Sulla valutazione, prove Invalsi e dintorni. Ancora.
di Cinzia Mion
Mi inserisco nei dibattiti, diventati stancamente rituali, intorno alla valutazione e dintorni.
Credo che tutto sia già stato detto, o quasi, ed è facendo perno su questo quasi che sento il bisogno di dire la mia che ha il sapore di una ricostruzione storica. Naturalmente.
Intanto rilevo con piacere che almeno intorno a tale argomento si sta dibattendo, segno che la scuola riesce ancora a catalizzare un po’ di attenzione.
Non desidero schierarmi a priori, come avverto che molti stanno facendo, né da una parte né dall’altra, nel senso dei detrattori o fautori a scatola chiusa delle prove Invalsi o similari.
Per provare però ad argomentare sulla questione devo risalire, sia pur in modo molto succinto, al dibattito intorno agli anni sessanta.
Ricordiamoci infatti che a far diventare il problema della valutazione scolastica un pretesto scottante, al fine di portare all’attenzione pubblica il disastro della dispersione scolastica, dopo l’approvazione nel 1962 della legge sull’elevamento dell’obbligo a 14 anni, è stato don Milani con Lettera ad una professoressa.
Successivamente il ’68 studentesco ne ha rilanciato le tesi.
Che la riforma della scuola media unica non sia stata opportunamente accompagnata nella sua implementazione lo sappiamo tutti e lo ricorda molto bene Allulli in un intervento su Tuttoscuola di maggio, oltreché la Fondazione Agnelli in un suo Quaderno recente.
Io desidero qui sottolineare che la carenza della didattica individualizzata in questo ordine di scuola, didattica rimasta abbastanza trasmissiva comunque, quindi uguale per tutti, tranne naturalmente nelle illuminate eccezioni, sta offrendo ancora esiti deleteri.
Affermo ciò in quanto anche la scuola secondaria di secondo grado, che conosce oggi l’elevamento dell’obbligo a 16 anni, rischia di perseverare nel medesimo errore, nell’indifferenza generale di tutti, come è accaduto negli anni passati per la scuola media.
Bisognerebbe che un novello Bruner scrivesse un altro“Verso una teoria dell’istruzione(però) dell’obbligo.” E dedicasse una parte del saggio alla valutazione formativa, ineludibile in ogni ordine di una scuola dell’obbligo, appunto.
Ma andiamo per ordine.
Il Movimento Studentesco mise a fuoco come la valutazione scolastica fosse strumento non di emancipazione culturale ma di esclusione ed emarginazione, in altre parole di dispersione scolastica precocissima.
Naturalmente la critica sociopolitica del ’68 non aveva compiti pedagogici di inventare un sistema nuovo di valutazione, ma si era dotata di compiti di semplice denuncia per cui se la scuola attraverso le sue metodiche valutative, di tipo sommativo, faceva tanto male ai giovani forse era meglio che si astenesse dal farlo : ecco la sollecitazione “a-valutativa” che ricordiamo tutti.
A far da sostegno a tale impostazione apparvero subito esiti di ricerche psicologiche dall’America che dimostravano l’assoluta “soggettività” delle pratiche valutative della scuola (effetto alone, effetto stereotipo, effetto Pigmalione, ecc.)
Questo clima di messa in discussione della valutazione sommativa scolastica, e soprattutto le ricerche sulla soggettività ineludibile, che toglievano attendibilità alla stessa, sollecitarono Mario Gattullo, un validissimo allora ricercatore dell’Università di Bologna, scomparso ahimè troppo presto (chissà cosa direbbe oggi delle prove Invalsi!) ad avventurarsi nel terreno vergine in Italia della docimologia o scienza della misurazione.
Il suo libro fece molto scalpore, naturalmente in chi se ne sobbarcò la lettura o lo studio.
La prima parte, molto gustosa, consisteva in un’ampia analisi e critica di tutte le prove, nessuna esclusa, che la scuola adottava per valutare gli alunni (temi, problemi, interrogazioni orali, ecc) individuando elementi naturalmente di soggettività (già sottolineata ampiamente) ma soprattutto di frequente incongruenza tra lo stimolo (prova) e deduzioni-conclusioni sulla adeguatezza della preparazione che poi veniva in modo più o meno arbitrario tradotta in un voto numerico su scala decimale.
Per ovviare a questa descrizione così poco seria e scientifica della pratica scolastica in questione, Gattullo, nella seconda parte del suo tomo ponderoso, proponeva le famose, o famigerate, prove oggettive.
