L’attualità della “Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro”

L’attualità della “Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro”

di Margherita Marzario

Abstract: Conducendo un esame filologico e culturale di un documento nazionale, passato per molti versi inosservato, l’Autrice ne riscopre l’attualità nel felice connubio tra gioco e educazione.

Nel giugno 1967 in un periodo in cui non era ancora diffusa l’odierna cultura dell’infanzia, il Comitato italiano per il gioco infantile ha emanato a Roma, a conclusione di un convegno nazionale, la “Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro” (cosiddetta Carta italiana), a molti ignota, che ha preceduto alcuni principi della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 (cosiddetta Convenzione di New York) e della legge 28 agosto 1997 n. 285 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”.

Innanzitutto bisogna riflettere sul titolo e sull’accostamento tra gioco e lavoro. Come si arguisce dall’articolato, la ratio legis di questa Carta è preservare la vitalità, l’approccio ludico dei bambini alla vita, dove “ludico” è diverso da “giocoso”. Etimologicamente “ludico” deriva dal latino “ludus” che significa anche “gioia, piacere, esultanza”, mentre la parola “lavoro” deriva dalla radice “labh” che significa “afferrare, prendere” e quindi in senso figurato “volgere il desiderio, la volontà, l’intento, l’opera a qualcosa”. Il gioco ed il lavoro sono, pertanto, espressione di energia vitale. Gli adulti nel “per-corso” della vita sono compagni di gioco che devono rispettare i ruoli e le regole del gioco, ove per “ruoli” non s’intende “qualcosa di predefinito” ma “complesso di relazioni e interazioni con gli altri”. Gli adulti devono salvaguardare l’approccio ludico, necessario anche allo sviluppo e potenziamento di metacompetenze, come la fantasia e la flessibilità, e con l’educazione dare orientamento, orizzonti, obiettivi alla ludicità, alla vitalità dei bambini. “Tutti noi, uomini e donne di ogni età, siamo soprattutto provvisori compagni di vita. Per questo non sarebbe male se chi ha qualche esperienza in più la mettesse a disposizione di chi è arrivato dopo, e sperimentasse il piacere di rendere la vita più facile al prossimo accompagnando i giovani nel mondo reale e in quello della fantasia” (Fulvio Scaparro).

Encomiabile e tuttora unica la formulazione d’inizio dell’art. 1: “La personalità del fanciullo è sacra”. “Sacro” etimologicamente significa “attaccato, aderito”, quindi il bambino è ontologicamente tale e ha ogni diritto ad essere tale. Dalla sua natura “sacra” discendono i “sacrifici” da parte di tutti, dai genitori alle istituzioni. Sacrifici che non significano, però, asservire tutto al bambino, come si tende a fare oggi. Si deve, invece, far vivere “convenienti rapporti umani” (art. 2) e fornire “convenienti attrezzature” (art. 5). “Conveniente”, che deriva dal verbo latino “convenire” (“cum”, insieme e “venire”, venire, quindi “incontrarsi, armonizzare”), richiama il principio dell’interesse (letteralmente “ciò che sta in mezzo”) del fanciullo, ovvero ciò che sta tra lui e gli altri, a cominciare da eventuali fratelli, non a caso negli artt. 147, 148 e 155 cod. civ. si distingue tra i “figli” e la “prole”. In concreto, non si devono coprire tutte le prese in casa, mettere paraspigoli dappertutto, usare posate di plastica e altre cose del genere, perché prima o poi il bambino si troverà di fronte a degli ostacoli. Non si deve cadere né in forme di infantilizzazione né, all’opposto, di adultizzazione.

Indicativa nell’art. 3 la locuzione “preparare i genitori ad una responsabile azione educativa” che ha anticipato le forme di sostegno alla genitorialità tanto promosse e non sempre realizzate oggi. Anzi, si può ricavare pure una definizione di genitorialità che non è un sentimento soggetto ad alterne vicende, ma un vincolo il cui contenuto si sostanzia in attività (e non solo affettività) e educazione che implica un feedback che è la responsabilità endofamiliare e esofamiliare. E’ pure sintomatico che si parli di “genitori” in un’epoca in cui si tendeva a parlare singolarmente del padre e della madre per evidenziare, invece, l’univocità dell’azione educativa. Istruttiva è anche la previsione finale dell’art. 3 in cui si afferma che il fanciullo non deve “essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori”, che riecheggia nell’art. 147 cod. civ. ove si legge: “[…] tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. “Non essere subordinato” significa altresì che il figlio non deve essere soggetto a continui traslochi o trasferimenti o altri spostamenti solo per il carrierismo o per la realizzazione della casa dei sogni o di altri egoismi dei genitori. “Non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” è ancor di più un monito per i genitori in crisi di coppia che non devono dimenticare che i partner si possono cambiare o abbandonare, ma i figli no. A proposito di esigenze, grazie alla dimensione ludica della vita, ogni genitore, ma in particolare la madre che tende ad essere possessiva, dovrebbe acquisire la capacità di uscire da se stessa, mettendo tra parentesi le sue esigenze e vivere per l’altro, ascoltandolo, imparando a decifrarne il linguaggio, a capirne le esigenze e i veri bisogni. “Occorre che la famiglia si renda conto della autonomia del fanciullo”, frase che risulta ancor più incisiva nel nostro periodo in cui la famiglia è spesso causa di dipendenze, in particolare quella affettiva.

