Censis: Il Rapporto Annuale 2007

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Censis: Il Rapporto Annuale 2007

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:11

Il Rapporto Annuale 2007
2007 - XLI Rapporto sulla situazione sociale del paese
7 Dicembre 2007

* Le considerazioni generali
* La società italiana al 2007
* I processi formativi
* Lavoro, professionalità, rappresentanze
* Il sistema di welfare
* Territorio e Reti
* I soggetti economici dello sviluppo
* Comunicazione e media
* Processi innovativi
* Sicurezza e cittadinanza

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Le considerazioni generali

Per uscire dall’attuale stato di “poltiglia” sociale
dobbiamo puntare sulle tante minoranze attive nell’economia, nella società e nelle scienze

In continuità con gli ultimi anni il Censis conferma una sequenza positiva di lungo periodo (dal rifiuto dell’ipotesi del declino, alla patrimonializzazione, dall’individuazione di schegge di vitalità economica fino al piccolo silenzioso boom descritto lo scorso anno).
Oggi si può confermare una visione positiva: sia perché cresce nelle imprese la qualità delle strategie competitive (di nicchia, di offerta sul mercato del lusso, di lavoro su commessa, ecc.); sia perché si va allargando la base territoriale dello sviluppo; sia perché abbiamo finalmente anche noi dopo decenni alcuni importanti big-players. Ed è una visione positiva che sembra poter superare anche le turbolenze finanziarie addensatesi negli ultimi mesi.
Tuttavia, le dinamiche di sviluppo in atto restano dinamiche di minoranza, che non filtrano verso gli strati più ampi della società. Lo sviluppo non filtra sia perché non diventa processo sociale, sia perché la società sembra adagiarsi in un’inerzia diffusa, una specie di antropologia senza storia, senza chiamata al futuro. Una realtà sociale che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa. Una realtà sociale che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio. Settore per settore nulla quest’anno ci è stato risparmiato: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. Viviamo insomma una disarmante esperienza del peggio.
Tanto che, quasi quasi al termine poltiglia di massa si potrebbe (con eleganza minore) sostituire il termine più impressivo di “mucillagine”, quasi un insieme inconcludente di “elementi individuali e di ritagli personali” tenuti insieme da un sociale di bassa lega.
Pertanto in una società così inconcludente appare difficile attendersi l’emergere di una qualsivoglia capacità o ripresa di sviluppo di massa, di “sviluppo di popolo” come si diceva una volta; e le offerte innovative possono venire solo dalle nuove minoranze attive, ovvero:

- la minoranza che fa ricerca scientifica e innovazione tecnica è orientata all’avventura dell’uomo e alla sua potenzialità biologica;

- la minoranza che, nella scia della minoranza industriale oggi rampante, fa avventura personale e sviluppo delle relazioni internazionali (si pensi ai giovani che studiano o lavorano all’estero, ai professionisti orientati ad esplorare nuovi mercati, agli operatori turistici di ogni tipo, ecc.);

- la minoranza che ha compiuto un’opzione comunitaria, cioè ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;

- la minoranza che vive il rapporto con l’immigrazione come un rapporto capace di evolvere in termini di integrazione e coesione sociale;

- la minoranza che si ostina a credere in una esperienza religio­sa insieme attenta alla persona e alla complessità dello sviluppo ai vari livelli;

- e le tante minoranze che hanno scelto l’appartenenza a strutture collettive (gruppi, movimenti, associazioni, sindacati, ecc.) come forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita.

Si tratta senz’altro di una sfida faticosa, che le citate diverse minoranze dovranno verosimilmente gestire da sole. Ma sfida desiderabile, per continuare a crescere forse anche con un po’ di divertimento; sfida realistica, perché non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di mettersi nel solco di modernità che pervade tutti i Paesi avanzati.
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La società italiana al 2007

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:11

La società italiana al 2007


Di meno, ma meglio: la revisione strategica dei consumi familiari. Budget risicati, consumi in lieve crescita, rialzo delle spese per la casa e, allo stesso tempo, boom di prodotti e modalità di acquisto innova­tive: è questa l’essenza della revisione strategica dei budget familiari che fa convivere tutela del tenore di vita e accesso a nuovi beni, auto-percezione della propria vulnerabilità socioeconomica e persistente caccia a beni e servizi di qualità. I redditi reali familiari crescono in misura ridotta (+0,5% tasso annuo) e per il prossimo biennio saranno di poco superiori all’1%. Cresce l’incidenza sui consumi delle spese per l’abitazione passate, nel periodo 1996-2006, dal 20,6% al 26%, attestandosi al 31% se vi si includono le spese per energia e combustibile. 2,4 milioni di famiglie hanno un mutuo a carico che comporta un esborso medio annuo di 5,5 mila euro pari a circa il 14% della propria spesa. Per oltre 622 mila famiglie con una spesa media mensile fino a 2 mila euro il peso del mutuo sale a quasi il 27% della propria spesa totale e per i single giovani al 19,2%. Il ricorso al credito al consumo è passato da 48 miliardi circa di euro del 2002 a oltre 85,6 miliardi di euro del 2006, con un incre­mento del +78%. Tuttavia le famiglie insolventi sono solo l’1,7%, e quelle che hanno dichiarato difficoltà nel far fronte alle rate il 6,3%. Il 58% delle famiglie effettua regolarmente acquisti nei mer­cati rionali, il 60% presso gli hard-discount che hanno aumentato il loro fatturato globale del 45%. E’ il 66% delle famiglie con figli a cambiare punto vendita cercando di massi­mizzare le offerte. Il 37% degli italiani associa il low cost a tutte le fasce di popolazione, mentre è il 21% a ritenerlo appannaggio delle sole famiglie a basso reddito; il 60% degli italiani ha dichiarato che ha uti­lizzato o utilizzerebbe il low cost.

