Sperimentazione, ma di che parliamo?
di Cosimo De Nitto
Per definizione (Devoto-Oli) sperimentazione è una: “Operazione diretta a sottoporre un prodotto, un’attività, un metodo ad una serie di prove e di verifiche”.
“La sperimentazione è un metodo scientifico che permette di osservare fenomeni che di per sé non sono definibili, esprimendo alla fine una valutazione sulla loro fattibilità e sostenibilità.
Si mette alla prova la natura del fenomeno per far sì che essa esca allo scoperto, senza tralasciare un’indagine preliminare del contesto in cui il fenomeno si è verificato, un’analisi degli elementi costitutivi e una constatazione delle interconnessioni. Tale tentativo potrebbe modificare l’esistente.
Per questo motivo nel momento in cui si affronta una sperimentazione occorre sapere bene da dove si è partiti e dove indicativamente si intende arrivare, accettando il verificarsi di esiti sia conformi che non conformi alle attese.
In un ambito complesso come quello educativo, la sperimentazione deve essere espressamente motivata.
Occorre esprimere chiaramente:
• la modalità con cui la sperimentazione sarà condotta;
• la natura dei dati che saranno ottenuti;
• la tipologia dei procedimenti che saranno utilizzati;
• i soggetti che saranno coinvolti;
• i valutatori che monitoreranno il fenomeno;
• le metodologie di valutazione delle abilità di sviluppo;
• la formulazione di un nuovo percorso.
Quindi, la sperimentazione educativa è sintomo di quell’autonomia preventiva nelle premesse che evidenzia la necessità di ricercare e realizzare progetti innovativi sul piano metodologico, su quello didattico e in generale sull’organizzazione scuola e sull’ordinamento scolastico.”
(Chiara Campomori http://www.indire.it/ccs/wp-content/uploads/2012/02/campomori_mat.pdf)
Se relativamente al campo scolastico riteniamo complessivamente accettabile questa definizione, diremo che quella decisa dal ministro Carrozza è una sperimentazione che investe la durata degli studi, quindi l’organizzazione scolastica, i contenuti (le materie), la metodologia, in pratica tutto l’ordinamento della scuola secondaria superiore, e non solo. Una rivoluzione copernicana dalla portata storica, se si considera da quando le scuole superiori durano 5 anni.
Dopo che d’imperio la Gelmini aveva cancellato d’un sol colpo tutte le sperimentazioni, ivi comprese quelle metodologico-didattiche (unica competenza del collegio dei docenti senza la quale parlare di autonomia è puro esercizio retorico), la ministra Carrozza decide così, d’emblée, d’imperio anch’essa, di attuare una sperimentazione di questa portata. Senza un dibattito, senza consultare il corpo scolastico, il CNPI, i sindacati, l’associazionismo professionale ecc. ecc. con un puro atto verticistico in una materia così delicata che rifiuta il verticismo per le infinite implicazioni che comporta, interne ed esterne alla scuola, riguardando l’organizzazione di vita dei singoli soggetti e l’organizzazione della vita associata e lavorativa allo stesso tempo dell’intero corpo sociale. Dopo che la categoria si era sollevata contro questa ipotesi di riduzione degli anni di studio.
Su più di 1400 le secondarie di secondo grado private e su più di circa 7000 scuole pubbliche, su 33 indirizzi la ministra sceglie un campione di UNA, dico una, scuola superiore, privata per giunta.
Che rilevanza potrà avere un campione così insignificante dal punto di vista rappresentativo e statistico? Che “sperimentazione” potrà mai essere? Quali deduzioni significative potrà mai fornire? Cosa vorrà dire mai se funziona? E se non funziona? E chi rileverà e valuterà che funziona o non funziona? Che inferenze mai si potranno ricavare da un’esperienza unica come questa del liceo internazionale per l’Impresa, “Guido Carli”, di Brescia, “sponsorizzato” dall’associazione industriale della città lombarda? Quanti Licei per l’impresa ci sono in Italia? E potremmo continuare con le domande che dimostrano l’inconsistenza “scientifica” di questa pseudo-sperimentazione, la sua non rispondenza non solo a criteri scientifici, ma nemmeno a criteri dettati dal buon senso.
Ma allora a che serve?
Difficile rispondere a questa domanda, ma si può azzardare qualche ipotesi.
Può servire a dare un ossicino al gruppo di pressione che da anni sostiene la “bontà” dell’accorciamento degli anni di scuola (i neo descolarizzatori?) che stanno a destra, come a sinistra, che, sia pure partendo da posizioni diverse e con diverse finalità, sono tuttavia pronti ad impugnare sempre la bandiera del “ce lo chiede l’Europa” anche quando l’Europa non chiede niente perché non può chiedere cose che spetta a ciascun paese membro nella sua autonomia decidere.
Questo gruppo si divide poi in due sottogruppi: quelli che vogliono accorciare di un anno la scuola primaria, con l’alchimia e la furbata dell’anticipo a 5/4 anni (distruggendo al contempo due ordini di scuola, quella dell’infanzia e la primaria), e quelli che vorrebbero, come la ministra, accorciare la secondaria superiore. Tutto ciò mentre le indagini internazionali accusano l’arretramento e il deficit di scuola, cultura, saperi nel nostro paese, il disinvestimento progressivo negli anni che l’ha portata ai gradini più bassi nei paesi che ancora possono definirsi civili.
Può servire a dare un ossicino alle vestali della spending review che vedono nella diminuzione di un anno di studi nelle superiori il “risparmio” di 40.000 cattedre, come è stato calcolato. Vedono in questo il dimagrimento della scuola pubblica un’occasione per la privatizzazione e l’aziendalizzazione del sistema scolastico, la sua più diretta dipendenza dal mercato, questo mercato poi.
Una cosa appare subito certa: questa “sperimentazione”, per come è stata concepita, per metodo, per merito, per contenuti, a tutto e tutti potrà servire, non certo alla scuola italiana, che ha altri problemi, ha altre priorità, ha altre direzioni di marcia da percorrere se vuole salvarsi e salvare il Paese.