da Corriere della sera
Il silenzio degli in-docenti
di Alessandro D’Avenia
«Sono un diciassettenne sempre più consapevole di quanto sia difficile per i ragazzi curiosi accettare la scuola italiana. Ogni giorno è sempre lo stesso copione. Voglio solo avere la cultura garantita dalla nostra Costituzione. Perché devo lottare con professori che minano la mia curiosità? Voglio imparare ed essere ripagato per i sacrifici che ho fatto, faccio e farò per studiare. Voglio una società in cui il merito conti qualcosa, ma quotidianamente ricevo delusioni. Devo rassegnarmi? Ho voglia di andar via».
Ricevo decine di lettere simili. All’inizio pensavo fossero esagerazioni tipiche della frustrazione adolescenziale di fronte alla durezza della vita, poi però sono diventate troppe.
Di recente è apparso sui muri di una nota scuola milanese un manifesto di protesta gentile che riassume in poche parole il contenuto di tutte queste lettere: «Quando entriamo a scuola siamo pervasi da una sensazione di noia o di vacuità che ci rende insofferenti e polemici: alla nostra vita così come alla scuola chiediamo di generare senso». Per fortuna ci sono centinaia di insegnanti che riescono a generare senso e ne abbiamo incontrato almeno uno sul nostro cammino. Ne ricordiamo il modo di vestire, incedere, spiegare, e i tesori che ci ha affidato. Vorrei che quel docente diventasse la normalità, invece di una scuola in cui non è garantita la presenza continuativa dello stesso insegnante.
Sono le conseguenze di un sistema da riformare, come mostra il recente rigoroso studio della sociologa Maddalena Colombo, Gli insegnanti in Italia – Radiografia di una professione, che esordisce così: «Gli insegnanti italiani sono tra i più anziani d’Europa, a causa del basso turn over e della lunga trafila del precariato che i giovani devono affrontare. La carriera è «orizzontale», ossia manca un percorso di distinzione gerarchica (basato su incentivi e premi) che possa stimolare insegnanti capaci e impegnati al continuo miglioramento. Riguardo al trattamento economico, lo stipendio dei docenti italiani è tra i più bassi d’Europa».
Le tre macro-criticità, combinate con peculiarità sociali e culturali, conducono i docenti alla frustrazione tipica dei lavori senza adeguato riconoscimento, il burn-out è infatti assai frequente. È un sistema che genera quelli che chiamo «in-docenti», coloro che, pur potendo essere ottimi insegnanti, vengono silenziosamente sacrificati da un contesto che neutralizza o addirittura umilia. Docente viene dalla stessa radice di «dire», che in origine significava «indicare». Il docente è colui che indica ciò che vale all’interno dei saperi teorici e pratici e, attraverso questo, rende gli studenti critici, autonomi e capaci di scegliere come continuare l’esplorazione. L’in-docente al contrario non indica perché, persa la stima professionale e personale, non crede di dover e poter segnalare più nulla se non la propria frustrazione, che si riflette nello specchio impietoso della protesta dei ragazzi. Perché?
In Italia per il 2017-18 sono state 850 mila le cattedre disponibili nelle scuole statali per quasi 8 milioni di ragazzi, 90 mila nelle paritarie (scuole che danno lo stesso titolo legale delle statali) per 900 mila studenti. I posti statali sono stati coperti da insegnanti a tempo indeterminato (730 mila) e da quelli a tempo determinato (i supplenti/precari: 120 mila). Se escludiamo i docenti assunti dalle paritarie, restano a spasso i precari storici (delle graduatorie a esaurimento) o recenti (abilitati, vincitori di concorso, non abilitati che però insegnano da anni) non ancora assunti: decine e decine di migliaia di persone. Il numero di precari (tutti i contratti a tempo determinato) è talmente alto che Bruxelles ci ha recentemente richiamato definendo la situazione contrattuale dei nostri docenti «non degna di uno Stato dell’Ue». Il personale Amministrativo Tecnico Ausiliario ammonta a 205 mila unità, 8.000 sono i dirigenti. Ogni anno lo Stato spende per la scuola statale 49,5 miliardi di euro, per la paritaria 0,5: uno studente della statale costa più di 6 mila euro l’anno, 500 euro nella paritaria. I dati confortano: i docenti ci sono (la media — tra le migliori in Ue — è di un docente ogni 10 studenti) e l’investimento per alunno è cospicuo. Però la qualità del servizio e delle sedi non sembra corrispondere, perché l’organizzazione è farraginosa e il denaro si disperde in un apparato parascolastico eccessivo.