La flessibilità fa crescere il lavoro, ma dopo? Dei quasi 1 milione 900 mila lavoratori che hanno trovato un’occupazione, il 38,2% ha un contratto a termine, l’8,7% un contratto di lavoro a progetto o occasionale e il 36,1% un contratto a tempo indeterminato. Tra gli under 35 si registre la più elevata incidenza di contratti atipici. I giovani infatti rappresentano la parte decisamente maggioritaria - il 58,2% - del lavoro atipico in Italia. Ma nel 2006, su 902 mila lavoratori che si sono ritrovati senza occupazione, perché l’hanno persa, o perché si sono ritirati dal lavoro, più di 346 mila erano persone con meno di 34 anni (il 38,4%) e il 22,2% persone dai 35 ai 44 anni.

Riorganizzarsi anche all’estero. 38.690 studenti italiani si sono iscritti in facoltà universitarie straniere, in prevalenza tedesche (il 19,9%), austriache (16,1%), inglesi (13,7%), svizzere (11,6%), francesi (10,4%) e statunitensi (8,8%); e sono stati più di 11 mila e 700 (vale a dire il 3,9% del totale) i laureati che ad un anno dal conseguimento del diploma hanno trovato lavoro all’estero; il numero delle imprese estere partecipate da aziende italiane è arrivato a quota 17.200, per un volume di addetti pari a oltre 1milione 120 mila lavoratori. Sono stati circa 13.368 gli italiani ad elevata qualificazione che si sono spostati, temporaneamente, dall’Italia agli Stati Uniti: di questi, 6.179 (+51,6% tra 1998 e 2006) sono lavoratori altamente specializzati, 5.692 (+51,7%) sono quadri o dirigenti di imprese internazionali, e infine 1.497 (+166,8%) sono in possesso del visto O1, concesso esclusivamente a lavoratori con “straordinarie capacità o risultati”.

Il ruolo crescente dei global player. Le quote italiane del Pil e dell’export mon­diali appaiono in flessione, ridotte rispettivamente al 2,7% e al 3,4% nel 2006. Ma non si può tralasciare che si tratta di fette più piccole di una torta (la produzione mondiale, l’export globale di prodotti e servi­zi) che nel frattempo si è allargata enormemente. Se oggi il rapporto dell’Italia con la prima potenza economica (gli Stati Uniti) è di 1 a 7, nel 2050 il rapporto con la maggiore potenza mon­diale (la Cina) sarà prevedibilmente di 1 a 21. Il downgrading riguar­da naturalmente tutte le economie occidentali. Ma, le proiezioni al 2050 assegnano alla nostra economia, dall’attuale settimo posto, ancora la decima posizione nel mondo, mentre Spagna e Canada escono dalla top 10.

L’ascesa delle imprese competitive. Le imprese dell’industria in senso stretto con più di 20 addetti sono appena il 7,1% del totale, dunque, una netta minoranza numerica, ma nei fatti capa­ce di sviluppare una forza propulsiva determinante poiché tale nume­ro ridotto di aziende (non più di 37.000 unità) genera quasi l’80% del fatturato industriale ed il 75% del valore aggiunto.

La potenza delle concentrazioni finanziarie. Tra le prime 10 operazioni di fusione e acquisizione realizzate nel 2007, 5 riguardano le banche ed una in particolare, quella della incorporazione di Capitalia in Unicredit, raggiunge un valore estremamente elevato, superiore a 21 miliardi di euro. La quota di attivi­tà realizzate dai primi cinque gruppi bancari italiani è passata dal 45% dello scorso anno all’attuale 53,5%. La quota di mercato del 37% che nel 2006 era distribuita fra quattro dif­ferenti gruppi oggi è realizzata da due soli operatori.

La forza pervasiva della criminalità organizzata. I comuni del Sud in cui sono presenti sodalizi criminali sono 406 su 1.608. Complessivamente 610 comuni in Italia hanno un indicatore manifesto della presenza di criminalità organizzata (clan mafioso o bene confi­scato o scioglimento negli ultimi tre anni). Si tratta di 13 milioni circa di individui su di un totale di 16.874.969, vale a dire il 77,2% del totale della popolazione residente nelle quattro regioni a rischio e circa il 22% della popolazione italiana. In queste stesse aree viene prodotto il 15,1% del Pil nazionale e si registra il 13,2% dei depositi bancari e il 7,1% degli impieghi.
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I processi formativi

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:13

I processi formativi

I giovani, in accordo con le famiglie, per oltre il 90% dei casi scelgono dopo la terza media un percorso di istruzione secondaria di II grado. La progressione negli studi, a prescindere dal come essa si realizzi (scuola o formazione professionale), costituisce oramai un valore introiettato da giovani e famiglie. È necessario rafforzare l’azione dei servizi di orientamento con particolare riferimento al sottosistema della formazione professionale. Sono gli stessi giovani che nel 57,7% dei casi ritengono troppo generiche, se non inesistenti (15,4%), le attività di orientamento erogate in uscita dalle scuole medie, a cui fanno eco i genitori che per il 51,4% reputano insufficienti le informazioni sui corsi dell’istruzione-formazione professionale. La mancanza di consapevolezza può provocare disagio ed insofferenza verso lo studio. Ad un elevato accordo sulla complessiva funzione educativa della scuola si contrappongono opinioni altrettanto condivise dagli stessi giovani sulla scarsa attrattività dei percorsi scolastici perché noiosi e poco attraenti (6,2) o di cui viene sottolineata la sostanziale obbligatorietà (6,3).

In soli cinque anni, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana nelle aule del nostro sistema scolastico è più che raddoppiata: erano 239.808 nell’anno scolastico 2002-03 e nel 2006-07 hanno superato le 500.000 unità. Gli insegnanti da parte loro segnalano, con frequenza analoga per le scuole elementari e per le scuole medie, soprattutto l’esigenza di poter contare su un maggiore supporto da parte di soggetti esterni alla scuola, nell’ordine: esperti e mediatori culturali (83,5%) e istituzioni locali e nazionali (80%). Il 78,4% dei docenti, e soprattutto quelli della scuola primaria, ritiene molto o abbastanza problematiche le difficoltà di comunicazione e di comprensione della lingua italiana da parte degli alunni di origine immigrata; il 77,9% degli stessi segnala la difficoltà di conciliare l’età anagrafica dei ragazzi giunti in età scolare e le conoscenze da loro effettivamente possedute. Tale problema è particolarmente incidente a livello di scuola secondaria di I grado.

