A “misura” di ogni bambino/a
Dico in prima battuta che la scrivente, come molti altri insegnanti, non teme la valutazione del proprio operato né di quello degli alunni e delle alunne. Lo affermo per sgombrare il campo dall’assunto che vorrebbe la scuola come autoreferenziale e timorosa di mostrare difficoltà e risultati.
Con coscienza pedagogica si vuole viceversa precisare che la contrarietà alle prove Invalsi dipende unicamente dalla lucida constatazione magistrale che prove standardizzate non rispondono alle esigenze valutative dell’ordine della scuola elementare, del modo di insegnare e apprendere di maestri/e, alunni/e. Anzi, le si considera assolutamente avverse a un pedagogia della relazione, della conversazione, dell’autocorrezione e dell’apprendimento che si fa ragionando in itinere sull’errore e sulle strade che hanno portato a risultati errati.
Sono anni che gran parte della scuola elementare ha adottato la via della valutazione formativa, quella dei tempi lunghi e distesi, il tutto senza forzare l’applicazione di programmazioni rigide, spesso imboccando la via più consona a bambini e bambine, quella della postprogrammazione. Ciò è avvenuto per sostenere un apprendimento che porti ognuno/a, nel rispetto delle diversità e degli stili di apprendimento, ad aumentare l’autostima, a potenziare le individuali inclinazioni, nella consapevolezza che il sapere è la risultante di molteplici saperi e di esperienze disciplinari differenziate. L’obiettivo di una valutazione formativa, rispettosa delle diverse tipologie di intelligenza, è proprio stato quello della lotta alla dispersione che stava avvenendo, anche in tenera età, a causa di uno spostamento, verificatosi negli anni ottanta, in direzione di uno spinto cognitivismo.
Coniugare cognitivismo con buone relazioni e buon clima delle classi è stato il diktat delle fatiche didattiche e metodologiche di maestre/i fino all’avvento dei voti e dei test degli anni 2000.
Indubbiamente la buona scuola elementare ha assunto negli anni più il ruolo di osservatrice degli apprendimenti, delle difficoltà e dei successi. Ha valorizzato una pedagogia dell’errore come risorsa per accompagnare alunni/e a superare consapevolmente ostacoli, per decondizionare da pregiudizi, per affrontare disparità culturali di provenienza. La scuola elementare ha assorbito al suo interno tutte le contraddizioni della società, delle molteplici “educazioni” familiari d’origine e ha organizzato da se stessa modi e pratiche per dare basi critiche e culturali al più grande numero di bambine e bambini possibile.
Diverse sperimentazioni della scuola elementare hanno dato vita ad esperienze prive di griglie e schemi valutativi in nome della convinzione che la scuola sia luogo di attenzione accogliente di intelligenze in via di fioritura.
Tali sperimentazioni ritengono che il lavoro quotidiano dia conto di per sé di eventuali lacune e risultati più o meno positivi e ritiengono che il bambino sia talmente in situazione di mutamento continuo e, a volte repentino, da non consentire valutazioni di sistema, sedicenti rigorose e oggettive.
Perché questa mania di etichettare, di mettere nero su bianco ogni respiro, puntando il dito sulle difficoltà, sulle mancanze, sulle lacune?
Non ci sono forse i lavori quotidiani a rendere già conto dei risultati raggiunti da ognuno/a in base alle proprie risorse e ai percorsi intrapresi?
Si è sicuri che prove strutturate in tempi e modalità decise da altri che non siano gli/le insegnanti possano portare alla conoscenza effettiva dei livelli delle scuole?
La scuola dovrebbe invece avere ancor più il coraggio di ribaltare il problema della valutazione, muovendosi in direzione di un’osservazione coinvolta nei processi di apprendimento, iniziando a riflettere su come sia importante per ogni persona in crescita trovare autostima in un apprendimento anche cooperativo fra pari, in un continuo aiuto reciproco per la risoluzione dei problemi.
