Dopo il concorso/corrida, ci sarà un futuro per dirigenti scolastici?
di Ivana Summa
Non vi pare che sia giunto il momento di fare qualche seria di riflessione sul Concorso per dirigenti scolastici che si sta concludendo, in quasi tutte le regioni, proprio in questi giorni di canicola leonina? Taciamo volutamente sui numerosi ricorsi amministrativi non ancora conclusi, sul dimezzamento dei posti messi a concorso con il D.D.G. 13 luglio 2011, sulla preselezione realizzata con più di 5.000 astruse domande, sulla nomina dei membri delle commissioni e della correlata incompetenza esperta e via di questo passo. Se scorriamo velocemente tutto l’iter concorsuale, ci si accorge che esso è basato – con una ferrea coerenza che attraversa tutte le fasi compreso il colloquio orale – sull’idea che per diventare dirigente scolastico occorra una “testa piena”, piuttosto che una “testa ben fatta”. Una testa piena di minutaglie psico-pedagogiche e di tecnicismi pseudomanageriali, per tacere della mera conoscenza mnemonica di leggi e leggine che nulla hanno a che vedere con la padronanza dei concetti fondamentali del diritto costituzionale, pubblico, amministrativo, ecc..
Ed ecco che decine di migliaia di insegnanti, privi di qualsiasi forma di carriera, hanno deciso di partecipare ad un concorso che, rispetto al precedente del 2004, si presenta irto di ostacoli. Alcuni insegnanti, carichi di titoli (doppie e triple lauree, master, attività di aggiornamento, incarichi istituzionali) lo hanno affrontato pieni di speranze meritocratiche, tanto evocate in questi ultimi anni; altri, dopo una frettolosa preparazione mirata esclusivamente al superamento delle prove, hanno affrontato il concorso confidando nella fortuna, peraltro da tutti ritenuta componente essenziale per concludere l’iter con successo.
E’ inutile sottolineare che gli uni e gli altri possono essere iscritti nella categoria “dilettanti allo sbaraglio”, considerato che il concorso assomiglia molto allo storico gioco radiofonico e televisivo che chiamava alla sfida chi aveva il coraggio di esibirsi, a prescindere dal possesso di competenze di base e trasversali per entrare in scena.
Rinunciando ad analogie divertenti ma amare, entriamo decisamente nel discorso che più ci preme e che riguarda il reclutamento dei dirigenti scolastici dopo l’attribuzione dell’autonomia alle scuole e della dirigenza ai capi d’istituto. La legge, come è noto, prevede un profilo – specificato chiaramente nell’art. 25 del D.Lgvo n. 165/2001 – che in quest’ultimo decennio si è profondamente evoluto a seguito del disegno riformistico contenuto nella cosiddetta riforma Brunetta del 2009. D’altra parte, la concreta interpretazione, in più di un decennio, di una funzione così articolata e complessa ha visto all’azione dirigenti scolastici che, nella stragrande maggioranza dei casi, dopo aver messo velocemente da parte la connotazione educativa della dirigenza scolastica, si sono trasformati in burocrati attenti a non commettere errori, intenti ad applicare le leggi – comprese quelle riguardanti gli assetti ordinamentali, curriculari e valutativi- rinunciando ad implementare processi di innovazione e miglioramento della qualità della didattica, di cui il nostro sistema scolastico ha un irrinunciabile bisogno e che possono essere realizzati soltanto facendo costante ricerca educativa, didattica, valutativa.
Da queste considerazioni emerge con chiarezza come non ci sia ancora una un modello professionale di dirigenza scolastica in grado di connotare in modo specifico le competenze educative, giuridiche ed organizzative più adeguate, in base alle quali preparare e poi selezionare i docenti che aspirano a guidare una scuola non per una scelta di comodo o ispirata ad un generico cambiamento o, peggio, ad un desiderio di fuga dall’insegnamento, ma perché motivati a dare un personale contributo “di servizio” per migliorare la qualità del nostro sistema scolastico.