In ambito europeo l’Italia registra il più basso grado di accordo (34%) circa l’eventualità che i laureati triennali possano trovare un lavoro in linea con il titolo posseduto (valore medio Ue 27: 49%) ed il più alto consenso (61%) circa l’opportunità che gli stessi laureati frequentino un master programme a completamento del primo ciclo di studi universitari (media Ue 27: 46%). Non stupisce allora che studenti e famiglie siano proiettati verso gli studi universitari post-triennali. In Italia l’offerta dei master è ancora relativamente recente e presenta un elevato tasso di turnover dei corsi offerti (oltre il 30% è rappresentato da new entries). L’analisi dei servizi offerti dai master sembra indicare una sostanziale soddisfazione delle aspettative in termini di qualità/prezzo. Sussiste un rapporto di proporzionalità diretta tra i costi di iscrizione e la gamma di servizi offerti. Il 66,1% dei master con prezzo compreso tra i 5.400 e i 10.000 euro e il 65,6% di quelli che costano oltre 10.000 euro si caratterizzano per un’elevata offerta di servizi di supporto alla didattica. Il 63% di chi ha partecipato ad un master ritiene di averne tratto vantaggio (di questi il 71% ha trovato lavoro dopo ed il restante 29%, già occupato, ha migliorato livello di retribuzione, posizioni contrattuale e professionale).

Oggi, in Italia, gli studenti universitari fuori sede sono oltre 350.000. Questo fenomeno ha una rilevanza economica di non poco conto. La distribuzione degli studenti fuori sede disegna un’Italia nella quale i flussi “del sapere” sono tutti orientati nella direttrice Sud verso Nord. Per alcune regioni il saldo entrati meno usciti è fortemente positivo (Emilia, Lazio, Toscana, Lombardia) per altre in profondo rosso (Puglia, Calabria, Campania, Basilicata). Se la spesa media mensile di un fuori sede - tasse, alloggi, vitto, tempo libero, mobilità - è stimabile in circa 1.100 euro al mese, ciò si traduce per una regione come l’Emilia Romagna, in entrate annue di circa 800 milioni di euro, per il Lazio di circa 730 milioni e, al contrario, in uscite di circa 500 milioni di euro per la Puglia e circa 400 per la Calabria. La somma complessivamente spesa dalle famiglie italiane ogni anno per lo studio fuori regione è quantificabile in 3,5-3,7 miliardi di euro, ovvero nel complesso doppia rispetto a quanto speso per il pagamento delle tasse universitarie per l’intera popolazione studentesca universitaria.

Per i giovani europei, e gli italiani in particolare, l’Unione Europea rappresenta soprattutto uno spazio dove è ampia la possibilità di viaggiare, lavorare e studiare. Si esprime in tal senso l’89,9% dei cittadini europei di età compresa tra i 15 ed i 30 anni e la stessa percentuale sale al 92,4% tra i coetanei italiani. Per la quasi totalità dei giovani italiani (96,6%), “essere cittadino dell’Unione europea” significa in primo luogo essere nelle condizioni di poter di studiare in uno qualunque degli Stati membri. Le previsioni per il futuro sono rosee: i giovani europei (91,6%) e ancora di più gli italiani (92,3%) sono convinti che da qui a 10 anni sarà più facile seguire traiettorie di mobilità sul territorio comunitario e che saranno maggiori le opportunità di lavoro rispetto a quelle attuali nei rispettivi paesi di residenza (77,2% e 72,8%, rispettivamente).

Dei 347 miliardi di euro che l’Unione Europea mette a disposizione per le politiche di coesione, l’Italia si è “assicurata”, un finanziamento comunitario per la programmazione regionale pari a 28,8 miliardi di euro, di cui 22,1 miliardi finanziati con il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) e 6,7 miliardi con il Fondo sociale europeo (Fse) e pari al 27% del totale delle risorse comunitarie.
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Lavoro, professionalità, rappresentanze

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:14

Lavoro, professionalità, rappresentanze


Il bilancio dell’anno è caratterizzato da un rallentamento nella capacità del mercato di produrre posti di lavoro, con un protagonismo meno evidente del lavoro a termine e probabilmente con un rallentamento, più evidente, dell’accesso di stranieri nel gioco degli scambi economici. Di conseguenza, l’occupazione mantiene un andamento positivo con valori che tendono a ridursi: la variazione degli occupati nel II trimestre 2006 su quello del 2005 era pari al 2,4%; la stessa variazione relativa al secondo trimestre 2007 sullo stesso periodo del 2005 è stata dello 0,5%.

In presenza di un problematico ritmo di crescita dell’occupazione si è osservata, al tempo stesso, la riscoperta delle competenze qualificate, soprattutto di tipo tecnico. Tra il 2004 e il 2006, dei 584 mila nuovi posti creati, il 90% hanno interessato profili tecnici intermedi, il cui incremento è stato quattro volte superiore a quello registrato per l’occupazione nel suo complesso. Nell’altalena dei profili professionali richiesti sono saliti i tecnici dell’amministrazione e dell’organizzazione (+12,3%), i tecnici dei servizi sociali (+22,3%) e i tecnici del settore ingegneristico (+11,9%).

Si conferma anche per quest’anno la riduzione del lavoro autonomo, che tende ad essere assorbito nell’occupazione dipendente, producendo, in particolare, un effetto di perdita di autonomia a carico di quella quota di lavoro indipendente che coincide con il lavoro intellettuale.

Ciò che invece non cambia è la condizione delle donne nel mercato del lavoro, rispetto alla quale si potrebbe dire che c’è ancora molto da fare. Nonostante tra il 2000 e il 2006 si siano creati più di un milione di nuovi posti di lavoro per le donne, pari un incremento del 12,5% complessivo, il tasso di attività femminile non è cresciuto come ci si poteva attendere, passando dal 48,5% del 2000 al 50,8% del 2006.

