Le prove preselettive: questione di saperi…
di Maurizio Muraglia
Prove preselettive. Ormai il mondo dell’istruzione si sta abituando a questo appuntamento. Tutti i concorsi le prevedono: quello per Dirigenti, quello per accedere al TFA e adesso rispuntano anche per l’imminente (almeno così dice il MIUR) concorso a cattedre. Le ragioni sono ben note, anzi “la” ragione: scremare la quantità di partecipanti. Quelli che sostengono la necessità di questa scrematura non sembrano interrogarsi più di tanto sui criteri che presiedono all’elaborazione di simili strumenti. Sulla “Repubblica” del 27 agosto, Miguel Gotor le considera un passaggio “molto importante” “per scremare la pletora di partecipanti e verificare la conoscenza di alcune nozioni di base”, interpretando probabilmente il sentire comune.
Chi ha potuto controllare queste prove preselettive predisposte da misteriose commissioni si è concentrato sugli errori, e gli errori hanno giustamente attirato l’attenzione dei media con tanto di scuse ministeriali. Giusto. Ineccepibile. Ma non sarebbe il caso di ragionare anche sul carattere più eclatante di questi quesiti che dovrebbero scremare i partecipanti ad un concorso come quello a cattedre, volto a verificare le competenze professionali dei candidati (tant’è vero che si parla poi, per le prove successive, di “lezione simulata”)?
Dunque parliamone. Che scopo hanno queste prove? Hanno lo scopo di selezionare in base alla conoscenza di alcune “nozioni di base”. Comanda dunque il concetto di “nozione”. Qualcuno ha riflettuto su che cosa significa oggi controllare le “nozioni”? E poi, quali nozioni? E cosa significa “di base”? Base di che? Quale idea di professione docente sta, qua ci vuole, alla base della convinzione che saper insegnare bene passi dal ricordo che quella data cosa sta in quel dato modo, in quel dato tempo, in quel dato luogo? Gli esperti lo chiamano “sapere dichiarativo”. È quel sapere che è presente alla coscienza ed è richiamabile puntualmente allo stimolo di un test.
La scrematura, si diceva. Come dire che si tira una linea: da questo lato coloro che non raggiungono il numero sufficiente di nozioni richieste. Dall’altro, coloro che lo raggiungono. I primi restano fuori. Magari hanno insegnato, magari hanno fatto imparare tante cose, magari sanno trovare il metodo giusto, ma, ahimé, non hanno centrato quel che le Commissioni volevano sapere. Gli altri, invece, andranno avanti, magari per far vedere ciò che anche (o solo?) gli esclusi possedevano.
Insegno nella scuola pubblica da venticinque anni con risultati che non sta a me valutare, e di fronte a diverse “nozioni di base” richieste da queste prove preselettive mi sono trovato a dire “non lo so”. Attenzione, non “non mi ricordo”, ma “non lo so”. Nel senso che non l’ho mai saputo. Non solo, ma non ho alcun rammarico nel “non saperlo” né ritengo che i miei alunni possano essere danneggiati da questo mio “non sapere”. Forse non supererei oggi le prove preselettive di un concorso.
La verità è che quel che dovrebbe “sapere” un insegnante sfugge, e le prove selettive scremano lasciando indietro magari dei possibili ottimi insegnanti. Bisognerebbe piuttosto parlare di “sapere professionale”, che è sempre in evoluzione. Oggi infatti la questione dell’insegnare poggia su basi diverse, perché su basi diverse è costruito l’approccio al conoscere, ma i nostri organismi “preselettivi” sembrano non accorgersene perché l’obiettivo è quello, comunque, di creare un numero più piccolo di partecipanti con la roulette russa dei quiz.
D’altra parte, anche in ambienti cosiddetti progressisti, la cultura della scuola, quella che nutre il sapere professionale degli insegnanti, rimane un sottoprodotto della cultura universitaria. Lo stesso Gotor prima citato proponeva addirittura di offrire un canale preferenziale per il concorso a cattedra nientemeno che ai dottori di ricerca (!), dopo aver preso le distanze dal “pedagogismo più deteriore” di questi anni. Ancora la vecchia storia. Bisogna essere molto eruditi per potere insegnare.
L’esperienza di chi qui scrive e di molti altri è di tutt’altro segno. Senza il “pedagogismo più deteriore”, cioè con la sola preparazione universitaria, non avremmo combinato un bel niente. È stato quell’altro “sapere”, coltivato da autodidatti, ad insegnarci che per potere veramente stare con un gruppo di allievi bisogna sapere orientare le cose che si sanno all’apprendimento. È verissimo che se non si sa nulla (università) non si può orientare all’apprendimento nulla (pedagogia e didattica), ma bisogna avere anche il coraggio di riconoscere che in molti casi sono proprio quelli che “sanno molte cose” (e nei licei classici se ne trovano a iosa…) a far di queste, paradossalmente, un ostacolo all’apprendimento, rendendo la scuola un vero obitorio culturale. Stiamo parlando di coloro che hanno studiato tanto, hanno letto tanto, hanno trascorso le notti sugli autori, hanno macinato pagine e pagine nella convinzione che ogni cosa fosse importante. Davanti ai “pischelli” che si ritrovano davanti tutte le mattine, che smanettano, digitano, sognano, sbadigliano, soffrono, ridono e piangono, questi insegnanti superconoscitori di ogni cosa non sanno che pesci prendere, e non raramente soprattutto dai più giovani zelanti docenti freschi di studi universitari provengono tristi lamentazioni sull’ignoranza e la superficialità dei ragazzi, nonché sulla disattenzione dei genitori. È dura, in classe, ritenere importanti tutte le cose che si sanno e trovarsi davanti quelli che per quelle cose non hanno alcun interesse.
A meno che, ovviamente, quelle cose, tutte quelle cose, come ben sa chi insegna negli inferni delle periferie cittadine, non si riesca a trasformarle in qualcosa che apprendere è bello, significativo, coinvolgente. Ma quella magia professionale le prove selettive non possono vederla, e nulla vieta che tra gli esclusi dai test vi siano proprio alcuni (molti? tutti?) di questi maghi. Maghi dell’insegnare che probabilmente i nostri “pischelli” non incontreranno mai, alla faccia di tutte le valutazioni sul merito.
A proposito: chi sarà “meritevole” tra gli insegnanti, chi sa molte cose o chi le sa fare imparare?