Questa idea/proposta può sembrare presuntuosa e velleitaria, ma così non è se si pensa che tutte le ricerche che correlano la qualità della leadership scolastica con la qualità delle scuole ci dicono che l’ apporto del capo d’istituto – comunque venga denominato – sia particolarmente significativo, anzi rappresenti il valore aggiunto di una scuola. Il sociologo francese Alaine Touraine, nella sua relazione tenuta al Convegno Nazionale del C.I.D.I. del marzo 2007 a Roma, riferendo gli esiti di una sua ricerca comparativa tra due collége della banlieu parigina, ha messo in evidenza come le capacità di guida del dirigente di una delle due scuole abbiano saputo creare forte motivazione fra gli insegnanti sostenendoli nella difficile sfida educativa cui erano chiamati, operando in un contesto sociale molto difficile. Come dire, non di soli ordinamenti e curricoli vive e cresce la qualità educativa delle scuole, perché sono altrettanto importanti le persone che vi lavorano e soprattutto la capacità di un capo di istituto di mettere in moto le risorse professionali esistenti.
In Italia non sono mai state realizzate ricerche focalizzate in questo ambito[1], eppure tutti noi possiamo agevolmente constatare come l’interpretazione di ruolo da parte del singolo dirigente scolastico – a prescindere dalle provenienze concorsuali – sia determinante per le nostre scuole, considerata la cornice normativa ed istituzionale entro cui si muovono, che provoca spinte sia verso la burocratizzazione, che verso l’“anarchia organizzativa”[2].
Oggi, osservando il nostro sistema scolastico, abbiamo la percezione nitida che non esista una visione condivisa della funzione del dirigente scolastico, radicata dentro una più vasta funzione istituzionale riconosciuta irrinunciabile per la qualità delle scuole. Soltanto in questa prospettiva assume rilevanza la scelta – contenuta nell’art. 25 del D. Lgvo n. 165/2001 – di selezionare questa particolare tipologia di dirigenti esclusivamente tra il personale docente al quale, peraltro, non possono essere richieste, naturaliter, competenze amministrative ed organizzative.
Come mai allora, in più di un decennio, si è rinunciato a creare specifici percorsi di sviluppo professionale di un certo numero di docenti ai quali far acquisire quel quid specifico della dirigenza scolastica, che altrimenti viene lasciato al caso o alle aspirazioni personali?
Una prima causa è da individuare nella progressiva involuzione e/o implosione subita dall’autonomia scolastica durante il suo primo decennio, sballottata da innumerevoli e imprevedibili ondate di cambiamento, da un anno scolastico all’altro, in direzioni spesso contrastanti. I cambiamenti voluti dalle riforme di questi ultimi dieci anni, infatti, hanno chiamato i dirigenti scolastici a far “applicare” ai docenti le nuove indicazioni didattiche ed ordinamentali quasi fossero dei “semplici” caporali di giornata, dimenticando che le leve di gestione privilegiate (e privilegiabili) dentro una scuola davvero autonoma sono altre: la collegialità tecnico-professionale, la partecipazione, la ricerca e la sperimentazione, perché le scuole sono innanzitutto “comunità di pratiche” con le loro routines e conoscenze, con i loro valori e le loro “storie di vita”.
Una seconda causa va ricercata nella sottovalutazione della funzione dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni, ancorata, nonostante vent’anni di riforme, a vecchie interpretazioni di ruolo, più attenti agli aspetti formali e procedurali che agli aspetti connessi con l’attivazione di processi e con il raggiungimento di risultati. Abbiamo motivo di ritenere che il vecchio modello dirigenziale si possa addirittura rafforzare con le ultime riforme del 2009 che, pur introducendo sistemi di premialità e di performances affidati alla dirigenza, di fatti comporteranno cambiamenti di facciata, sovrapproduzione di documentazione, salvo lasciare intatti ed irrisolti tutti i problemi connessi con la gestione delle risorse umane nel pubblico impiego.
Ma quale dirigenza scolastica vogliamo?
Nella prospettiva appena tratteggiata, anche il dirigente scolastico meglio attrezzato sul piano delle conoscenze corre il rischio di utilizzarle a prescindere dal fatto che dirige innanzitutto una scuola e non ufficio amministrativo qualsiasi.
Come afferma L. Benadusi[3], la scuola è un’organizzazione sui generis, perché le dimensioni strutturali e formali sono meno importanti di ciò che vive al loro interno: i valori, le tradizioni, le culture, i linguaggi, i significati e le modalità delle interazioni soggettive. Questi aspetti, che il noto sociologo dell’educazione definisce “fluidi ed immateriali”, debbono essere pienamente compresi prima di essere fatti oggetto di politiche gestionali.
