anche a casa, dal gruppo di sanitari dell’ospedale, in collaborazione (ove possibile) col medico di famiglia del paziente di cui l’UCC diviene ad un tempo consulente e, tramite la sua struttura infermieristica collaboratore diretto.
Parenti ed ammalato sanno inoltre che qualora si verifichi la necessità di un nuovo ricovero questo potrà avvenire senza difficoltà perché l’ammalato è sempre in carico terapeutico all’ospedale.
I parenti, a loro volta, si sentono sempre supportati dall’equipe dell’UCC che provvede a consigli ed aiuti non solo nel campo sanitario ma anche in quello sociale e psicologico.
Particolarmente importanti questi due ultimi in caso di morte dell’ammalato e perciò stesso prolungati, quando necessari anche durante il periodo immediatamente successivo all’exitus.
Compito dell’UCC è infatti la cura del malato e della sua famiglia come un tutt’unico.
L’assistenza domiciliare, come è noto è assai meno costosa di quella ospedaliera.
Sull’argomento esistono tutta una serie di ricerche specificamente impostate che consentono di affermare non solo l’esistenza di un risparmio netto ma anche che esso oscilla attorno al 40% (Pontarollo 1985).
Nell’attuale situazione sanitaria italiana la cosa non sembra trascurabile.
L’UCC come mezzo di assistenza domiciliare trova un ovvio limite là ove il paziente vive solo e non ha parenti che lo possano ospitare in casa propria (evenienza relativamente rara in Italia) o quando la casa non sia idonea alla cura domiciliare del paziente nella fase terminale della malattia.
In questi casi ovviamente il paziente dovrà continuare ad essere curato in ospedale come ora avviene, o se opportuno in un ospedale più vicino al domicilio dell’ammalato così da favorire l’accesso dei parenti.
Il caso però, in base alla nostra esperienza non è molto frequente.
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
Documenti on-line
www.fondazioneghirotti.it
www.uciim.it
www.fondazionealessandrabisceglia.it
www.aiiro.it
www.unicatt.it
www.policlinicogemelli.it
www.portaledibioetica.it
Indichiamo di seguito una sobria lista di documenti, utili per approfondire il tema, tra quelli attualmente presenti sul Portale di Bioetica.
1)
Tema caldo Eutanasia [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000632/000632.htm]: si tratta di un’area del Portale che raccoglie articoli e contributi sul tema dell’Eutanasia ed un’insieme di problematiche ad esso collegate, tra cui la questione – frutto di un fraintendimento culturale – della “morte pietosa” come modalità per porre fine alle sofferenze di una persona.
2)
Documenti del Comitato Nazionale di Bioetica:
La terapia del dolore: orientamenti bioetici (30 Marzo 2001) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001720/001720.htm]
Etica, sistema sanitario e risorse (17 Luglio 1998) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001725/001725.pdf]
Parere del CNB sulla convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina (21 Febbraio 1997) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001732/001732.htm]
Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana (14 Luglio 1995) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001671/001671.htm]
Bioetica e formazione nel sistema sanitario (7 Settembre 1991) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001748/001748.htm]
Parere sulla proposta di risoluzione sull’assistenza ai pazienti terminali (6 Settembre 1991) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/001670/001670.htm]
3)
Magistero Chiesa cattolica:
Il rispetto della dignità del morente. Considerazioni etiche sull’eutanasia. (Pontificia Accademia per la vita – 9 Dicembre 2000) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000300/000300.htm]
“Salvifici doloris”, Lettera apostolica (Giovanni Paolo II – 11 febbraio 1984) [http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_letters/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html]
“Evangelium vitae” Lettera enciclica (Giovanni Paolo II – 25 marzo 1995) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000376/000376.htm]
“Donum vitae” (Congregazione per la dottrina della fede – 22 Febbraio 1987) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000399/000399.htm]
Dichiarazione sull’eutanasia (Congregazione per la dottrina della fede – 5 Maggio 1980) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000281/000281.htm]
4)
Altre chiese e confessioni religiose:
Eutanasia e suicidio (Gruppo di lavoro Valdese) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000380/000380.htm]
Quando la sofferenza ha un limite (programma radiofonico ebraico) [http://www.portaledibioetica.it/documenti/000363/000363.htm]
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
SCHEDA IDENTIFICATIVA DELL’ELABORATO
Riferimenti della Scuola
Denominazione:
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___________________________________________
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Indirizzo:
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Telefono:
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Dirigente Scolastico
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Riferimenti della Classe
Classe:
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Insegnati che hanno guidato gli alunni nell’elaborazione dei lavori
(Cognome e nome)
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elenco degli alunni che hanno partecipato al lavoro
(Cognome e nome)
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Concorso Nazionale Un ospedale con più Sollievo
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SCHEDA IDENTIFICATIVA DELL’ELABORATO
STUDENTI UNIVERSITARI
Nome:
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Cognome:
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Indirizzo:
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Città:
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Telefono:
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Corso di Laurea:
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Università:
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N.B. Qualora l’elaborato sia stato prodotto non da un singolo studente ma da un gruppo, la scheda dovrà essere compilata dal rappresentante delegato a ritirare il premio, che si assume la responsabilità di condividerlo con i suoi colleghi, i cui nominativi devono essere riportati qui di seguito.
NOME COGNOME