Mentre in Europa i concorsi sono annuali, da noi dovrebbero essere, per legge, triennali (biennali dal prossimo concorso), ma sono stati troppo spesso congelati in relazione alle necessità di Bilancio e al non assorbimento dei precari. Così la scuola diventa un correttivo economico ai conti statali (la spesa diminuisce da anni) o la promessa di posti di lavoro non rispondenti al bisogno reale. Per questo i docenti italiani hanno l’età media (52 anni) più alta d’Europa: il 57% supera i 50 anni (36% in Ue), il 18% i 60 (8% in Ue). L’esperienza è un bene solo se bilanciata dal normale scambio e ricambio generazionale. Di recente i già laureati sono stati costretti a sostenere nuovi esami per partecipare al concorso di accesso al nuovo tirocinio triennale per entrare in ruolo. Un lavoro segnato da immobilità e precariato respinge i giovani: «sarai un morto di fame» è la minaccia nota a ogni aspirante.
Più dell’80% dei docenti italiani sono donne. La cifra, come l’OCSE ha rilevato, denota un Paese in cui l’insegnamento, con sprezzo delle numerose battaglie per la parità di possibilità e salari, è purtroppo definito lavoro «da donne». A parità di titoli d’istruzione una docente riceve il 90% dello stipendio di donne che lavorano in altri ambiti pubblici, si scende al 70% per un uomo. La Colombo parla di «segregazione occupazionale»: insegnare non conviene agli uomini e lo stile educativo, soprattutto in alcuni contesti sociali, necessita di maggior equilibrio. La carriera scolastica finisce per essere identificata con scarse aspirazioni, assimilata a una sorta di occupazione di ripiego, dal salario ben al di sotto dei principali Paesi europei (la media Ue a inizio carriera è di 26 mila euro lordi, da noi 21 mila: un’ora è retribuita circa 16 euro), appetibile solo per chi può, deve o vuole accontentarsi. A essere svalutata è, di conseguenza, proprio la professionalità femminile.
Rispetto ai sistemi europei la mobilità retributiva è assente: non ci sono incentivi premianti se non il rigido scatto di anzianità. Da ultimo, se al fatto che un posto su sette è affidato a supplenze aggiungiamo che, ogni anno, un docente su quattro cambia sede, gli effetti sulla didattica sono deleteri. Questi fenomeni combinati insieme mortificano le capacità personali e professionali: perché facciamo le pulci al curriculum dei politici e quello dei docenti non conta quasi nulla per differenziarne le carriere? I sistemi che ignorano o non valorizzano la storia personale, l’impegno, il contesto, la materia, deresponsabilizzano e appiattiscono verso il basso. Le «mani legate» del dirigente, di fronte alla palese inefficienza della docente di cui si racconta nella lettera, rendono inutile la richiesta di normale qualità. A 50 anni dal ‘68 ci vorrebbe una discontinuità creativa e coraggiosa ma di segno diverso: professionalità al potere! Immaginate uno scenario in cui la scuola è diventata così importante che il presidente della Repubblica blocca la formazione del governo per il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca proposto: fanta-politica.
Il letto da rifare oggi è accogliere proteste accorate come quelle riportate sopra, che mi ricordano i versi delle Supplici di Euripide: «Come può essere salda una città/quando si strappano via i giovani coraggiosi/come spighe nei campi a primavera?». Occupati a rilanciare l’economia agendo su produzione e finanza, da troppo tempo trascuriamo l’essenziale slancio economico proveniente dal vivaio di un Paese che — in coda all’Ue nella spesa pubblica per l’istruzione — necessita di docenti messi in condizione di fare della scuola il luogo per coniugare la qualità della trasmissione dei saperi con l’orientamento e la cura delle vocazioni personali. Solo così fronteggiamo le nostre attuali cifre di abbandono scolastico (15%) e disoccupazione giovanile (33%), dati percentuali assordanti e complementari al lugubre silenzio degli in-docenti.
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