L’art. 4, relativo alla scuola, in maniera lungimirante ha anticipato concetti maturati nei nostri tempi, quali “rete scolastica” e “diritto del fanciullo all’istruzione”. Tutta la formulazione dell’art. 4 risulta essere avveniristica, cioè sembra riguardare la scuola del futuro, soprattutto la parte finale dove si legge: “[…] consenta a ciascuna scuola di assorbire un numero di alunni tale da non compromettere la sua effettiva efficienza formativa”. La scuola di oggi, soggetta a continui e drastici tagli che, tra l’altro, hanno portato a “classi pollaio”, non sembra rispondere a questo criterio. “Effettiva efficienza formativa” richiama la locuzione “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” della parte finale del 2° comma dell’art. 3 della nostra Costituzione. Solo una persona effettivamente e efficientemente formata può essere cittadino, ovvero partecipare attivamente alla vita del proprio Paese. L’auspicata “effettiva efficienza formativa della scuola” consente anche al fanciullo di partecipare “liberamente” e “pienamente” alla vita culturale ed artistica, come previsto nell’art. 31 della Convenzione Internazionale. Inoltre la locuzione “significative esperienze” richiama quella tanto usata oggi di “relazioni significative” che si può riferire alla figura degli insegnanti (parola che etimologicamente ha la stessa origine di “significative” dalla parola “segno”, perché dovrebbero “lasciare un segno”) i quali dovrebbero ricordare quello che affermava il filosofo olandese Erasmo da Rotterdam: “Il reciproco amore fra chi apprende e chi insegna è il primo e più importante gradino verso la conoscenza” (è un aspetto di quella che è attualmente chiamata “didattica relazionale”).

Si dovrebbe riflettere sulla locuzione “libere attività ludiche, culturali, ricreative e sportive” nell’art. 5, che per quest’intrinseco collegamento tra le attività ha preannunciato il contenuto dell’art. 31 della Convenzione di New York. Rilevante è, poi, la formula di chiusura dell’art. 5: “con la eventuale partecipazione dei genitori e degli adulti”; oggi nelle ludoteche, nelle feste animate o in altri contesti vi è sempre la presenza adulta che diventa iperprotezione o oppressione ed il contrario di quella sicurezza (dal latino “sine cura”, “senza affanno o preoccupazione”) necessaria per il benessere proclamato nella Convenzione di New York. Tutto l’art. 5, relativo all’ambiente comunitario (già nominato nell’art. 1), si può adattare alla comunità web che dovrebbe essere difesa dai pericoli del traffico dei social network e della vita intensa e distratta degli adulti, consentire ai fanciulli di svolgere libere attività, con l’assistenza di personale appositamente preparato (nei luoghi ad hoc, quali scuole, internet point, centri polivalenti) e con l’eventuale partecipazione dei genitori e degli adulti, che devono vigilare dati i crescenti rischi di pedopornografia on line. Inoltre l’art. 5 ha preconizzato il concetto di comunità educante in uso oggi.

L’estensore è stato avveduto anche nella redazione dell’art. 6 nel parlare di “disadattamento”, purtroppo dilagante oggi, e di “carattere ludico” che ha preceduto in qualche modo la diffusione della ludoterapia. L’art. 6 ha anticipato dal punto di vista culturale l’art. 2 della legge 517/1977, relativo agli “alunni portatori di handicaps”.

Facendo un combinato disposto tra l’art. 7 e l’art. 8 si ricava un monito valido nel presente più che in passato: “È dovere perseguire una politica di servizi socio educativi da parte di quanti sono impegnati allo sviluppo, in senso moderno, della società italiana”.

In tutta la Carta si ripete più volte la necessità di “personale preparato” (definito anche “qualificato” e “particolare”), perché educare è “preparare” (letteralmente “disporre una cosa per l’uso a cui è destinata”) alla vita (dalla lettera d dell’art. 29 della Convenzione del 1989) ed occorre essere preparati (dall’art. 3 par. 3 Convenzione), non solo come bagaglio teorico ma soprattutto come predisposizione d’animo.

Coniugando locuzioni presenti negli artt. 3 e 4 si può dire che l’educazione è far esplicare le fondamentali esigenze del bambino e offrirgli significative esperienze. Piuttosto l’educazione stessa è esigenza ed esigere (dal latino “ex agere”, “spingere fuori”), esperienza ed esperire (dal latino “experior”, “venire in cognizione provando e riprovando”).

Si noti ancora che si parla di “libero, totale ed armonico sviluppo” (art. 1) e di “equilibrato e completo sviluppo” (art. 4), espressioni più ampie di quella usata nel Preambolo della Convenzione “pieno ed armonioso sviluppo”.

Per tre volte è ripetuto l’aggettivo “libero”. La libertà è forse un altro aspetto trascurato nell’educazione odierna. La libertà presuppone un incontro, in questo caso tra il giovane e l’adulto: il discepolo deve essere aperto a lasciarsi guidare alla conoscenza della realtà e l’educatore deve essere disposto a donare se stesso. Ed è proprio sulla relazione che insiste tutta la Carta: “convenienti rapporti umani” (art. 2), “migliori rapporti umani” (art. 3), “vita di relazione” (art. 7). Perché l’uomo è relazione e ne ha bisogno come dell’aria che respira, come mostrato dalle ricerche effettuate dallo psicoanalista austriaco René Spitz nel 1945. Il gioco e il lavoro sono forme di relazione ed anche per questo vanno tutelati come diritti.

“Noi vogliamo che i nostri figli crescano accettando di vivere, ed essendo capaci di vivere, all’interno del loro ambiente senza soffocarli; che crescano con la capacità di comunicare con gli altri esseri umani e di rispettarli, senza con ciò perdere la propria individualità; che crescano possedendo immaginazione e capacità di sognare, e coraggio per affrontare il mondo e per trasformare in realtà i sogni” (così la pedagogista Elizabeth M. Matterson)[1].



[1] Elizabeth M. Matterson, “Come far giocare i bambini dai 3 ai 7 anni”, 1972.