Sul piano delle relazioni di lavoro, l’anno è stato segnato dall’accordo sul welfare, stipulato nel luglio 2007 e trasferito sul piano normativo nel mese di novembre. L’esito complessivo del processo di approvazione dell’accordo ha dato ragione all’investimento che i sindacati hanno fatto sul piano della concertazione politica, che aveva bisogno di portare a casa anche un successo concreto; serviva, infatti, codificare in qualche modo la sua mobilitazione per il rafforzamento della democrazia rappresentativa, che da queste circostanze esce sicuramente più forte. Nel futuro a breve, non sarà possibile, almeno a parità di equilibrio politico formale, che i sindacati siano collocati solo all’interno di uno schema di “dialogo” sociale: e questo fa bene al paese e può far bene al lavoro, specialmente se acquisito come metodo e allargato alle tante componenti associative – anche legate al lavoro indipendente - che operano nel sistema produttivo.
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Il sistema di welfare

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:15

Il sistema di welfare

La salute diseguale. Nel mutevole assetto dell’offerta sanitaria è importante capire quali siano i livelli di performance e di benessere garantiti alla popolazione, nella loro diversa articolazione territoriale. Il quadro che emerge evidenzia un gradiente negativo Nord-Sud con un tendenziale peggioramento della situazione della salute dei cittadini residenti man mano che si procede verso le regioni meridionali, nonostante la struttura per età della popolazione, che determina un peggioramento degli indici di morbosità e mortalità all’aumentare del tasso di invecchiamento, tendenzialmente più elevato al Nord e al Centro. Si tratta di un peggioramento ampiamente legato al diverso contesto socioeconomico, mentre il quadro dell’offerta, storicamente più deficitario al Sud, non riesce a mitigare gli effetti penalizzanti di tali differenze di partenza.

I progressi nella governance condivisa della Sanità regionalizzata. Nel processo di evoluzione del Ssn, la fase attuale si caratterizza in modo netto come un momento di riformulazione e di rilancio delle funzioni del livello centrale, che prevedono però una costante concertazione con i livelli locali, in una rinnovata vocazione alla trasversalità e alla condivisione delle responsabilità. Tra gli interventi maggiormente significativi che si collocano appieno in questa direttrice di lavoro emergono il Patto per la Salute, che rinnova il modello di gestione economica e finanziaria dei servizi sanitari, e il SIVeAS, strumento del Ministero per la verifica che ai finanziamenti erogati corrispondano i servizi per i cittadini, e che questi ultimi rispondano a criteri di efficienza e appropriatezza.

La relazione medico paziente: un’area di trasformazione e di crisi. Gli italiani, in virtù di una più elevata scolarizzazione e della sempre maggiore diffusione di conoscenze sanitarie mettono sempre più frequentemente in discussione la secolare asimmetria di rapporto con il loro medico. La ridefinizione dei termini del rapporto ha prodotto un clima di incertezza e crisi: è il 97% degli italiani, primi in Europa, a ritenere che gli errori medici rappresentino un problema molto o abbastanza importante nel Paese, sintomatico di un disagio fondamentalmente culturale laddove si osserva che l’esperienza, diretta o indiretta, di malpractice non risulta più alta in Italia che nel resto dell’Europa a 25 (è il 18% dei rispondenti italiani, pari alla media europea, a sottolineare di aver subito in famiglia un grave errore medico durante un ricovero ospedaliero), mentre si registra in Italia l’aumento vertiginoso del numero di sinistri denunciati riconducibili alla responsabilità professionale dei medici che l’Ania stima passati dai 3.154 del 1994 ai 11.932 del 2004 (+278%).

La lezione dell’Alzheimer: una rete integrata di servizi. I malati di Alzheimer oggi in Italia sono oltre 500.000, i nuovi casi sono stimabili in circa 80.000 all’anno, e si tratta di un dato destinato ad aumentare (nel 2020 i nuovi casi di demenza attribuibili all’Alzheimer saranno circa 113.000). La condizione dei malati e dei loro familiari è emblematica delle difficoltà del nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nell’approntare risposte e soluzioni adeguate per la presa in carico delle patologie croniche e invalidanti. La delega alla famiglia dei compiti di cura e assistenza del malato di Alzheimer ha un ingente costo sociale (Costo Medio Annuo per Paziente - Cmap) che viene stimato in circa 60.900 euro all’anno. Questo costo pesantissimo può essere mitigato solo attraverso una vera e profonda revisione del modello delle cure: ecco perché in merito al modello auspicabile di assistenza l’opzione prevalente tra i caregiver (53,3%) è per la rete di servizi, articolata e gratuita su cui poter contare, una sorta di intervento modulare che mitighi senza sostituire la delega alla famiglia, rendendola più tollerabile e proficua.

Il rischio di una solidarietà selettiva. Quasi il 69% degli italiani ritiene che in caso di bisogno si può contare sull’aiuto degli altri, mentre l’idea che la cooperazione tra persone sia un portato della natura umana trova l’accordo di oltre il 75% degli italiani. Tuttavia, solo il 17,9% dei cittadini si organizza spesso o molto spesso con gli altri per risolvere un problema comune, ed è il 50% degli italiani a ritenere che l’immigrazione aumenti l’insicurezza, mentre è il 35% a pensare che gli altri gruppi etnici arricchiscano la vita culturale del nostro Paese (54% è il dato medio europeo).
Il costo previdenziale di un mercato del lavoro ostile alla longevità. Oltre il 31% dei pensionati, alla luce dell’attuale esperienza, ritarderebbero il proprio pensionamento; di 6,3 anni i maschi e di 5,8 anni le femmine, in media. E’ il 2,4% dei pensionati a lavorare; però, mentre sono i laureati a trovare più facilmente lavoro, sono quelli a basso titolo di studio ad avere una maggiore propensione a lavorare (62,3% con licenza elementare, 26,2% con laurea). E’ questo il paradosso del mercato del lavoro per gli anziani che impatta negativamente sulla previdenza.
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Territorio e Reti

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:16

Territorio e Reti


Il 2007 è stato caratterizzato da un rinnovato dibattito su come far ripartire in Italia una politica della casa in grado di creare un’offerta adeguata di alloggi in affitto a canoni accessibili. Negli ultimi tempi la produzione annua di alloggi sociali su tutto il territorio nazionale è scesa sotto le 2.000 unità (su un totale di circa 300.000 abitazioni costruite), e alcuni dati evidenziano in modo esplicito l’incapacità di fare incontrare domanda e offerta in modo efficace; infatti: i prezzi di mercato degli affitti (quelli della nuova offerta) sono cresciuti di oltre il 112% dal 1999 (anno delle riforma del mercato) al 2006 nelle città con più di 250 mila persone e di oltre il 103% in quelle di dimensioni inferiori; è progressivamente aumentato il numero degli sfratti per morosità (sono stati 33.000 nel 2006 i provvedimenti e messi per tale ragione, erano 21.000 nel 1990).