Mi sento però di sottolineare come le suddette prove dovessero essere rigorosamente costruite da esperti delle varie discipline, alle quali gli stessi esperti avrebbero fatto corrispondere punteggi diversi a seconda della complessità dello stimolo e a seconda della diversità della risposta e del tempo impiegato a darla. Il tutto perciò in modo del tutto oggettivo ma anche scientifico dal punto di vista dell’epistemologia della disciplina e della psicologia dell’apprendimento.
Tutto risolto? Per niente. L’individuazione dell’oggettività delle prove faceva correre ai ripari rispetto al problema dell’inattendibilità del giudizio del docente ma non poneva nessun rimedio alla denuncia sociopolitica della gravità della dispersione da cui era partita tutta la riflessione successiva.
Infatti Gattullo non mancava di rilevare continuamente che le prove e la loro “verifica” costituivano una attività di “misurazione” ma non di valutazione.
Da questa specie di fotografia dei risultati di apprendimento della classe (diagnosi?) bisognava poi partire, più attrezzati che mai, per attivare una didattica adeguata a recuperare gli insuccessi segnalati dalla verifica (cura individualizzata?)
Abbiamo però dovuto aspettare la L.517 del 1977 perché la pedagogia, attraverso riflessioni dei nostri maggiori esperti nel campo, come il professor Vertecchi, generasse il nuovo concetto di “valutazione formativa” che metteva insieme sia la misurazione, su cui aggiustare gli ulteriori interventi, che l’autovalutazione del docente che attraverso di essa capiva quanto era attrezzato per insegnare in una scuola dell’obbligo o quanto dovesse ancora dotarsi di strategie alternative per farvi fronte.
La valutazione formativa infatti usa le prove più oggettive possibili per cogliere le eventuali lacune, segnalarle all’allievo perché se ne faccia carico e nel contempo indurre il docente ad avviare una attenta disamina delle proprie strategie didattiche a disposizione, affinché siano le più adeguate possibili a fronteggiare la difficoltà.
Se questa riflessione su di sé (autovalutazione) dovesse portare alla consapevolezza che esiste una carenza professionale o disciplinare o didattica o psicologica per cui la propria preparazione non è sufficiente, bisogna correre ai ripari.
Lasciamo perdere in questa sede la considerazione su quanti dirigenti scolastici, a quel tempo, soprattutto della scuola media, hanno sensibilizzato i loro docenti a questo concetto di valutazione formativa e quanti invece si sono solo preoccupati di trasformare i voti in giudizi, e legittimarne la trasformazione da parte del Collegio, arrivando perfino a semplificare l’operazione attraverso l’uso di “timbrini” ma lasciando inalterata la concettualizzazione della valutazione scolastica come sommativa (orientata ai risultati e non ai processi), addebitata alla responsabilità totale dei ragazzi.
Non possiamo perciò ora lagnarci che sia stata fatta l’operazione contraria alla comparsa del regolamento infausto della Gelmini sulla valutazione.
Chi riuscirà ora a togliere dalla mente dei docenti che una valutazione negativa, comunque, per quanto attiene il primo termine del binomio insegnamento-apprendimento, è da ascrivere alla propria responsabilità? Per come imposto la didattica, per quanto stempero le difficoltà per renderle affrontabili, per quanto coinvolgo i ragazzi attraverso una relazione suggestiva con il sapere, per quanto ho io docente una motivazione alla “padronanza” nel mio lavoro e non solo alla “prestazione” per cui dopo aver fatto le mie ore di lezione mi sento a posto. Per quanto attiene poi l’apprendimento dell’allievo è ovvio che emergono anche le sue responsabilità e le sue motivazioni e nello sfondo quelle della famiglia.
Veniamo ora alle prove Invalsi. Chi ha paure delle prove Invalsi ed inventa mille argomentazioni per scansarle, invalidarle, svalutarle?
Possono essere tutto quello che viene detto su di loro se l’istituto che le crea effettivamente non si affida ad esperti, come sollecitava Gattullo. Sono però un validissimo aiuto a fare una “istantanea” alla propria classe, utile ad avviare un’ulteriore riflessione su eventuali lacune o salti.
Come può essere che non mi interessa vedere come si pongono i miei ragazzi di fronte ad una domanda insolita, ad uno stile e modo diverso di essere interpellati; non mi interessa prendere atto che possiedono o non possiedono schemi validi di mobilitazione delle conoscenze, che pur hanno, per affrontare problemi nuovi; non mi interessa sapere se sono riuscito con la mia didattica ad attivare questi schemi utili a trasformare le conoscenze in competenze?
In altri termini, come si fa a non capire che la professione dell’insegnante, in quanto formatore, è una professione che non può smettere mai di mettersi in discussione e di adottare per questo una raffinata continua riflessività?