Le prove strutturate Invalsi nella scuola primaria come possono dar conto di alcunché quando proprio gli/le insegnanti di classe attenti alle sfumature e ai cambi repentini di atteggiamento dei loro studenti ogni giorno hanno più di una sorpresa sui cosiddetti livelli di apprendimento?
Molti di noi pensano che la scuola né formi né istruisca proprio quando è fatta della triade “programmi, programma, test”; tale triade ci sembra “utile” soltanto al fine di far rientrare risultati parziali ed estemporanei in schemi prestabiliti.
Riteniamo che insegnare, come maestri/e, sia rendersi conto di un problema attraverso l’osservazione diretta in situazione di apprendimento, sia rimboccarsi le maniche, applicare strategie per risolvere il problema insieme con gli studenti, portandoli a costruire autonomamente un percorso vincente per quel segmento di apprendimento o di approccio relazionale con gli altri che non ha dato frutti soddisfacenti per la persona- studente e per il gruppo in cui vive.
Potrebbe sembrare “non scientifico”, ma si ritiene che non esista scientificità che tenga di fronte ai bambini e alle bambine in apprendimento, che oltretutto sono sempre condizionati da vissuti soggettivi.
Leggendo le prove standard somministrate negli anni da vari organismi, leggendo i documenti di accompagnamento, non si evince con chiarezza a quale scuola si rivolgano, a quali bambini/e, a quali percorsi didattici o metodologici.
Anzi, prove e documenti ci “ parlano ” del ” groviglio tecnico di strutture e sovrastrutture ” che probabilmente c’é sotto tutte le “operazioni di valutazione di sistema”.
Il nostro lavoro é “caldo“, si fonda sul modo indicativo, tempo presente; quello degli esperti, ma anche di insegnanti che partecipano alla stesura delle prove standard, ci pare, appunto, standard; ubbidisce ai criteri di quegli stessi esperti o insegnanti, al bambino e agli apprendimenti che essi hanno in testa; é “studiato” a tavolino e si anima del modo condizionale delle presupposizioni su ciò che lo studente “medio” dovrebbe sapere e dovrebbe essere in grado di…uno studente “modello” di una scuola “modello”.
Il nostro studente invece é lì coi suoi “problemi” presenti, con le sue richieste inespresse che noi dobbiamo interpretare minuto dopo minuto, anche se i suoi modi “non ci piacciono” e conducono il nostro lavoro didattico verso direzioni che noi non avevamo “pensato” e ci fanno riflettere sul significato, sulle modalità e sul senso del “valutare” oggi.
Anche la partecipazione a corsi di aggiornamento, a scambi di esperienze concrete, per noi insegnanti, é spesso spinta dalle difficoltà che sorgono, sempre diverse, così come sono diversi i ragazzi e le ragazze che affrontiamo; invece il sapere di chi “parla” di scuola e costruisce su basi “scientifiche” prove di “valutazione per” diviene subito vecchio e inapplicabile alla realtà pulsante delle classi soggetta alle modificazioni della “storia” sociale che “vive” e cambia repentinamente..
Ci si domanda inoltre a che cosa e a chi realmente porteranno benefici le prove Invalsi.
La scuola in realtà avrebbe urgente necessità di persone e materiali necessari per poter migliorare la vivibilità del clima scolastico e per poter sostenere il cuore della formazione, l’ingiustamente dato per “scontato” rapporto insegnamento/apprendimento.
Le forze in campo, esperti e insegnanti delle commissioni Invalsi, dovrebbero mettersi al servizio della scuola reale, per conoscerne le esperienze e rispettarne la problematicità quotidiana, nel suo sforzo immane di far fronte alle sfide dell’apprendimento/insegnamento nella società che muta, con la carenza “storica” di mezzi, strumenti, risorse, tempo scuola svuotato dall’attacco delle politiche scolastiche al tempo pieno, ai moduli, al sostegno, alle risorse in generale.
La scuola ha bisogno di quiete.
Claudia Fanti