Il “sistema montagna”, dal punto di vista economico, è in crescita. Nelle stime attuali il valore aggiunto dei territori montani viene calcolato in circa 203 miliardi di euro, ossia il 16,7% del totale nazionale (era circa 165 miliardi di euro su base dati 1999). In quattro anni (dal ’99 al ‘03) la montagna è cresciuta più della media del Paese (10,5% contro il 6,5% della media nazionale). Ciò significa che quando il sistema Italia, nel suo complesso, cresce in maniera robusta in termini di nuovi beni e servizi messi a disposizione della comunità per impieghi finali, il sottosistema montagna fatica a tenere il passo. Quando tuttavia il sistema rallenta drasticamente, come è accaduto tra il 1999 e il 2003, la montagna rallenta di meno e, per così dire, ne approfitta per ridurre lo svantaggio. D’altra parte esiste anche una “montagna industriale”. In Italia i 156 distretti industriali rilevati dall’Istat interessano complessivamente 2.215 comuni. Si tratta di territori produttivi che ospitano circa 13 milioni di persone e che danno lavoro a quasi 5 milioni di addetti (il 25% del totale, ma quasi il 40% se si restringe l’ambito al settore manifatturiero). Ebbene, una quota non secondaria dei comuni italiani sul cui territorio si localizza un distretto industriale, sono comuni classificati come montani. Si tratta, nel complesso, di 870 enti locali, corrispondenti al 20,7% dei comuni montani italiani.

Nel 2007 i pendolari si sono attestati su oltre 13 milioni, con una incidenza pari al 22,2% della popolazione. Erano 9,6 milioni del 2001 (17%). Nell’intervallo 2001-2007 si è registrato, quindi, un incremento di pendolari studenti e lavoratori (soprattutto impiegati, operai e insegnanti) del 35,8%, corrispondente a 3,5 milioni di persone in più. Il riparto modale degli spostamenti conferma il ruolo predominante dell’auto privata, utilizzata complessivamente da poco più del 70% dei pendolari. Il 5,9% dei pendolari ricorre invece ai mezzi motorizzati a due ruote. E si conferma la funzione fondamentale dei servizi pubblici. Innanzitutto il treno, utilizzato giornalmente dal 14,8% dei pendolari (ovvero più di 1,9 milioni di persone) per effettuare gli spostamenti in ambito locale e metropolitano come unico mezzo di trasporto o in combinazione con altre modalità di spostamento.

Gli enti locali e i soggetti di rappresentanza economica che operano all’interno dei diversi territori provinciali segnalano l’esigenza di un presidio forte dell’area vasta in grado di innescare processi di coinvolgimento delle diverse soggettualità presenti nei territori e di concertazione in merito alle azioni da sviluppare. Più di due terzi del campione intervistato concordano sul fatto che questo tipo di funzione possa essere svolta dalle istituzioni provinciali. Le province dovranno dunque sempre più caratterizzarsi come centri di condensazione delle istanze territoriali. Il 23,1% degli intervistati pensa che le Province siano già adesso nelle condizioni di farlo, mentre il 45,4% ritiene che ciò possa concretizzarsi solo in corrispondenza di un incremento dei loro poteri reali.

Il ciclo di programmazione dei fondi strutturali europei 2007-2013 sarà caratterizzato dallo spostamento a est del focus delle politiche regionali. I dieci paesi dell’Europa Orientale entrati con le ultime due tornate del processo di allargamento (2004 e 2007), pur rappresentando in termini di popolazione poco più di un quinto del totale dell’Unione a 27, assorbiranno circa il 51% delle risorse stanziate nell’ambito della politica di coesione. Ciò ha comportato un sostanziale dimezzamento delle risorse sia per i paesi dell’Europa centro-settentrionale, destinatari nel 2000-2006 del 34,5% dei fondi e oggi passati al 16,8%, che per l’area del Sud Europa, alla quale nella passata stagione andava ben il 63,1% dei fondi strutturali e oggi solo il 30,6%. Per l’Italia si tratta comunque (forse per l’ultima volta) di importi ancora molto consistenti: il nostro paese riceverà infatti 28,8 miliardi di euro (dei quali 21,6 destinati alle regioni del Sud), posizionandosi al terzo posto tra i paesi beneficiari dopo la Polonia (67,3 miliardi) e la Spagna (35,2 miliardi). Si tratta di un’occasione che non può essere sprecata.
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I soggetti economici dello sviluppo

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:17

I soggetti economici dello sviluppo


La crescita per minoranze attive. Il maggiore contributo alla crescita è stato dato dal sistema delle imprese, in particolare dall’industria, che ha registrato una accentuata espansione all’estero. Nel 2006 l’incremento dell’indice del fatturato industriale derivante da vendite in Italia è aumentato del 7%, quello delle vendite all’estero è aumentato dell’11%. Il 2007 si chiuderà forse con un’ulteriore accelerazione del fatturato proveniente dall’export. Ci si chiede tuttavia quanto a lungo possa reggere un modello di crescita fondato su nuclei sempre più ristretti di imprese innovative.