Ne deriva che l’interpretazione di un ruolo istituzionale come quello del dirigente scolastico non può essere soltanto il risultato della cornice normativa specifica e generale entro cui è tenuto ad esprimersi, perché è agito in un’arena[4] sociale che, non essendo determinabile, impone capacità ermeneutiche (comprendere il senso di ciò che avviene) ed euristiche (agire come un ricercatore competente).
Assume poi un particolare rilievo il contesto sociale, interno ed esterno alla scuola, e tutte le aspettative espresse nei confronti di una funzione che viene troppo spesso vista e vissuta in termini di semplice gestione del funzionamento quotidiano ma anche come simbolo di un potere estraneo ed intrusivo.
Se si scorre la letteratura organizzativa sulla dirigenza scolastica – cresciuta in Italia dall’inizio degli anni ’80 parallelamente alla richiesta di autonomia per i singoli istituti scolastici – si può rilevare come si sia molto riflettuto sulle competenze da richiedere a tale figura fino all’avvento dell’autonomia e della dirigenza. Sia pure con accenti diversi, si è andato delineando, in quegli anni di fermento politico, culturale e professionale, la figura di un dirigente scolastico che agisce, nel rispetto della professionalità docente, in un’organizzazione scolastica dotata di autonomia funzionale, ispirandosi ad un profilo che riesce a coniugare aspetti attribuibili al management con aspetti riferibili alla leadership. L’una e l’altra connotazione non sono da ritenere antitetiche ma complementari, in quanto entrambe fanno riferimento a competenze di coordinamento, di controllo, di programmazione, di guida, chiamando in causa modalità di gestione ispirate alle teorie organizzative piuttosto che a modelli burocratici che non possono garantire, per la loro stessa natura, né efficienza né efficacia. Ma quali sono le differenze sostanziali, considerato che sia il manager che il leader lavorano con le persone convogliando gli sforzi dei singoli e dei gruppi verso gli obiettivi organizzativi? La differenza può essere colta in un tratto distintivo: il management si confronta con la complessità e la sua efficacia si misura con il grado di ordine e coerenza che riesce a realizzare a livello organizzativo; al contrario, la leadership si misura con il cambiamento e, dunque, agisce indicandone la direzione e la visione. E, tuttavia, non esiste un buon manager che non sia anche un buon leader.
Dunque, questo è il modello professionale che riteniamo debba essere ripreso anche sul piano culturale per essere poi assunto – sul piano normativo e concorsuale- come riferimento per il dirigente scolastico “di nuova generazione”, collocato dentro una concezione di scuola come comunità di persone che agiscono come attori politici (perché fanno delle scelte responsabili) e professionali, in quanto possiedono competenze di alto livello e di alta responsabilità .
Facciamo in modo – fin da subito – che la prossima volta si scelgano modalità di formazione e di selezione dei docenti che rispondano a questa idea di dirigenza scolastica.
[1] Il movimento internazionale dello School Effectiveness Research (SER), pur utilizzando differenti filoni di ricerca, ha individuato e testato empiricamente l’effetto di variabili di efficacia per comprendere se le modalità di management e di leadership con le quali viene organizzata e gestita una scuola incidono – e in quale misura – sugli apprendimenti degli studenti.
[2] Si veda, per questo costrutto, il contributo di March J.G., Decisioni e organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 1993. In estrema sintesi, possiamo descrivere l’anarchia organizzativa una modalità di funzionamento di organizzazioni che privilegia l’esperienza (ciò che si è fatto in passato) l’intuizione (così dovrebbe funzionare) e l’approccio pragmatico (risolvere i problemi mano a mano che si presentano.
[3] Benadusi l., Politica ed organizzazione della scuola, in Morgagni E., Russo A., L’educazione in sociologia. Testi scelti, Bologna, Clueb, 1997.
[4] Morgan G., Images. Le metafore dell’organizzazione,Milano, Franco Angeli, 1994. La metafora dell’arena politica prende l’avvio dalla concezione aristotelica della politica, originata dalla diversità degli interessi delle persone che vivono insieme. Tale diversità mette in moto processi di mediazione, negoziazione, formazione di coalizioni, di lotta, di influenza reciproca che contribuiscono in modo rilevante alla “vita organizzativa” di un determinato contesto.