L’inarrestabile concentrazione del potere economico. Il 2007 ha visto la realizzazione di alcuni tra i più grandi interventi di concentrazione e di fusione tra aziende, specie nel settore bancario. Il muro dei 90 miliardi di euro di valore delle operazioni di fusione portate a compimento nel 2006 è destinato a essere superato quest’anno se si tiene conto che la sola incorporazione di Capitalia da parte di Unicredit vale più di 21 miliardi di euro e conteggiando la recente operazione di Monte dei Paschi di Siena su Antonveneta. Aumenta il livello di concentrazione di potere lì dove operano i pochi big players italiani: nel solo sistema bancario la quota di mercato detenuta dai primi cinque gruppi è passata tra il 2006 e oggi dal 45% al 53%, così come il fenomeno è evidente nel sistema assicurativo. Nessun miglioramento di efficienza è però rinvenibile nelle imprese protagoniste di tali operazioni di concentrazione (non diminuisce né la bolletta energetica né i costi bancari e assicurativi) né è in atto un processo redistributivo, presso le famiglie, dell’incremento di ricchezza registrato da numerose imprese.

Ricambio generazionale ed impresa giovanile per un nuovo ciclo di crescita. E’ possibile cogliere una diffusa e crescente volontà di fare impresa da parte dei giovani, che lascia intravedere i primi segnali di un più consistente ricambio generazionale. Secondo le analisi di Infocamere, attualmente il 42% dei titolari d’azienda ha più di 50 anni, l’8% ne ha più di 70, mentre soltanto il 6,6% ne ha meno di 30. Su un totale di poco più di 200 mila, sono circa 154 mila le nuove realtà aziendali costituite nel 2002 ancora attive a tre anni di distanza come rilevato in una specifica indagine dell’Istat. Di queste, nel 30% dei casi alla nascita dell’impresa il titolare aveva meno di trent’anni e nel 40% aveva un’età compresa tra i 30 e i 39 anni. È interessante analizzare l’elevato livello di dinamismo di tali imprese e gli investimenti programmati per il rafforzamento del posizionamento sul mercato.

L’espansione controllata dell’indebitamento delle famiglie italiane. La crisi dei mutui subprime a metà del 2007 ha riportato prepotentemente l’attenzione, anche in Italia, sulla questione dell’indebitamento delle famiglie e su possibili rischi di default nel nostro Paese. Che sussistano situazioni limite di sovraindebitamento è certo, ma ad oggi il fenomeno sembra riguardare una quota assai ridotta di famiglie per le quali è necessario approntare strumenti ad hoc. Il Paese sembra reinterpretare, almeno per ora, la crisi dei mutui e dell’indebitamento in generale con spirito adattativo, cercando anche in questo caso una sorta di medietà tra la domanda di credito e il limite oltre il quale è bene non spingersi. La percentuale di prestiti bancari in sofferenza sul totale concesso alle famiglie è ormai su livelli stabili dal 2003, intorno allo 0,7%, molto più basso rispetto a quanto si rilevava alla fine degli anni ’90 quando esso si attestava all’1,5% e l’ammontare dei prestiti era molto più contenuto.
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Comunicazione e media

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:18

Comunicazione e media


La rivoluzione digitale continua. Oggi abbiamo già a disposizione 8 diversi media e ben 20 modalità alternative di accedervi. Vecchi e nuovi media convivono perfettamente nelle scelte delle persone, amplificando ulteriormente gli accessi individuali al mondo dei media.

Fotogrammi della rivoluzione digitale in atto. La televisione tradizionale risulta sempre il mezzo più usato, con il 92,1% di utenti complessivi, ma la tv satellitare raggiunge il 27,3% e la digitale terrestre il 13,4% degli italiani sopra i quattordici anni. Per la radio, al 56% di utenti da autoradio e al 53,7% di ascoltatori da apparecchi tradizionali vanno aggiunti il 13,6% di utenti da lettore Mp3 e il 7,6% da internet; per i quotidiani oltre al 67% di utenti che leggono un giornale tradizionale acquistato in edicola si deve consi­derare anche 34,7% di lettori di quotidiani gratuiti e il 21,1% di fre­quentatori delle pagine on line dei giornali via internet. L’integrazione tra i media ne incrementa l’uso, coinvolgendo in questo aumento d’attenzione anche quelli tradizionali. Mai la lettura di libri e giornali in Italia aveva rag­giunto punte così elevate. Il 59,4% di italiani che hanno letto almeno un libro nel corso dell’anno è un risultato confortante, ma il 52,9% ne ha letti almeno tre. La stessa tenuta di set­timanali (40,3%) e mensili (26,7%) conferma che la società digitale non solo non segna la fine della circolazione della carta stampata, ma che anzi la sostiene.

Smottamenti televisivi. Nel 2007 gli utenti della televisione in generale sono passati dal 94,4% al 96,4% della popolazione, rafforzandone ancora di più la natura di medium universale. La tv satellitare, in un anno, è passata ad attirare dal 17,7% al 28,3% degli utenti di tv, il digitale terrestre dal 7% al 13,9% e anche tutte le altre forme di tv fanno notevoli passi in avanti. Più netto risulta il progressivo passaggio dalla televisione tradizionale a tutte le forme di tv digitale tra i giovani. Il 99,1% di spettatori giovani di tv tradizionale del 2007 si ridimensiona nel 2007 al 93,5%, con la tv satellitare che arriva al 41%, la tv via cavo al 9,4% e la tv via internet all’8,6%. Tra i diplomati e i laureati c’è sempre un buon 94% che segue la tv tradizionale, però anche un 34,5% di pubblico di tv satellitare e un 16,2% del digitale terrestre, a cui si aggiunge anche un 7,1% di utenti di tv via internet e un 6,3% di tv via cavo.

Informazione quotidiana multi-mediale. Il pubblico dei lettori dei giornali cresce, visto che nel 2007 è entrato in contatto con la stampa d’informazione quotidiana il 79,1% degli italiani: fra quotidiani tradizionali acquistati in edicola, giornali che vengono distribuiti gratuitamente (free press) e siti internet aggiornati continuamente dai quotidiani (on line). Circa il 30% legge solo quotidiani a pagamento, a cui si aggiunge un altro 30% che legge sia quelli a pagamento che quelli free, un altro 11% circa quelli a paga­mento e on line, quasi il 13% tutti e tre. Calcolando che a leggere solo la stampa free sono meno del 10% dei lettori, si può constatare che ad accostarsi ad un solo modello di informazione a stampa sono sempre il 45% circa di italiani che da decenni costituiscono la tradi­zionale platea dei lettori dei giornali.

Radio ovunque. La sua flessibilità tecnologica l’ha resa uno degli strumenti di punta della rivoluzione digitale, che ha ridato una nuova, ennesima giovinezza alla radio, che nel 2007 è arrivata a raggiungere il 77,7% della popolazione italiana con punte dell’80,6% tra gli uomini, del 94,4% tra i giovani e dell’86,2% tra i più istruiti.

Internet di massa. Nel 2007 gli utenti in gene­rale di internet hanno raggiunto una quota pari al 45,3% della popo­lazione. Prendendo in considerazione solo gli utenti abituali, quelli cioè che si connettono almeno tre volte alla settimana alla rete, si è passati dal 28,5% del 2006 al 38,3% del 2007, con un indice di pene­trazione che ha raggiunto tra i giovani il 68,3% e tra i più istruiti il 54,5%.

Cresce l’abitudine alla lettura. La lettura dei libri negli ultimi anni si è attestata su livelli finalmente interessanti, raggiungendo nel 2007 il 59,4% rispetto al totale della popola­zione. Rispetto al 55,3% del 2006 il progresso non appare eccezionale, ma è notevole il passo in avanti dei lettori abituali, cioè di quanti hanno letto almeno tre libri nel corso dell’anno, che sono passati dal 39,4% al 52,9%. I meno istruiti rimangono al 42,3% complessivo, con un passaggio dal 27,9% al 36% dei lettori abituali. I più istruiti, invece, accrescono ancora il loro già elevato indice dei lettori in gene­rale (dal 72,6% al 74,8%), ma portano i lettori abituali dal 54,7% al 68%.

Cellulari, media basic. Nel 2007 il cellulare ha raggiunto un indice di pene­trazione complessiva pari all’86,4% della popolazione, ormai a un passo da quel 92,1% che costitui­sce il consumo complessivo della tv generalista. Il cellulare è considerato uno strumento d’uso praticamente quotidiano dal 76,9% degli uomini, dal 92,6% dei gio­vani e dall’81,4% degli utenti con il maggior livello di istru­zione. Il 55,9% dei suoi utenti lo impiega solo per le sue funzioni “basic”. Ai vari tipi di modelli smartphone si accosta il 34,9% degli ita­liani, mentre il videofonino è appannaggio del 9,3% utenti.
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Processi innovativi

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:19

Processi innovativi


Non tutti gli investimenti in R&s generano innovazione, non tutta l’innovazione nasce dalla ricerca.

145 mila piccoli imprenditori, pari a un quarto di tutte le aziende manifatturiere e informatiche con meno di 20 addetti, investono il 13% del monte ore lavorate e ben 1,8 miliardi l'anno per la competitività del made in Italy, valore questo che rappresenta il 19% delle spese aziendali.

Fra le imprese considerate, con un numero di addetti inferiore a 20, che dichiarano di svolgere attività di innovazione, il 42,6% realizza attività di ricerca anche in modo informale, mentre oltre il 73% utilizza processi e tecniche di produzione innovativa, il 63,5% si dedica all'innovazione di prodotto e il 61,5% introduce nuovi materiali nei propri cicli produttivi.

Il “cambio di passo” del Mezzogiorno: produzione di conoscenza e attrazione di risorse. La nuova programmazione dei Fondi strutturali riaccende le speranze per vedere finalmente avviata una fase di aggancio delle regioni meridionali ai flussi di crescita nazionali ed europei.

Il “cambio di passo” deciso per questo nuovo ciclo, risulta in linea con le strategie messe in atto da Bruxelles per rendere l'Unione europea l'area più avanzata sul piano della conoscenza a livello mondiale nei prossimi anni. Il Quadro strategico nazionale, comprensivo di cofinanziamento nazionale e risorse del Fondo aree sottoutilizzate prevede per l'insieme delle regioni meridionali un volume di poco superiore ai 100 miliardi di euro.

La discontinuità necessaria del nuovo periodo di programmazione 2007-2013 trova conferma anche nell'adozione del programma “Ricerca e competitività” in cui il Ministero dell'università e della ricerca e il Ministero dello sviluppo economico ne condividono il coordinamento. Gli interventi possono contare su 6,2 miliardi di euro da spendere nel settennio in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia (le regioni dell'obiettivo Convergenza) e sono orientati all'integrazione delle dinamiche di sviluppo che provengono dalla ricerca e dall'innovazione e che guardano prioritariamente alla capacità di attrazione di risorse e investimenti.

Memorie digitali: l'innovazione che guarda al passato. Solo da pochi anni in Italia gli audiovisivi sono oggetto di progetti di recupero e valorizzazione secondo un’ottica per lo più aziendale, orientata alla salvaguardia dei propri materiali d’archivio per fini commerciali. Una salvaguardia con una forte e indiscutibile valenza culturale che ha spinto anche le istituzioni ad occuparsi direttamente del fenomeno. La regione Lazio è leader per l’audiovisivo italiano con circa il 40% degli occupati dell’intero comparto. Il 42% delle imprese del settore rilevate afferma di possedere un archivio organizzato di materiale audiovisivo. Il dato è particolarmente significativo se si riflette sulla parcellizzazione a cui è stato sottoposto il comparto che oggi conta un 20% di imprese individuali ed un ulteriore 28% costituito da imprese con un numero di addetti inferiore a 5.

La pubblica amministrazione on line. Nell'erogazione on line di servizi pubblici di base, disponibili per i cittadini, l’Italia si colloca poco al di sotto della media europea (rispettivamente il 36,4% e il 36,8 %), ed è in dodicesima posizione nella graduatoria dell'Unione europea a 25 Stati. L’Isola di Malta detiene il valore più elevato nella realizzazione dei servizi on line per i cittadini con una percentuale dell’83,3%, seguita dal Regno Unito (80%), dall’Austria (70%) e dalla Svezia (63,6%).

Sull’utilizzo di servizi di e-government da parte dei cittadini, l’Italia con il 16,1% si colloca al diciannovesimo posto nella graduatoria; il valore medio europeo è pari al 23,8%.

Per contro si verificano livelli interessanti di utilizzo di servizi pubblici disponibili on line per le imprese, in tal caso l’Italia occupa il terzo posto della graduatoria europea con l’87,5%, ben al di sopra della media europea (67,8%); è preceduta dall’Austria (100%) ed è a pari livello con Belgio, Danimarca, Spagna, e Svezia. Quanto all’utilizzo di servizi di e-government da parte delle imprese l’Italia raggiunge il terzo posto della graduatoria con l'86,5%, preceduta dalla Danimarca (87,3%) e dalla Finlandia (92,8%).
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Sicurezza e cittadinanza

Messaggiodi edscuola » 7 dicembre 2007, 19:20

Sicurezza e cittadinanza


Il nuovo ruolo degli enti locali nelle politiche della sicurezza urbana. I Patti per la sicurezza siglati nelle maggiori città metropolitane e la formulazione da parte del Disegno di legge “Disposizioni in materia di sicurezza urbana ”riconoscono la necessità di dar voce e potere agli enti locali quali diretti protagonisti della sicurezza urbana, ma presentano una serie di criticità in quanto le risorse economiche destinate dagli enti locali a finanziare le politiche di contrasto della criminalità non saranno più disponibili per le azioni dirette alla coesione sociale e alla prevenzione, inoltre c’è il rischio di confusione sia con riferimento alle competenze dei vari livelli istituzionali, che relativamente alle attribuzioni della Polizia municipale se non sostenute da adeguate forme di riqualificazione e da una moderna normativa.

Le organizzazioni criminali sempre più dentro alle imprese. Un imprenditore meridionale su tre dichiara che il racket nella propria zona di attività è molto o abbastanza diffuso (33,1%); alta anche la percezione della presenza di usura (il 39,2% degli imprenditori ritiene che nella zona dove esercita la propria attività il reato sia molto o abbastanza diffuso). Assumono importanza fenomeni di distorsione della concorrenza per cui il 48,9% vede un aumento della nascita improvvisa di imprese concorrenti; il 15,1% percepisce una crescita dell’imposizione nell’utilizzo di manodopera ;il 13,2% crede che sia in crescita l’imposizione di forniture; il 45,3% degli imprenditori giudica poco o niente affatto trasparenti gli appalti pubblici.

Il bullismo nelle scuole cresce davvero? Gli atti di bullismo più frequenti di cui sono stati testimoni diretti gli studenti del Lazio sono gli scherzi pesanti (26,8%), le offese e le minacce (25,0%) e le prese in giro moleste (25,4%), mentre il 19,1% ha assistito a piccoli furti e il 15,2% ad aggressioni fisiche. Rispetto all’acutizzarsi del fenomeno, il Ministero dell’Istruzione ha deciso di costituire un’apposita Commissione che ha dato vita, tra l’altro, agli Osservatori regionali sul bullismo presso gli Uffici Scolastici Regionali, ad un numero verde di ascolto, consulenza e prevenzione e ad un sito internet. Inoltre la Commissione ha segnalato la necessità di disporre di dati statistici condivisi a livello nazionale e territoriale, che consentano di effettuare una mappatura del fenomeno e delle sue emergenze.

Il rischio di un’eccessiva frammentazione delle competenze sull’immigrazione. Se si considera il numero di amministrazioni da cui dipendono le principali decisioni in merito all’immigrazione e che sono incaricate di svolgere i compiti essenziali per la gestione della materia ma, soprattutto, se si guarda agli ambiti di possibile sovrapposizione potrebbe legittimamente sorgere il dubbio se un fenomeno così complesso possa essere gestito con la dovuta efficienza e tempestività da una tale pluralità di soggetti.

Le prime crepe nell’integrazione sociale degli stranieri. Negli ultimi cinque anni a fronte di una crescita media degli stranieri residenti in Italia dell’89,7%, i rumeni sono aumentati del 260,1%, passando dai 95.039 del 2002 ai 342.200 del 2006 e diventando la terza comunità in Italia. La stima Caritas dei soggiornanti fa salire il numero dei rumeni a 555.997, facendone la prima nazionalità straniera presente in Italia.

Di pari passo vi è stato un aumento dei rumeni sulla scena del crimine. Nel periodo 2004-2006 i cittadini romeni compaiono al primo posto tra gli stranieri denunciati per i furti con destrezza (37% degli stranieri denunciati, e 24,8% del complesso dei denunciati), i furti di autovetture (29,8% degli stranieri e 11,2% del totale dei denunciati), le rapine in esercizi commerciali (26,9% e 8,7%) e le rapine in abitazione; e per alcuni reati violenti, come gli omicidi volontari consumati (15,4% degli stranieri denunciati e 5,3% del totale) e le violenze sessuali (16,2%) All’aumento dei cittadini rumeni denunciati corrisponde una crescita dei detenuti rumeni che nel mese di giugno erano 2.267, vale a dire il 5,2% del totale dei detenuti (che a quella data erano 43.957) e il 14,5% dei detenuti stranieri (che erano 15.658).

Conoscere più a fondo il fenomeno della tratta. Le vittime di tratta che tra il 2000 ed il 2006 hanno potuto beneficiare dei progetti di assistenza ex art. 18 sono 11.226, di cui 619 minori. In realtà non è possibile verificare se questo numero corrisponda a singole persone, ovvero se vi siano state duplicazioni. Tra il 2000 e il 2006 i permessi di soggiorno concessi risultano essere 5.653.

Analoghe difficoltà si riscontrano se si intende descrivere l’universo dei cosiddetti sfruttatori. Il maggior numero di denunciati riguarda il reato di sfruttamento della prostituzione: 2.874 nel 2006; 129 sono stati i denunciati per il reato di tratta di persone; crescono negli ultimi tre anni del 21,2% i denunciati per riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (dai 340 del 2004 ai 412 del 2006); aumentano del 17,2% i denunciati per sfruttamento della prostituzione minorile, che sono 340 nel 2006; diminuiscono, rispettivamente del 28,1% e del 9,2%, i denunciati per i reati di acquisto ed alienazione di schiavi e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
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